L’amore al tempo dei criceti veneziani

Tinyhamster

Tutto quello che puoi sperare quando si realizza l’ipotesi di un appuntamento al buio organizzato su Internet e che lui/lei non sia un piccolo quadrupede peloso/a, con le orecchie da topo ed una coda ritta ma spesso invisibile, tanto è sottile. Perché a quel punto, sarà difficile dire di no. C’era un criceto, una volta, tanto grazioso che si diceva avrebbe fatto strada e così fu: grazie alla mano degli umani, anzi dell’umano suo padrone, ma che dico di HelloDenizen, un’intera compagnia di social marketing autrice di una serie di cortometraggi in cui l’avvenente bestiolina veniva messa da principio, occasionalmente in solitaria, molto più spesso con diversi amici, direttamente a contatto con il gusto ed il piacere della vita principesca delle star. Che non si cucinano da sole, salvo l’eccezione di una sera e tanto per cambiare, bensì ricevono, su piatti metaforici d’argento, ogni sorta di delizia e pantagruelica vivanda da gourmet. È giusto così: a San Valentino anche un appartenente alla famiglia dei roditori Muroidei può sfruttare l’eleganza di un contesto particolarmente pregevole per trovare la sua lei. E non c’è luogo maggiormente adatto a tale scopo, come ampiamente dimostrato da stereotipi internazionali, che l’antica città di Venetiarum Civitas, formatasi a partire da un gruppo di piccole comunità nel 421 d.C. per meglio sfruttare le saline e le risorse ittiche di una laguna ricca di opportunità. Ma che nei lunghi e variegati secoli si è trasformata, attraverso stadi successivi di miglioramento, nella perfetta manifestazione di un sogno terreno, in bilico tra ricche architetture, piccioni svolazzanti e luce della Luna che si specchia lì nell’acqua del canale, sotto ponti che sussurrano parole di suggerimento simili a quel Bergerac: “Gioisci, dunque. Inspirar amore sol per una caduca maschera esteriore dev’esser per un nobile cuore uno strazio. Ma l’anima tua cancella il tuo bel viso…” Dal naso rinomato, tanto spesso riproposto in mille inutili varianti, ma mai in questo modo, immobile, davvero concentrato su suoi baffi. Perché l’amore è cieco ma ci sente benissimo e due criceti che risucchiano mini-spaghetti, posti su di un tavolo a misura nel celeb(errimo?) Ristorante di quel Tony presunto-nome, producono soltanto un tipo di poesia. Masticatoria ed entusiasta, certamente famelica, attentamente direzionata per l’acquisizione di risorse caloriche nelle vistose guance a forma di sferette, segno di riconoscimento di quell’animale. Che tale tornerà finita quella sera, tutt’altro che romantico e meditabondo. Che corre nella ruota! Che mangia la sua innamorata! (E pure i figli, se osi dargli tempo e modo).
Pur ricordando sul concludersi del pasto cannibalesco, possiamo ben sperare, l’estasi umanizzante del gradevole contorno consumato, commestibile al pari del quibus gastronomico che viene lì proposto. Di una gondola cartonata, di una candela torreggiante, dell’intera città del doge riprodotta grazie all’uso di una serie di..Buste? Con finestre, prese chissà dove, tanto variopinte da sembrar casette fatte con il marzapane. Per non parlar del cameriere-Super-Mario che suona la miagolante fisarmonica, immancabile segno d’amorevole italianità (ehm?)

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Parli come un cane della prateria

Prairie Dogs

Il primo giorno neanche mi avvicino. Osservo da oltre la dolce collina, il mio cavallo saldamente assicurato a un cactus della tiepida Arizona, la grande tribù dei Gunnison che s’industria nei suoi riti quotidiani. È chiaro che se davvero voglio stabilire un punto di contatto con il mondo sotterraneo di cui parlava Nonna Papera nelle sue storie, occorre procedere per gradi. Avere la pazienza di essere accettati mano a mano. Sono bestie queste, in fondo, alquanto differenti da noi altri viaggiatori della prateria. È presto chiaro che l’individualismo per loro non esiste. Sempre assieme, si agitano, discutono sui territori di ciascuno e qualche volta litigano, tendono a rincorrersi. Da un piccolo monte di terra con un buco in mezzo, come l’emicupola di un carro armato, sporge l’anziano del villaggio. È tanto grosso che ci passa appena, eppure tutti lo rispettano. Egli si guarda attorno attento, le zampette anteriori saldamente assicurate al bordo della sua fortezza, il manto marroncino che si agita nella leggera brezza del mattino. Basta un cenno di quel fiero condottiero per dirimere le liti, silenziare le proteste dei suoi giovani più scapestrati. Gli altri cani capi delle rispettive famiglie, di tanto in tanto, si recano sotto l’ombra della sua imponenza e parlano, gesticolano, assumono posizioni significative per lunghi e pesantissimi minuti. Quindi, apparentemente soddisfatti, spariscono di nuovo nelle buche. Verso la metà del pomeriggio, con i raggi del Sole che già ghermiscono le cime delle Gila Mountains, consumo la carne del coniglio ucciso ieri. Temporaneamente soddisfatto, leggo un libro ed entro nel mio sacco a pelo.
Mi sveglia il grido di un condor di passaggio, anzi no; ciò che gli fa seguito nella colonia contrapposta, giù dentro la valle delle pietre. Per la prima memorabile volta, già da oltre 100 metri di distanza, riesco a udire il suono della loro voce. È subito chiaro perché li abbiano chiamati come il tipico animale delle case: i roditori, contrariamente all’apparenza, stanno DAVVERO abbaiando. Ma paragonare un tale verso alle semplici lamentazioni di chihuahua, mi pare, sarebbe una grossolana inesattezza. Il loro verso collettivo pare una sirena che si agita sulle frequenze del sensibile, poi scende di tono, sale ancora e ancora e ancòra. Finché alla fine, spunta fuori il grande Toro Seduto alto 42 cm, gli occhi neri strabuzzati, le zampe rivolte verso il cielo. Getta il suo capo all’indietro e lancia un grido sconvolgente mentre YIIIP-YIIIP, riecheggiano i suoi simili dalle diverse buche. L’allarme è stato diffuso, il messaggio è chiaro. Il rapace, senza neanche voltare l’affilato becco verso la cacofonia sul suolo, vola via per la sua strada.
Le grandi scimmie. Le balene, chiaramente. Qualche delfino tra i più splendidi e educati: l’antica concezione, per cui il linguaggio sarebbe la maggiore invenzione, la più inimitabile medaglia appuntata sull’uniforme dell’umanità, è da tempo stata superata. Gli animali comunicano tra di loro, e non soltanto grazie ai gesti, alle movenze, ai feromoni. C’è una naturale tendenza a sopravvivere, comune ad ogni forma di vita, che conduce verso la ricerca continua di rimedi e scappatoie. Non sempre, la semplice selezione del più forte è ciò che guida il passo dell’evoluzione. Perché il più debole, piuttosto spesso, può vantare alternative qualità. Una caratteristica della prateria temperata, oltre al clima secco e la conseguente rarità di piogge, è la quasi totale assenza di piante ad alto fusto. Il che dona, ai suoi abitanti anche più piccolini, una visione molto estesa dell’ambiente circostante, dei suoi pericoli, dei predatori. E un cane, soprattutto se stanziale, per sopravvivere non può pensare solamente alla sua pelle. Deve osservare le regole dell’opportuna solidarietà.

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Sciocco scoiattolo, tuo figlio non è una nocciolina!

Red Squirrel

I roditori hanno una naturale propensione al raggiungere il nucleo centrale del problema. Nel caso celebre del topo messo dentro a un labirinto, ad esempio, ogni volta va a finire nello stesso modo: non importa quanto sia lungo e tortuoso il sentiero da seguire. Quanto piccolo il pezzetto di emmenthal bucato… “Quel formaggio sarà mio” sembra enunciare il cacciatore, prima d’inoltrarsi, gambe in spalla, coda a far da strascico e timone, verso quell’uscita benedetta col tesoro posto a far da sacro segnaporta. E naturalmente, non si può risolvere una tale cosa, il dedalo degli scienziati, senza visitarne il centro esatto, come fosse il cuore di una ghianda, della noce oppure della vita stessa, riprodotta in forma percorribile per dar ludibrio ai cupi sperimentatori. Può sembrare crudele, eppure non lo è. Può dar l’idea di una sublime forma di tortura, l’ansia di un irrisolvibile miasma, ma è invece bello per l’umano, come per il topo, trionfatore dell’ennesima battaglia con la fame di emozioni e placide soddisfazioni. Incredibile, meraviglioso.
E i criceti nella ruota. Corrono senza un perché, verso destinazioni mai sentite, viste o raccontate, vivide soltanto nella loro mente. Dove si nasconde, intonso, un’altro tipo di remoto labirinto. Forse il più complesso, fatto di villi e di cavilli, quel cervello che li spinge a deambulare tanto per campare, industriarsi, evitando di annoiarsi. Quando un roditore, qualunque sia la sua genìa, entra in quel mondo dell’insussistenza, nulla può fermarlo, neanche l’evidenza. Ecco una scoiattola del tipo chipmunk, lo sciuride Tamias dalle graziose strisce, che ha concepito l’idea strana, quanto illogica, di far di un paracarro la sua casa. Si tratterebbe, stando alla descrizione del presente video, della struttura metallica protettiva, evidentemente cava, posta tutta intorno ad un RV (l’acronimo, tipicamente americano, che indica i camper oppure le roulotte). Già un ostico proposito, visto il modo in cui l’accesso sia soltanto un limitato buco nero, pressappoco circolare, con un diametro che è pari ai fianchi dell’intera bestiolina. E praticamente impossibile, quando si nota come la futura abitatrice, prima di potersi rilassare, dovrà introdurvi il proprio figlioletto “alquanto” cresciuto. Diciamo, adolescente? Anzi, si. Praticamente è grosso quanto lei.
Ma nella società degli arrampicatori silvani, quadrupedi dalla soave coda, l’età non una conseguenza dell’anagrafe. Bensì quella che ti senti dentro! Così, da esemplare bamboccione, offre l’unica collaborazione di raggomitolarsi, per quanto possibile, aspettando di essere portato a meta, per sdraiarsi e accendere il televisore. E spingi e tira, alza e premi (uff!) Nonostante tutto, alla fine…

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Airone azzurro ovvero il killer silenzioso

Airone azzurro

Nei panni della vittima, mettetevi per una volta al posto del dannato roditore. Cibo dei serpenti, trastullo dei felini, giocattolo per gli zelanti cani del genere terrier. Che non ha colpa se vi ruba il cibo e porta malattie, se recide i cavi della luce o si trasforma in tappo per grondaie, dopo improvvide, ingiuriose morti per soffocamento: in fondo, lui, è soltanto un topo. O se siete negli Stati Uniti, qualche volta, un gopher dalle tasche, ottimo scavatore di profonde gallerie. Comprendente il dilemma di questo abitatore abusivo dei vostri giardini, dico, per quest’oggi almeno, grazie allo strumento dell’analisi comparativa. Perché se anche noi umani siamo perennemente in cerca, dalla nascita fino alla fine, di creature belle, nobili, eleganti, spesso è solo una questione di carote o di patate o di altri frutti della terra. Che le piccole palle di pelo rubano, giorno dopo giorno, per nutrire la copiosa prole senza colpe. La vita è piena d’ingiustizie. Poi ci sono i casi strani.
Jessie Garza stava riprendendo, verso la mattina dello scorso 5 agosto, una scena che non vedi tutti i giorni: l’incedere maestoso dell’uccello Ardea herodias, comunemente detto airone azzurro maggiore, mentre graziava la radura erbosa dietro casa sua. Un metro in altezza di volatile, con il collo flessibile, il piumaggio variopinto e zampe lunghe da cicogna. La cui presenza fa insorgere, naturalmente, una domanda: “Cosa starà mai cercando, questo uccello pescatore, nel bel mezzo della terra ferma? Vermi giganti?” Questo non è certo un passero, che possa accontentarsi di una piccola merenda, qualche briciola, insignificanti rimasugli. Sopra la grande distesa dell’Oceano azzurro, piuttosto, trangugia persici, spinarelli o percimormi in grande quantità. Ma è talmente spinto dall’istinto della caccia solitaria, che talvolta si avventura ben al di là della risacca. Fino a prati verdi, sotto cui si annidano dei pesci molto differenti. Quadrupedi pelosi, graziosi, addirittura deliziosi. Del tutto inermi contro la voracità del grosso becco giallo.

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