Folle automobilina corre sulle strade di Istanbul

Instanbul Buggy

Un ruggito acuto nella notte, di un gatto che si lancia rotolando sull’asfalto. La sua ragione d’esistenza, non è chiara. La gente, che vi getta da principio il tipico sguardo distratto degli abitanti di città, spalanca gli occhi e si ritrova, suo malgrado, a bocca aperta. Chiedendosi cos’è che sfreccia tra la luce fioca dei lampioni, di una notte veramente tiepida e medio orientale… Quale occulta ragione, spinga le sue ruote a fare il fuoco liquido dell’aria tersa e rumorosa. Ma soprattutto chi sia stato ad applicarvi sopra la sua preziosissima telecamerina GoPro, per viaggiare e far venire anche noi, grazie alla forza dell’umana fantasia assistita-cum-tech!
Per dire. Una trasferta digitale sulle coste del Bosforo, il ponte di terra ove s’incontrano alcune delle più antiche, rilevanti e significative culture di questo mondo! Riesce difficile immaginare, in quest’epoca d’incontri tra i popoli sempre più difficili, rischiosi, un luogo saliente più importante della Turchia. Ma non è poi così facile comprendere, allo stato attuale dei fatti, quale sia il vero volto della sua eternamente famosa capitale: la Bisanzio dei Greci, ovvero del re Byzas che scelse di fondarla come colonia, su specifiche indicazioni dell’Oracolo di Delfi? O Costantinopoli la Grande, come colui che, Imperatore dei Romani, la rese il centro amministrativo e futura capitale di oltre una metà del suo vasto e diseguale popolo, variabilmente interessato al quel che succedeva all’altro capo dell’Europa, nell’Urbe delle alterne dinastie. Finché dopo il crollo dei grandi poteri pre-esistenti, ormai quasi 1000 anni dopo, non vi sopraggiunsero gli Ottomani, restaurando ufficialmente il nome colloquiale usato dai greci locali, ovvero “εἰς τὴν Πόλιν” (eis tèn Pòlin – verso la Città). Soltanto per renderla, quasi immediatamente dopo, un polo artistico ed architettonico da celebrare in tutto il mondo. Ma l’Istanbul di oggi, a conti fatti, è molto più, ed al tempo stesso meno, dei suoi molti volti sovrapposti e fin qui citati. Poiché la globalizzazione, oltre all’imprescindibile bisogno di fare fatturato, non hanno ritardato in alcun modo ad affollarla di negozi di souvenir, banchetti per il cibo, venditori ambulanti di qualsivoglia superfluo orpello dell’incomparabile modernità. Vi ricorda niente? Cose come il famoso Miglio d’Oro, che si estende tra i quartieri di Ortaköy e Kuruçeşme ed era un tempo noto per i suoi antichi palazzi bianchi come la neve mentre si è oggi trasformato per accogliere la più incredibile concentrazione di night club, discoteche ed altri luoghi che noi sceglieremmo di chiamare per analogia, “da bere”. Grazie alla cui musica rimbombante, che si perde sulla spiaggia sulla baia, tutto sembra quasi subito più piccolo. E veloce.
Questo video è l’opera di Abdulkadir Enes Kıral, un appassionato di radiocomandi la cui descrizione del canale di YouTube recita soltanto: “Spor [sic.] junkie. Everything about the RC HOBBY.” Ma il cui vasto repertorio antologico può essere tranquillamente definito come meritevole d’approfondimento, soprattutto per chi ama quel particolare modo di divertirsi, che consiste nell’impugnare un semplice telecomando, si, ma anche moltissimi altri tecnicismi fin troppo spesso dimenticati. Ma a colpirci maggiormente nella sua vasta opera, molto probabilmente, resta questo particolare modus operandi, letteralmente sconosciuto ai più: far andare il proprio modellino in scala 1/5 (stiamo parlando, per intenderci, di un veicolo lungo oltre 80 cm e dal peso di 9,6 Kg) in mezzo al traffico notturno & diurno della sua città, senza il minimo occhio di riguardo per le convenzioni o le aspettative del civile codice della strada. L’automobilina corre, tra pneumatici, giganteggianti marciapiedi e l’ultimo pedone scapestrato. Mentre lui, a bordo di un veicolo guidato da un amico, la segue da presso, e la dirige come meglio può. Alla ricerca della più splendida realizzazione motoristica del mondo in miniatura, che forse-forse, non si compirà mai…

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Tre insoliti caffè stranieri: il fresco, il bruno e il misterioso

Vietnamese Coffee

Recipiente di metallo dalle plurime sfaccettature, spigoloso, verticale. Un manico di bachelite ed un becco prominente, il pomello sulla cima del cucuzzolo bollente. Molti pensieri ed ancor più profonde considerazioni, sono state elaborate ai margini di ciò che stiamo descrivendo, fin dal distante 1933: la macchinetta immaginata da Alfonso Bialetti, per la prima volta sul princìpio di funzionamento della lavatrice lisciveuse, che portando ad ebollizione l’acqua per i panni, questo fluido lo spostava nello spazio superiore, in cui si andava ad incontrare col sapone. Prima di tornare giù, svolgendo il suo lavoro. Rapidità, praticità, nessuna possibilità d’errori. Bastò applicare simili metodologie all’antica quanto beneamata bevanda proveniente dal profondo dell’Africa e dell’area dell’Oceano Indiano, un prodotto possibile di oltre 13.500 specie vegetali differenti, per ottenere un qualcosa che potrà essere facilmente definito, senza timore di smentite, l’assoluta Perfezione. Un lieve sbuffo di vapore, il suono di automobili distanti. Le tende alla finestra che si muovono nel vento, dunque l’improvviso gorgoglìo. Dapprima lieve. Quindi un po’ più intenso. Ed sapore che già sgorga, dal condotto interno e l’ingegnoso fontanile in miniatura… Mentre la mente inizia a sorseggiare. Ma non smette di pensare: è davvero possibile, giungendo a tali vette d’eccellenza, continuare a mantenere un punto di contatto ininterrotto col passato? Cosa è andato perso, in questa storia di una bacca prediletta dall’umanità, e poi cosa ritrovato? È insomma davvero giusto definire, questa invenzione italiana, come l’unico modo degno per sperimentare l’epico sapore? Càpita così, di accendere la radio (Vietnamita? No, Thai). Per udire all’altro capo, nient’altro  che la nénia persistente del dubbio profondo, ding-ding-dong, ding-ding-ding…
Per trovare un punto di contatto di quel mondo, con il nostro di orgogliosi bevitori occidentali, occorre muoverci dall’altro capo dell’Oceano Atlantico. Dove dorme, acciambellato attorno al vasto continente americano, il grande drago dalle molte scaglie sfolgoranti di Starbucks. L’antonomasia del “bar” statunitense, una catena assolutamente spropositata, con oltre 180.000 dipendenti all’attivo. Un luogo in cui l’espresso tradizionale non è che una scelta fra molte, ed altrettanto spesso, non la più desiderata. Specie dai clienti di estrazione asiatica che in genere, così racconta almeno un testimone diretto in quel di Reddit, chiedono che sia guarnito con uno specifico prodotto, qui da noi praticamente sconosciuto: la mocha sauce, praticamente cioccolata ed addensante, molte volte più dolce dello zucchero e del miele. La ragione di una tale scelta va rintracciata per analogia nell’esistenza di questa bevanda concepita in Vietnam, che una buona parte del Sud-Est asiatico conosce ed apprezza da generazioni. E se avete visto il video qui sopra riportato, a questo punto lo saprete: stiamo parlando del Cà phê đá o caffè ghiacciato. Un invenzione dei primi del ‘900, qui dimostrata con abile prassi dal filmmaker Eric Slatkin, completa degli attrezzi vintage della tradizione. Perché non esiste l’eccessiva “efficienza” ma è pur vero, che anche le limitazioni fanno parte della “scienza”. E l’infusione.
Ora, naturalmente tutto quello che occorre per poter preparare la nostra amabile bevanda, non è null’altro che scaldare fino ad un certo punto i chicchi derivanti dalla lavorazione delle bacche, affinché questi liberino l’essenza deliziosa contenuta al loro interno. Ma affinché il prodotto finale non abbia un gusto sgradevole, la cottura dovrà interrompersi ad un punto assai specifico. Ed è per questo, in ogni versione moderna di una tale avventura, che s’impiega un filtro, all’interno del quale l’acqua circoli, s’insaporisca, prima di uscirne in qualche modo trasformata. Così la vecchia prassi vietnamita, molto precedente all’invenzione del nostro maestro piemontese, prevedeva l’impiego di un semplice filtro gravitazionale dal progetto francese, lì denominato cà phê phin, prima di essere depositata in un recipiente sottostante, assieme a latte in polvere e Longevity, ghiaccio ed un prodotto zuccherino comparabile alla mocha sauce. Il risultato, è…

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Nuovi modi per scendere dai grattacieli di Dubai

Dubai Dream Jump

Senti il vento che ti soffia nei capelli, mentre lo sguardo vaga rapido sul panorama. Non sei mai stato tanto attento in vita tua. Sopra la Princess Tower, sopra la tower, mamma mia. E quell’arbusto geometrico che si protende verso il mare! Vederlo con i propri occhi, da un’altezza di circa 400 metri, fa una certa impressione. Perché non c’è proprio nulla di naturalistico, nell’arcipelago ingegnerizzato di Palm Jumeirah, il primo e più piccolo dei tre progetti di recupero dal mare che dal 2001 hanno iniziato ad ergersi orizzontalmente (in fondo, sono alberi) all’interno del Golfo Persico, stagliandosi con il loro color sabbia sullo sfondo dell’Oceano Indiano. Un’ipotesi di crescita ed investimento così profondamente…Caratteristica della città di Dubai…Dove tutto sembra qualche volta possibile, persino l’irragionevole. E salire sulla cima di un palazzo, qualche volta, non comporta il riutilizzo successivo degli stessi metodi col fine di tornare giù. Bensì un approccio radicalmente differente, che presuppone una mancanza di vertigini e l’appartenenza a una specifica cultura, quella, naturalmente giovane, dell’arte verticale del BASE Jumping. O almeno, questo è il messaggio che ti sembra di aver metabolizzato, al termine del corso accelerato, condotto con gli istruttori della Skydive Dubai, una delle poche scuole al mondo che si specializzano nel divulgare questa strana disciplina. Un rombo distante, alzi gli occhi per notare il transito di un piccolo jet, l’aereo, assai probabilmente, di qualche magnate del petrolio in viaggio verso le città di Doha o di Muscat. Chi ricorda, giunti tanto in alto, i quattro punti cardinali? E perpendicolarmente sotto quella macchia di colore nell’azzurro cielo, in posizione protetta dalle onde per l’effetto della “chioma” della palma, campeggiano due cose totalmente differenti: 1 – La marina, un porticciolo, ad uso rigorosamente d’intrattenimento (ma ciò non vale in questi luoghi, forse, per ogni singola cosa?) In cui yacht e motoscafi attendono pazientemente che ritorni il loro proprietario, per l’attimo esaltante, di nuovo ripetuto, di provare l’entusiasmo mediano di un balzo in mezzo ai flutti scintillanti. (Oh, quanto vorresti, in un certo senso, essere laggiù…) 2 – Un piccolo aeroporto, con accanto il capannone che conosci fin troppo bene: qualche aula, una potente capsula del vento o due, dove fluttuare virtualmente come se la gravità ti avesse in pugno per qualche estatico minuto. Nient’altro che la sede, in effetti, del tuo istituto di educazione post-laurea delle ultime settimane, dove hai appreso tutto quello che serviva per trovarti qui, adesso, e partecipare all’esperienza irripetibile del cosiddetto Dream Jump.
“È molto semplice, studente. Ci serve sangue fresco.” Pare ancora di sentire la sua voce: “Lo vedi quello? Si, il palazzo alto con la cupola sulla sua cima. In questo momento ti trovi all’ombra del secondo edificio più alto degli Emirati Arabi, misurante la metà esatta della torre Burj Khalifa. Ecco, non farti strane idee. Quella lì, purtroppo, è off-limits. Ma in prossimità della cima della sua sorella minore, che è pur sempre l’edificio residenziale più alto al mondo, di qui a qualche mese sarà collocata una passerella. E dalla passerella correrà un filo. Sarà teso come una corda di violino ed ancorato…” A quel punto, l’istruttore si alzò con un fluido movimento, spostandosi fino alla finestra più vicina. Quindi puntò il dito verso un punto, apparentemente arbitrario, del verde praticello antistante: “…Proprio lì. Allora, che te ne pare?” E se mai c’è stata un’occasione irripetibile di questa vita, allora eccola qui. Perché se è vero che gli sport estremi, a Dubai, sono di casa, in una sorta di ricerca delle relazioni pubbliche che ha scelto di fondarsi sul compiere dei gesti veri, correre pericoli, ma in modo affascinante…Non sono in certo in molti, i newcomers che ricevono l’invito a un’esperienza come questa, destinata a stabilire un certo numero di nuovi record del mondo. Così, mentre tu portavi a termine la serie di lanci prevista dal tuo corso, pagato rigorosamente in anticipo e per una somma, tutto sommato, non maggiore di quella di un paio di track days presso l’autodromo di Vallelunga, dalla cima di questa location prestigiosa era iniziata una vera e propria pioggia d’uomini, per nient’altro che le molte prove di un lancio collettivo che doveva esserci, ci sarebbe stato. Ed in effetti si è verificato, ormai da qualche tempo (era lo scorso aprile del 2015). Ma ecco che il tempo si esaurisce….Basta divagazioni. Ritorniamo a TE, saltatore dell’ultimo giorno, l’invitato speciale ucronico dell’intero show!

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Come una padella se potesse cuocere il gelato

Thai ice pan

Qual’è il segreto di quest’uomo? L’individuo che sopra un piastra getta latte e cioccolato, poi percuote il tutto con la sua paletta fino a che…L’insieme, meravigliosamente, si trasforma in una dolce e splendida frittella. Ma non pronta da staccare: perché il freddo crea tensione sulla superficie, e l’aderenza, parimenti, si sviluppa tra le cose lisce e quelle fluide, se soltanto gli dai modo. Poco importa? Questo non è affatto un male. Anzi, crea l’origine di un piatto nuovo, in cui gustosi rotolini (per citare quel binomio già sentito) provengono dalle implicazioni stesse di un simile metodo, ormai esportato ai quattro angoli del globo, ma soltanto qui espletato fino alle sue estreme conseguenze. Siamo a Ko Phi Phi Don, la più grande delle sei isole che compongono uno degli arcipelaghi più amati dai turisti della Thailandia, dove ancora una volta si sta dando adito quella pratica realizzativa parecchio invitante, del gelato un tempo detto Chǎo xuěgāo (炒雪糕) ovvero, in cinese: saltato in padella, mentre in inglese stir-fried. Un termine che nel presente caso, diversamente dall’accezione trattata sui maggiori dizionari, non sottintende nessun tipo di frittura, ma bensì l’immersione degli ingredienti in un fitto strato di brina, creata grazie all’uso dell’azoto in bombola pronto per tutte le occasioni. Una sorta di pratica della brutale evoluzione: non c’è praticamente nulla, a questo mondo, che tritato e posto assieme a un qualche tipo di cremoso impasto, raffreddato ben oltre i -100 gradi centigradi, non si trasformi in un gelato. Per citare il motto a margine di un’istituzione simile statunitense: “Se può essere frullato, noi lo rendiamo un gelato.” L’unico limite è la fantasia, nonché per inciso, le contrapposte situazioni di partenza.
È la naturale differenza, profonda come quella tra culture poste all’altro capo dell’universo dei palati, tra il cibo da passeggio e quello che invece, per sua massima natura, nasce sulla strada e lì rimane, diramandosi dai carrettini con la bombola, i furgoni, le basi mobili di scaltri operatori commerciali. Noi dello Stivale, ad esempio, che del bar abbiamo fatto una struttura portante della nostra intera società fuori le mura abitative, abbiamo questa concezione per cui la merenda o lo spuntino vengono quasi sempre consumati nello stesso luogo in cui li acquistiamo, salvo un paio di eccezioni e tutto ciò che ruota attorno ad esse: la pizza al taglio e il cono gelato. Certe particolari alternative, di contro, vedi le caldarroste o lo zucchero filato, compaiono in contesti situazionali assai specifici, sempre più rari. Mentre basta rivolgere lo sguardo verso Oriente, per scrutare un mondo in cui qualsiasi viale, vicolo e/o piazzola, vengono percorsi dalla gente con le mani piene, di ogni sorta di delizia, di frittelle o dolci e patatine, alimenti stravaganti o piccole dolcezze della tradizione. Ce n’è letteralmente un po’ per tutti i gusti e le stagioni. Perché ovviamente, come in tutte le questioni alimentari, nulla ha un effetto maggiore sopra l’appetito che il variare da un estremo all’altro della temperatura ambientale, che in alternativa può concedere un sollievo che trascende la comune sazietà, estendendosi alla regolazione del calore nell’esofago, che pur stando in ombra, è collegato a tutto il resto. E chiede sempre gran soddisfazione, però come si dice, pure l’occhio vuole la sua parte e…

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