Nella terra di Skyrim, la J di J-Pop sta per Jarl

Dancing Skyrim

Fa piuttosto freddo e non succede quasi niente, nel feudo pseudo-vichingo di Whiterun. A parte il ritorno dei draghi millenari, la venuta del Dovahkiin, unico discendente dagli imperatori dell’Età dell’Oro (che va in giro solo per fare sfoggio del suo Tu’hum) le scorribande di licantropi notturni, gli affari loschi della gilda dei ladri, la rinascita delle anime sotterranee, le cospirazioni contro l’ordine costituito e gli esperimenti pericolosi di Farengar Fuoco Segreto, sommo stregone del castello ombroso di DragonsReach. Una noia mortale, regnerebbe in tale luogo, se non fosse…Per cose… Quattro guardie, di cui una senza casco e quindi chiaramente più importante, si sono riunite nella piazza innanzi alla bottega della donna-fabbro Adrianne, nota per il modo in cui convince ingenui avventurieri a consegnarli una, due dozzine di coltelli fatti a mano, tanto perché: “La pratica rende perfetti…” Ma non andiamo fuori tema, spinti da vecchi rancori ludico-digitali. Questi figuri in tenuta giallognola, dunque, con scudo alla mano, stanno per scuotere le potenziali folle di teenager tra le mura in roccia d’arenaria e gli alti tetti paglierini del paese. La loro quest di giornata: uno sfrenato ballo in stile Idol/Aidoru, sarebbe a dire, caratterizzato da influenze marcatamente giapponesi/kawaii, con tanto di colonna musicale adatta all’occasione. Roba da far cadere i vecchi barbagrigia giù dalla montagna!
Gli appassionati di taluni passatempi computerizzati, fin da quando esiste l’open source, hanno prodotto nei secoli virtuali forme alternative dei loro balocchi preferiti. Sono, tali sovvertimenti dei comuni presupposti, i Mod, ovvero le alterazioni del funzionamento, delle regole o del mondo di un qualsiasi prodotto interattivo. Nonostante la serietà di una missione. Per quanto il mondo sia in pericolo. Lasciando damigelle rapite a deperirsi dentro agli umidi labirinti sotterranei. Sempre e comunque, se previsto in fase di programmazione, qualcuno troverà il metodo, oppur la voglia, di sdrammatizzare. È l’istintiva spinta a prolungare il divertimento, andando ben oltre ciò che era previsto dai creatori della scena, se non in via embrionale, sussurrando sottovoce tra i cubicles dell’edificio di lavoro. Qualche volta, come in questo caso, anche aggiungendo un giusto apporto di spietata sovversione. Sarebbe questa la versione nordica dei Village People, che si vestivano come i simboli della virile seriosità prima di scatenarsi sulle note della disco music. Soldati, poliziotti e così via. Perché naturalmente, noi ben lo ricordiamo grazie ai detti internettiani, che una buona parte dei soldati dello Jarl “Erano stati avventurieri” Prima di: “Prendersi una freccia nel…” Si, no. Il ginocchio. Però, ebbene, sarà meglio soprassedere. Una volta superate, queste stravaganze memetiche vanno fatte sprofondare. Il divertimento guarda sempre avanti. È la stessa storia di taluni videogiochi, concepiti per uscire tutti gli anni, che hanno un imprescindibile bisogno di durare il meno possibile. Soltanto tu, Bethesda software house, con tutti i tuoi difetti, ancora percorri la via di uno sviluppo aperto ai nuovi apporti, creativi, dei tuoi fan. E proprio grazie a questo, vendi ancora molto bene a mesi dall’uscita…

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Fuga ninja dalla scuola media superiore

Ninja girls

Come quando fuori ninja, così, d’un tratto. La vita è piena di rimpianti? Non in questo caso, di Fuka Yoshino, kickboxer professionista, e Muneomi Senju, la batterista del gruppo d’avanguardia dei Boredoms. Due ragazze giapponesi, nella compunta uniforme detta sailor fuku, che si lanciano dal terzo piano senza farsi male. Si arrampicano sui templi. Gettano in giro pericolosi chiodi a tre punte, pardon, makibishi. Si trasformano in pezzi di legno (!) Poi si rincorrono per la città di Atami, ridendo e scherzando, nella ragionevole approssimazione di un combattimento, senza posa, tra i guerrieri con il volto sempre in ombra, lame occulte nella notte, piedi lievi e grande agilità. Un principio di evasione da imitare.
Dopo le lunghe ore consumate sopra i banchi, dietro a materie sempre meno rilevanti, sotto a una campanella che non suona mai; la noia! Una faticosa sensazione di espletata rilevanza, che ti coglie senza presupposti di coinvolgimento. Mentre la mente vaga e si costruisce roboanti vie di fuga, tra l’ora di geometria, la ricreazione e quella di ginnastica. Perché il corpo freme nell’attesa. Di tornare all’aria aperta, per fuggire da una tale impenetrabile apparenza. Corri, salta, calcia e rotola per terra. Più ci pensi, meno riesci a farlo. Troppo complesso è liberarsi dalle imposizioni del contesto, trascendere il bisogno di quell’arbitrario voto, un triste numero tracciato a penna. Mancano le vie di sfogo. Ci si dedica, dunque, a collaterali attività. Le due protagoniste sono qui coinvolte in quello che, ai nostri occhi d’internauti, si presenta in modo molto chiaro. Parrebbe infatti una versione alternativa del concetto di parkour, la disciplina di origini francesi, che consiste nel prodursi in pazzeschi acrobatismi urbani, spesso rischiando infortuni…Di variabile natura. Un ambito sportivo d’azione, se tale si può definire, che da tempo trova interessanti associazioni con il contesto culturale giapponese. Per l’evidente analogia con certi antichi personaggi, associati allo spionaggio, l’assassinio e la furtività. Li conosciamo molto bene, grazie ai fumetti e ai cartoni animati. Anche il PK dei nostri giorni, del resto, nasceva in ambito militare, dalle teorie dell’ufficiale di marina Georges Hébert. Il quale affermava, nei suoi studi, che la forza derivasse dalla capacità di adattamento ad ogni circostanza e alle necessità dell’attimo presente. Appunto: è proprio questa, fondamentalmente, la distinzione tra i soldati semplici e quelli delle forze speciali; o per meglio dire nel nipponico contesto, tra i samurai ed i ninja. Appartenenti, spesso, alla stessa classe sociale, eppure drasticamente differenti per contegno e senso dell’onore. Perché i secondi, soprattutto, ricercavano il valore dell’utilità. Risolvere i problemi, invece che crearseli da soli. Metti caso, ad esempio, che sia ancora in corso la lezione dell’ultima ora. Le porte sbarrate della scuola, i custodi con le loro forti scope a forma d’alabarda, e i severi insegnanti, il crudele vicedirettore con i baffi stile Nobunaga; finita la pazienza, resta solo la rassegnazione. Giusto? Questa è l’unica strada ragionevole. Oppure, se rifiuti la minestra….

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L’uomo con l’iPhone più veloce al mondo

Morishowta

Se ne uccide più la penna che la spada, figuriamoci il telefonino. Specialmente in questo caso. Lavorando alacremente sotto la luce argentea della luna, Morishowta ha costruito cose. Sono armi, queste, contro il crimine e la noia. È bello guardarlo mentre, come i migliori supereroi, mette alla prova simili gingilli per i vicoli e le strade di un tranquillo, eppure vasto, centro urbano. Forse Tokyo, chi lo sa. Cosa importa, dopo tutto? Ciò che conta è crederci. E lui ci crede (veramente). Si è messo al tavolo da disegno, come un formale ingegnere tecnologico, progettando la soluzione di un problema, precedentemente irrisolvibile. Solamente perché ignorato, chissà poi perché. Stiamo parlando del ritardo nel rispondere allo squillo dello smartphone, che tante telefonate, importanti occasioni di dialogo in potenza, ha condotto verso il nulla dell’oblio. Bisognava pensarci prima! Così semplice, tanto geniale: polsiere a molla con sistemi d’estrazione, che consentono, in qualunque attimo del giorno, di far culminare straordinari gesti con la nipponica dicitura: “Moshi moshi?” Ovvero: “Pronto?” Tra il silenzio dei presenti, doppiamente basiti: per l’onore di trovarsi al cospetto del prezioso logo della mela, così come per il poco riguardo usato, nel maneggiarlo. Tale successo, tuttavia, non gli bastava. Ha dunque fatto pratica di combattimento, guardandosi un’intera cineteca del chanbara, i film in bianco e nero coi guerrieri samurai. Prima di esplodere dal suo portone principale, guidato dalla fiamma dell’entusiasmo sperimentativo, per mettersi alla prova contro il vento e il sole forte dell’estate.
Ne avevamo parlato in precedenza, di questa sua inventiva via d’accesso alla celebrità. Ma con il passar degli anni e i nuovi modelli messi sul mercato dalla Apple, cambiano i normali presupposti, assieme alle aspettative rilevanti. Non ci convinceva, del resto, la custodia gommata, un tempo consentita, per proteggere dagli urti l’elettronica di bordo. Forse Wolverine ha un fodero, per i suoi artigli? Oppure Batman, prima di lanciare il batarang, lo toglie dall’incarto della confezione? Nudi alla meta, sono i loro attrezzi, proprio perché sempre pronti all’utilizzo. E nel nuovo video, parimenti, il nostro amico ha messo assieme un aggancio ad emiciclo di incorporamento, realizzato ad-hoc, che lascia scoperti gli spigoli taglienti del dispositivo. Per ferire meglio i suoi malefici nemici, credo. Tanto, come l’altra volta, quasi sempre il telefono gli cade a terra, se non peggio. C’è però, stavolta, una sorta di percorso evolutivo nel suo procedere, un senso di fondamentale progressione. Dapprima, concentrandosi sui tablet, ci dimostra i meriti di una speciale bardatura. Che diventa, più che altro, come una catapulta della distruzione. Poi si dedica alla tradizione. Con la maschera vermiglia di un tengu, abbina al meccanismo d’estrazione il den-den daiko, o tamburello a doppia corda, un giocattolo molto amato dai bambini giapponesi. Per danzare, al suono di una musica che soltanto lui riesce a udire, in mezzo alle auto ferme in un parcheggio. Da lì, prosegue in modo logico, altamente ragionevole.

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Come inizia il sumo

Sumo Dohyo

Due rikishi, guerrieri potentissimi e massicci, che disseppelliscono la sostanza del momento. Sotto un tempio virtuale, l’imprescindibile struttura superiore di un santuario shintoista. Circondati dai quattro simboli e colori delle direzioni cardinali. Sappiamo già tutto di loro, come di ciò che viene dopo, perché è impossibile restare impassibili di fronte alla furia stessa dei terribili elementi, ridotti alla versione antropomorfa di una tale sacra scena. Mai nessuno si ricorda, invece, degli yobidashi. Tutti gli inservienti, gli artigiani specializzati, coloro che preparano il terreno usato per l’evento; peccato. Perché fanno un mestiere molto interessante. Un po’ come i giardinieri di uno stadio, però senza erba e senza spalti! Ma con molta sapienza delle epoche alle spalle. Per capirli davvero, occorrerà comprendere la loro pura essenza.
Traccia un segno cosmico con il pennello, demiurgo della nipponica esteriorità, partendo presso il centro esatto dello spazio: come una linea diagonale, questo abisso scuro, fatto con l’inchiostro dell’impegno e della convinzione. Sotto di esso, a media altezza e quasi perpendicolare, un secondo contrapposto, assai più breve, per il resto identico d’aspetto. Sembrerà una lambda o la torre Eiffel, questo kanji, l’ideogramma. Entrambe le sue componenti, la coppia di quei segni, appoggeranno saldi sulla Terra, ovvero il fondo definito dal tuo foglio. Ci siamo, hai terminato? Ebbene hai scritto hito人, uomo. Ma se pure il tratto breve del disegno calligrafico dovesse apparire assai meno importante del suo vicino, ai nostri occhi di profani, questo non significa che possa scomparire dalla composizione. Senza un tale inchiostro solido a fargli da sostegno, come potrebbe, la sua lunga e fiera controparte, stare dritta in verticale? Cadrebbe subito, è sicuro. Il tratto lungo sono i due lottatori di sumo, per metafora corrente. Quello breve, coloro che gestiscono il contesto. L’autista della metropolitana che conduce il manager fino in centro Kyoto, per assistere all’incontro. E tutti gli altri.
C’è la certezza, per molti di noi, che a questo mondo esistano dei metodi, diversi in base alla cultura, per comunicare con gli Dei. Cominciamo, per chiarezza, con quello più prossimo all’Europa. “Il mio corpo è un tempio, l’immagine perfetta del Creatore”. Unico, come l’edificio di Re Salomone, la fortificata origine di una visione che permane ancora: siamo frutto della costola di un Antenato, che a sua volta derivava dalla Terra e dalla mano di qualcUno. Quel qualcUno, ad oggi, ancora ci ascolta e ci comprende, proprio perché siamo fondamentalmente come LUI; per questo è nostro dovere sacrosanto, in tale universale concezione, essere belli, saggi, equilibrati. Succinti e piacevoli, per quanto ci è possibile. L’idea di partenza che sostiene il concetto monoteistico di preghiera si basa, fondamentalmente, sulla ricorsività dei metodi espressivi e dei modelli. Perfetta simmetria! Ci sono poi remote terre, come l’esotico Giappone, dove la visione delle Cose ha una sorgente differente. È priva di una forma chiara e definita, ma fluida, sfuggente: ci sono kami, ci sono mostri e draghi sommersi, spiriti del cielo e della terra. C’è Buddha che li osserva quieto, meditabondo e lì accanto c’è pure ogni profeta della Bibbia, perché no, intento a mescolarsi con gli apostoli del Nuovo Testamento. Sincretismo e commistione.
n tale poliedrica visione delle Cose, non può bastare più il singolo tempio, di un comune corpo umano, per pregare veramente a fondo. Occorre la creazione di un contesto magico, spirituale, in grado di coinvolgere lo sguardo degli Dei richiesti, di volta in volta e per ciascuna singola occorrenza. Che fortuna! Proprio a questo serve il sumo.

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