I mostri anamorfici di Nagai Hideyuki

Nagai Hideyuki 1

La vista è un senso facile da ingannare, che può nascondere tra luci ed ombre le più recondite verità. Annusare significa trovarsi vicino, udire suggerisce l’idea di presenza o comunicazione, gustare permette di assumere in se l’essenza delle cose… Toccare con mano, più di ogni altro gesto, è la prova di fatto che annienta ogni effimera illusione. Ma basta una superficie bidimensionale, valorizzata da linee e colori disposti nel modo giusto, per creare un mondo alternativo, completamente separato dalle realtà fisiche dell’ambiente in cui ci muoviamo. L’opera di questo artista non esprime la sua originalità unicamente nella scelta del soggetto. Perché Nagai Hideyuki disegna i mostri come se fosse uno di loro: creando occulti e mistici miraggi. La rassicurante barriera del foglio di carta, concettualmente insuperabile, nelle sue creazioni appare tuttavia estremamente debole e sottile, quasi insufficiente. Si tratta di illusioni anamorfiche (ne abbiamo già parlato) ovvero impossibilità grafiche che assumono la propria vera forma unicamente se osservate dal punto giusto. Solo che stavolta sembrano uscite da un romanzo del fantastico di H.P. Lovecraft. Intellettualmente pericolose e per questo, più di ogni altro aspetto, affascinanti.

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Dipinge un quadro in 90 secondi, ma c’è la sorpresa

D.Westry

Tra i concorrenti dei talent show moderni, non più dedicati a un solo tipo di spettacolo, per ciascun episodio è previsto che qualcuno vada oltre il “semplice” ballare, cantare o suonare uno strumento. Spesso si tratta di un professionista del palcoscenico dotato di mezzi non convenzionali, in grado di creare un minuto di valido intrattenimento usando una particolare o strana performance di sua invenzione; qualche altra volta, invece, il presunto showman è stato in realtà chiamato dagli autori solo per rivestire il ruolo della macchietta. Un individuo simpatico ma incompetente, che dovrebbe spezzare il ritmo televisivo, volente o nolente, usando la sua naturale faccia tosta. Nei rari casi in cui tali programmi dovessero andare in onda in diretta, come per Anderson’s Viewers Got Talent, rubrica del quasi omonimo talk show statunitense condotto da un famoso giornalista della CNN, il fatto che stia per verificarsi l’una o l’altra conclusione, all’insaputa persino dei presenti in studio, può dare vita ai migliori colpi di scena della TV generalista. Un’eventualità che si palesa gradualmente, ma in maniera sempre più forte e infine travolgente, nella crescente e gustosa incertezza dei tre giudici presenti all’esibizione di questo pittore velocista, ovvero un praticante del cosiddetto speed painting, mentre realizza il suo intero quadro nel pochissimo tempo a disposizione. Cortese interesse… Leggera perplessità… Dubbio… Delusione… e poi… Si ribalta la situazione.

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Due burloni si trasformano in statue d’arte moderna

Doug and Michael

Nella Saatchi Gallery e nel Tate Modern di Londra sono state recentemente esposte, almeno fino all’intervento della sicurezza, due opere d’arte nate da un raro tipo di processo creativo, del tutto accidentale: intitolate ufficiosamente “Doug” e “Michael”, si presentavano con l’aspetto di individui in camicia e cravatta, dagli occhi chiusi e con pallina gialla in bocca. Persone vere piuttosto che sculture iperrealistiche, all’insaputa dei molti visitatori presenti in quel momento nelle due gallerie, sono stati trasformati nel soggetto principale di innumerevoli fotografie e approfondite discussioni. Cosa avranno detto su di loro? Ma soprattutto, che avremmo pensato noi?
Perché al principio l’arte è movimento, dinamismo, vitalità. Nasce con un sentimento fantasioso che esplode dalla mente e scorre nelle mani del creativo, assumendo attraverso i suoi gesti forma materiale, affinché altri possano trarne giovamento e goderne a un qualche livello intellettuale. Ma al termine del lungo attimo della sua generazione, posato il pennello o gli strumenti da scultore, l’opera d’arte resta immobile e stazionaria, preservata in eterno come un fossile pietrificato o il manoscritto di un’irripetibile dottrina, soggetta da quel giorno allo scrutinio della sua posterità. Più di una persona è stata trascinata a sua insaputa dal vortice variopinto dell’arte: se non vuoi essere il creatore, diventi tu la creazione. Non potete renderla ridicola senza commentarla in un qualche modo, belle statuine. Ora fermi che vi faccio anch’io la foto.

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L’artista giapponese che crea immagini dalla scrittura

Kaoru Akagawa

L’arte digitale ci ha insegnato che tutte le immagini presentano un aspetto imprescindibile e costante: la scomponibilità. Le rappresentazioni visuali di ogni tipo, infatti, possono venire suddivise in parti sempre più piccole e per nulla indipendenti. Settori, dettagli, puntini e infine pixel, la loro frazione minima e più indivisibile; ciò che potrebbe definirsi l’atomo della grafica, almeno quando s’impieghi il microscopio di un PC. Kaoru Akagawa sfida questa definizione con la sua particolare versione della pittura tradizionale giapponese, in cui le figure vengono assemblate gradualmente non più da singole frazioni prive di significato, ma con sequenze di lettere e parole della sua lingua; il metodo prevede sostanzialmente file verticali dell’alfabeto hiragana, disposte ad arte e dal tratto più o meno spesso a seconda dei casi, in grado di comporre mediante l’impiego esperto della loro forma naturale le linee riconoscibili di fiumi, foglie, strade… Persino la famosa grande onda di Hokusai. Si tratta della più originale unione tra antiche tradizioni e sensibilità moderna. Lo stile inconfondibile dello shodō che incontra quello dell’arte figurativa, usati insieme per creare ciò che lei stessa definisce sul suo sito, con un neologismo multilingua, Kana de l’Art. O per usare il nome del canale di YouTube che ospita il video, vera e propria avant-garde.
Un tipo di creazione che, a mio parere, si potrebbe giungere a identificare come una più meritevole ASCII art, la procedura informatica diventata celebre agli albori di Internet, che si usa per creare immagini con le sole lettere della tastiera. Ma trasferita totalmente in un mondo fisico e tangibile, fatto di inchiostro, pennello e un singolare quanto affascinante talento individuale.

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