Il sogno realizzabile di un sommergibile prodotto in casa

Euronaut sub 2

Quando si analizza la questione da un punto di vista meramente oggettivo, appare chiaro che esistono due modi validi di passare il proprio tempo libero, entrambi produttivi ma in maniera totalmente differente. C’è chi esercita le proprie doti e prerogative alla ricerca di soddisfazione immediata, praticando un gesto o un’arte che raggiunge l’apice nel giro di un week-end appena, in un ciclo di fatica ed estasi facilmente ripetuto fuori dal lavoro, mentre altri guardano al futuro, fiduciosi che in un tempo medio riusciranno a giungere a coronamento di un complesso desiderio. Come…Eliche possenti, che spingono 60 tonnellate di metallo alla profondità di 250 metri, senza si presenti l’esigenza di tornare in superficie per un tempo di una/due settimane. La missione non era in alcun modo semplice, ponendo questo particolare passatempo all’estremità ulteriore dello spettro, come si può desumere dalle tempistiche realizzative rilevanti: per 24 anni ci ha lavorato, l’architetto navale Carsten Standfuss, ripartiti in due segmenti equivalenti di 12, il primo dei quali necessario per progettare il sofisticato motore Diesel che spinge il natante quando si trova in superficie, ricaricando inoltre le sue batterie impiegate in immersione (perché non può esserci combustione, senza un consumo d’ossigeno spropositato). Mentre la rimanente parte di questo vero e proprio pezzo di vita è stata impiegata per l’effettiva messa in opera del progetto, effettuata presso un cantiere collocato a poca distanza dalla abitazione del creatore, presso la città di Brema, nel Nord Ovest della Germania. Ed è indubbio che il prodotto di una simile fatica, allo stato dei fatti, sia degno di essere iscritto in un albo con i più incredibili prodotti dello svago; l’effettiva realizzazione, pienamente funzionante, dell’apparente controsenso di un’imbarcazione sommergibile totalmente autonoma che non soltanto è di proprietà di un privato, ma opera al di fuori della logica usuale di questi dispositivi, nati in campo bellico e che in questo trovavano la loro unica collocazione naturale. Mentre questa (relativamente) piccola meraviglia della tecnica, lunga appena 16 metri e con un equipaggio di fino a 5 persone, nasce con uno scopo primariamente orientato alla ricerca di relitti sommersi, un’opera notoriamente redditizia. Per lo meno, quando l’allineamento delle stelle si realizza come capita una volta ogni due decadi, e ci si trova al cospetto di un qualcosa di davvero rilevante. Ma di questo assai probabilmente poco importa, a Standfuss e il suo team di meccanici, elettricisti, tecnici metallurgici, studenti…Reclutati attraverso gli anni e abilmente trascinati con la sua passione, giunti quindi a dare il proprio contributo al primo varo lungamente atteso, avvenuto nell’estate del 2012 al principio di una lunga serie di avventure. La stessa esperienza di trovarsi coinvolti nel tour operativo di un qualcosa di talmente unico, così privo di precedenti, dev’essere bastato a soddisfare l’impegno dedicato all’idea. È interessante notare come, nonostante l’investimento certamente non trascurabile, molti dei macchinari e delle parti costituenti del sommergibile sono state acquistate di seconda mano o costruite appositamente per l’occasione. L’effettiva costruzione di un sub dotato di componentistica di ultima generazione sarebbe stata forse ancora più gravosa e inaccessibile, oltre che inutilmente complessa. E in merito a questo, la mente sommergibilista Standfuss era certamente bene informata, visto come la sua prima opera nel settore risalisse all’età di soli 18 anni, quando aveva costruito un piccolo sommergibile monoposto, il Sgt. Peppers, dal peso di appena 575 Kg e interamente basato su componentistica low-tech.
Oggi il sito ufficiale di Euronaut, disponibile nelle due lingue tedesco e inglese, si presenta come un confuso archivio fotografico di encomiabili successi, tra cui quest’ultimo della scorsa estate, raffigurato nel video soprastante, relativo ad una visita effettuata, da un equipaggio quasi totalmente nuovo, del relitto della Sandtrans, nave scavatrice danese affondata nel 1978 nel Mar Baltico, presso l’isola tedesca di Darss. Il video si apre, in modo estremamente soddisfacente, con l’incontro tra le onde di una piccola imbarcazione locale dal nome di Storkow, forse un peschereccio, i cui occupanti si affollano sul ponte ad indicare il più improbabile evento di giornata: un comandante, Standfuss  stesso, in bilico sul castello di prua e con il timone remoto alla portata delle dita, che scruta saggiamente l’orizzonte. Sotto di lui, un’intera imbarcazione invisibile, perché nascosta dalla superficie stessa del presente mare. Non è difficile immaginare le improvvisate e accidentali controparti, mentre sussurrano fra loro: “Ma chi è questo?” Oppure un più prosaico: “E ti pareva! Gente di città…”

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Centinaia di scienziati esultano per il ritorno di un razzo

Blue Origin

La scena si svolgeva lo scorso 23 Novembre. Il luogo dell’azione: il centro di lancio della Blue Origin presso Culberson County in Texas, di proprietà del magnate e fondatore di Amazon, Jeff Bezos. È fatta, eureka, ci siamo! Tutti quegli sconti natalizi, le promozioni del Black Friday e i lettori di e-book, le pubblicità per strada e sui giornali…Ci hanno permesso di acquisire i fondi. Per lanciare una pesante cosa oltre la stratosfera, riuscendo poi a recuperarla, perfettamente integra e già quasi pronta a ripartire. Mentre il razzo torna verso il suolo, proiettando la sua fiamma alla maniera di una galattica candela sottosopra, la platea dei tecnici, teorici e ingegneri che hanno partecipato al progetto osservano la scena sugli schermi, trattenendo il fiato. Il primo timido grido di gioia si ha all’accendersi dei motori retroattivi, secondo un piano attentamente definito. Quindi, la colonna celeste decorata con la grossa piuma apre il suo carrello, tra scrosci d’applausi e gente che si alza in piedi, alzando già le braccia, coprendosi le orecchie e il volto, per lo meno parzialmente. Dovranno pur guardare! Quando alla fine il razzo tocca terra, e si ferma senza rovinare disastrosamente al suolo, apoteosi. Non c’è laurea pregressa che possa fermare l’infantile senso d’esultanza, tra risa, baci, abbracci, rutilanti cori da stadio. La missione si è conclusa. Ora inizia…
Lo spazio: l’ultima delle frontiere. La cui effettiva posizione, per sua imprescindibile natura, varia col passare del progresso tecnologico e l’impegno collettivo. Tutto iniziò dieci anni esatti dopo la fine della seconda guerra mondiale, quando Stati Uniti e USSR giunsero, in quasi assoluta concomitanza, alla costruzione di missili balistici così potenti, ed affidabili, da poter condurre un carico esplosivo tra i confini più remoti della nostra Terra. Oppure, incidentalmente, un oggetto di qualsiasi tipo oltre i confini degli strati superiori della nostra amabile atmosfera. A quel punto, le carte erano i tavola, le regole fin troppo chiare: la prima che fosse riuscita nell’impresa, tra le due superpotenze che già scrutavano l’un l’altra con tremenda diffidenza, avrebbe “vinto”. E a trionfare in tale primissima battuta, come sappiamo molto bene, furono i sovietici nel 1957, mettendo in orbita la sfera con le antenne dello Sputnik, prima astronave nella storia dell’umanità. Prontamente, allora, l’obiettivo fu spostato: un secondo passaggio della variabile Frontiera, da quel giorno fatidico, avrebbe richiesto la presenza di un essere vivente, possibilmente in grado di narrare l’esperienza nelle sue memorie. 1959: mentre gli americani sono impegnati nei preparativi del loro razzo Mercury, il cosmonauta Yuri Gagarin compie il suo storico giro attorno al pianeta, a bordo della capsula del Vostok 1. Di nuovo il blocco Occidentale, sconfitto e deluso, insegue la cometa rossa dei propri nemici percepiti. A gennaio del 1961, John F. Kennedy accede alla carica di presidente degli Stati Uniti. Nei tre anni in cui sarebbe stato in carica, prima di essere tristemente assassinato, avrebbe portato a compimento il programma in grado di portare il primo americano a compiere un volo sub-orbitale, dopo soli tre mesi dall’inizio del mandato, superando la soglia meramente tecnica dei 100 Km d’altitudine. Prima di tornare, come il veicolo di Blue Origin ma senza tutto il razzo intorno, sano e salvo verso il suolo. Il nome di quest’uomo, destinato a passare alla storia come il migliore e più importante dei secondi arrivati, fu Alan Shepard (1923-1998). A quel punto, nella volubile percezione dell’opinione pubblica, avviene un nuovo cambiamento. La grande frontiera si allontana ulteriormente, verso quell’astro che domina il cielo notturno, la chiara, enorme Luna. Kennedy risponde all’esigenza istituendo i due programmi paralleli, di Gemini ed Apollo. Finalmente la situazione avrebbe sperimentato un capovolgimento, tanto a lungo atteso…
Ma noi, spostiamoci di un ventennio. Negli anni ’80 e ’90, con l’ulteriore crescita delle aspettative, la frontiera dello spazio finì per scomparire all’orizzonte. Posizionata fin troppo lontano, verso il rosseggiante pianeta Marte, diventò gradualmente una meta per lo più teorica, sostanzialmente irraggiungibile allo stato attuale delle cose. Giacché per conseguire un simile obiettivo, come era stato dimostrato in precedenza, era necessario sussistessero due condizioni: risorse economiche potenzialmente inesauribili, per lo meno al complicarsi progressivo delle cose, e il bisogno percepito di “prevalere”. Non tanto contro un concetto aleatorio, come i limiti situazionali, o le aspettative comunitarie, quanto nei confronti di un avversario estremamente concreto ed implacabile, qualcuno che riuscendo a soverchiarci, avrebbe acquisito un vantaggio sensibile di popolarità. Per non dire poi, più meramente strategico, nel caso di bellici e riscaldamenti. Una situazione che oggi, carri armati esclusi, sta sussistendo nel settore privato, in cui da qualche anno competono due possenti compagnie. La loro frontiera può apparirci orientata a una domanda di mera e semplice convenienza economica: si può riutilizzare un razzo? Sono la Blue Origin di Bezos e Space-X, di Elon Musk.

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La pesante minaccia delle àncore impazzite

Anchors lost

La mia pietra, una colonna, il grande, stabile pilastro di sostegno. Mentre soffia il vento e scorre il fiume, se il tempo passa assieme ai presupposti di staticità, quando impazzano le brezze della Tramontana e del Maestrale, se neanche più le fronde sembrano una sicurezza. tanto gli alberi si piegano dinnanzi al vento e alla natura. Proprio allora quella grande nave che è nel porto, tranquillamente, giace. È questa, un’assenza di movimento che difficilmente può essere spiegata, tranne che attraverso una pericolosa presa di coscienza: sono 50.000, 80.000 tonnellate, che non si smuovono soltanto per l’effetto di una lunga e solida catena. Legame il quale dalla prua di un simile natante, correndo in senso perpendicolare, si estende fino ad un arpione dalle dimensioni impressionanti. Quanto pesa, in effetti, un simile dispositivo? Dipende, ma in media, per navi della stazza di questo mercantile che dovrebbe essere greco (la nazionalità è resa palese dalle imprecazioni) stiamo parlando di 20 tonnellate, soltanto per la testa acuminata, e 5 aggiuntive per ciascuno shot di catena, una misura internazionale che corrisponde a 15 fathoms, ovvero 30 metri circa. Considerata la lunghezza di quest’ultima, dunque, è possibile stimare la massa complessiva di quanto siamo qui a vedere, diciamo sulle 100, 120 tonnellate. Ora immaginate una sfera da demolizione, così pesante, fatta oscillare all’indirizzo di un palazzo. Oppure un impossibile titano, alto quanto un grattacielo, che un cosa simile la fa oscillare, avanti e indietro, avanti e indietro, cercando di scacciare via un drago di mare. Simili visioni, assai probabilmente, basterebbero a gettare nello sconforto la quasi totale collettività. Allora perché, pensando all’àncora, il primo sentimento che proviamo è un assoluto senso di tranquillità e sicurezza, quasi come se mai nulla potesse andare storto, nell’impiego di questo particolare attrezzo di marina… È una tipica nota del diario di bordo, la conclusione che esonera dalle responsabilità: “Quindi, giunti nel porto di___ gettammo l’àncora, per poi sbarcare.” Eppure, non c’è forse un singolo momento più pericoloso, nella navigazione priva di imprevisti, che quello in cui si effettua tale operazione, di srotolare la più lunga e solida catena che venga forgiata alla stato attuale delle cose. E per rendersene conto, non occorre fare altro che cercare due semplici parole online: la prima è anchor, la seconda, loss.
Sta facendo parlare di se negli ultimi giorni questo inquietante video, riprodotto in almeno due canali di YouTube a partire dallo scorso 22 novembre, in cui si è chiamati a prendere coscienza di cosa possa succedere, a bordo di una nave, nel caso in cui l’equipaggio non sia pienamente a conoscenza di determinate norme operative. Per un incidente che non sembrerebbe avere, in effetti, altra causa che l’errore umano. Tutto inizia in modo relativamente rilassante. C’è un marinaio, in impermeabile giallo ma del tutto privo di abbigliamento di sicurezza (primo errore) che manovra faticosamente un grande argano, dal quale discende la catena detta rode, al termine della quale trova posto lo shackle o gyve, un’asola di metallo, con la forma di una U. Quest’ultima, fermamente saldata all’asse centrale del grosso pezzo di metallo titolare. Ora, effettuare tale operazione non è particolarmente semplice, visto come tutt’ora, persino in questa epoca di alta informatizzazione, nessun tipo di apparecchiatura automatizzata partecipi di tale responsabilità. Occorre quindi dosare attentamente il freno del dispositivo, attraverso l’uso di un pesante sistema a manovella, che avvicina o allontana in base alla necessità le colossali pastiglie necessarie a far fermare un peso simile, spietatamente attratto dalla gravità. Succede così, per ragioni non eccessivamente chiare, che l’uomo faccia compiere al comando un mezzo giro di troppo, senza poi intervenire subito a correggere l’errore. Così la catena inizia a accelerare, inizialmente in modo impercettibile. Quando i due colleghi, che si trovavano sul fondale, si voltano finalmente per il frastuono, è già troppo tardi per fare qualsiasi cosa…

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Metodo cinese per sostituire un ponte in 36 ore

Rapid bridge replacement

Nulla dura per sempre, tranne il concetto di necessità. Attraverso le generazioni, per le sua essenziale predisposizione, la città di Pechino è stata al centro della storia della sua regione: imperatori, generali e funzionari di partito, in tempi più recenti, gli eredi degli antichi mandarini, hanno varcato le sue porte a piedi o a cavallo, all’interno di carrozze con l’effige del dragone oppure semplici automobili, fin’anche tramite le macchine volanti dell’irraggiungibile modernità. Come un tempo sulle ripide strade tra le brulle montagne di Jundu, impresse nella mente delle guide locali, o tra i verdeggianti colli di Xishan, progressivamente trasformati in zona suburbana, così adesso lungo quei sentieri, in ferro e asfalto, che costituiscono le superstrade. Un metodo veloce. Un sistema estremamente efficiente. Che tuttavia comporta, inerentemente, una problematica di fondo: l’usura. Ed era stato proprio un simile fattore, negli ultimi anni, a condizionare l’utilizzo dell’importante viadotto di Sanyuan (三元: dei tre assi astrali, oppure in modo più prosaico, delle tre monete da uno Yuan ciascuna) collocato a partire dal 1964 sul terzo raccordo cittadino, con lo scopo ritenuto fondamentale di collegare la strada verso l’aeroporto internazionale con la Jingshun Road per raggiungere Shenyang, Liaoning. Tanto importante, per il quadrante nord-orientale della metropoli, da dover sopportare il passaggio giornaliero stimato di approssimativamente 200.000 autoveicoli, una cifra che difficilmente può trovare una corrispondenza altrove, persino nelle grandi città americane. Il Manhattan Bridge, per dire, ne raggiunge “appena” 70.000. E se persino l’acqua e il vento, in secoli e millenni, possono erodere le più alte montagne, immaginatevi allora l’effetto che possono avere tali e tante tonnellate quotidiane, sulla sezione sopraelevate di uno svincolo a quadrifoglio di questa strada, i cui petali vengono percorsi anche soltanto per fare inversione di marcia, ovvero, dalle auto che procedono sul viale perpendicolare. Studi effettuati in epoca recente l’avevano dimostrato: lentamente, inesorabilmente, i pilastri del sovrappasso andavano sprofondando nel suolo del quartiere periferico circostante, denominato niente affatto casualmente Sanyuanqiao, come la primaria strada in questione. Urgevano interventi di riparazione.
Si, ma come fare? Potrete facilmente immaginare le problematiche architettoniche ed ingegneristiche di un qualsivoglia intervento conservativo su una simile struttura, per sua stessa natura semplice, eppure estremamente sofisticata. Applicare puntelli, aggiungere paletti, consolidare colate cementizie, sono tutti approcci che potrebbero servire in casi specifici di vario tipo, ma che in nessun modo potevano aiutare a contrastare l’effetto della gravità. L’unica speranza era, letteralmente, smontare il ponte e poi ricostruirlo da capo, mediante l’impiego di tecnologie edilizie più moderne. Un’impresa, innanzi tutto, costosa, ma che ancor più gravemente avrebbe condotto alla chiusura prolungata di una simile arteria stradale, semplicemente irrinunciabile alla vita quotidiana di innumerevoli persone. Ed è qui che entra in gioco l’invenzione, una tecnica semplicemente straordinaria. In questo video, comparso improvvisamente sul canale della CCTV America e presto ripreso da numerose testate internazionali, si può osservare un’implementazione super-efficace dell’approccio definito ABC, ovvero Accelerated Bridge Construction, mediante il quale una di queste strutture può essere sostituita, letteralmente, nel giro di un singolo week-end. Prima di iniziare a intavolare comparative poco lusinghiere coi processi che abbiamo visto in atto in prossimità delle nostre rispettive abitazioni, ad ogni modo, sarebbe opportuno fare una precisazione: questa procedura di far camminare 1300 tonnellate di acciaio e cemento tramite l’impiego di SPMT (Self-propelled Modular Transporters, mezzi enormi con dozzine di ruote) semplicemente non è adatta a tutte le diverse circostanze. E poi, costa molto, molto di più: secondo quanto riportato dalla news agency Xinhua, la sostituzione ha comportato una spesa approssimativa di 39 milioni di Yuan, equivalenti a 6,1 milioni di dollari americani. Forse abbastanza da giustificare la sopportazione di qualche piccolo disagio, laddove, diversamente dalla spropositata Pechino, ne sussista la possibilità.

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