La biotecnologia è quella branca delle scienze applicate, particolarmente cara al mondo della fantasia, mediante la quale cellule viventi possono trovarsi subordinate a un qualche tipo di finalità artificiale, per l’intento futuribile di una diversa (umana o extraterrestre) forma di vita. Non è ad esempio infrequente, nella letteratura di genere, che particolari razze aliene soltanto parzialmente simili a noi decidano di attraversare il cosmo all’interno di vere e proprie astronavi viventi, il cui metabolismo estremamente limitato garantisce una seppur limitata capacità di rigenerazione ed auto sostentamento. Altre volte elementi dall’aspetto organico vengono attentamente coordinati con sezioni di tubi, ingranaggi o capsule spaziali, come fatto dall’artista svizzero H.R. Giger per il famoso alieno xenomorfo, da lui ritratto e concepito con quasi totale libertà creativa, benché in nessun punto della storia venga dato ad intendere che il mostro sia il prodotto di una qualsivoglia inconoscibile tecnologia. Nel frattempo non può essere soltanto un caso, se tra le possibili ispirazioni naturali usate da costui per la creazione più famosa, venga talvolta citato il particolare tipo di plankton iperide/anfipode noto come Phronima, in realtà un membro del sub-phylum dei crostacei, il cui aspetto non soltanto rassomiglia da vicino alla creatura del film (particolarmente nella sua iterazione “regina dell’alveare”, antagonista del secondo episodio) bensì caratterizzato addirittura da abitudini che in qualche modo ne ricordano il terrificante ciclo vitale. Con una sola significativa differenza: quella di essere, se vogliamo, persino più spietato di lui.
Immaginate dunque l’esistenza di una piccola creatura, piccolissima (stiamo parlando di pochi centimetri al massimo) costretta a sopravvivere a molte centinaia di metri sotto il mare e con sostanze nutritive a sua disposizione particolarmente ridotte. Nel terrore pressoché costante del passaggio di sproporzionate mostruosità pinnute, in grado di risucchiarla in un singolo boccone. Una vita grama che, a voler essere ragionevoli, potrebbe ampiamente giustificare ogni possibile tipologia d’efferatezza. Persino l’abitudine saldamente iscritta nel suo codice genetico a cercare, mediante l’uso di occhi relativamente sofisticati e rivolti verso l’alto per ricevere adeguate quantità di luce anche dove ne giunge pochissima, a cercare un qualche gelatinoso e a lei proporzionato esponente dei phylum Cnidaria (meduse) o Chordata (tunicati) per iniziare a torturarli in modo sistematico con le due aguzze chele. Affinché l’animale preda, svuotato di ogni organo ma ancora orribilmente vivo, possa diventare casa, guscio e carrozzina dei suoi piccoli e crudeli eredi. Ciò costituisce un’esistenza certamente grottesca. Eppure, innegabilmente funzionale…
ciclo vitale
Il problema degli ulivi per l’insetto nella camera di bolle
Nella quiete soltanto apparente del più avanzato stadio del sonno REM, gli eventi immaginifici assumono proporzioni mostruose o abnormi. Così un gesto tra i più naturali, come liberarsi dell’urina che ci appesantisce la vescica, diventa un’Odissea attraverso lunghi viaggi in automobile, infernali interrogazioni scolastiche, estenuanti maratone sotto l’occhio attento di un pubblico con telecamere puntate. Immaginate dunque la sorpresa che potrebbe ricadere su di noi, se al momento del risveglio ci trovassimo in un luogo ed una situazione totalmente all’opposto: non più sul nostro letto duro/morbido di appartenenza, soltanto a pochi metri dal sollievo del bagno di casa, bensì all’interno di una stanza oscura ed imbottita formata da una spuma di bolle, vagamente simile all’interno di una capsula in viaggio verso la Stazione Spaziale Internazionale. E l’organismo che c’informa, in modo stranamente rilassato, che la crisi ce la siamo ormai lasciata totalmente alle spalle. Poiché nessun fluido preme più lo spazio angusto di quel sogno tormentato… Mentre un’oscura connessione, lentamente, inizia a prendere forma tra le nostre sinapsi che si accendono all’unisono, neanche fossero le lucciole di un tardo pomeriggio d’estate!
Nessuno può realmente ipotizzare, o in qualche modo concepire, lo stato di coscienza della minuscola sputacchina o spittlebug (superfam. Cercopoidea) la prima volta che all’uscita dall’uovo materno sceglie di lasciare temporaneamente il mondo della veglia. Uno stato per lei corrispondente, in maniera pressoché totale, con l’infliggere la rigida proboscide dentro lo xilema o sistema linfatico della pianta, fino all’accumulo di una quantità di liquidi totalmente spropositata rispetto alle proprie singolari necessità. O che tale certamente sarebbe, se queste ultime appartenessero esclusivamente all’ambito della nutrizione o sostentamento, senza includere anche il bizzarro intento architettonico di costruirsi una vera e inespugnabile fortezza d’urina.
È tutto ciò uno strano adattamento alla sopravvivenza, poco ma sicuro, per un insetto imparentato con le cicale ma ancor più strettamente gli afidi che vivono ai margini del sistema vegetale, traendone il consueto giovamento dei parassiti. Che tuttavia risulta, possiamo ben immaginarlo, estremamente efficace: il letterale bozzolo di bolle, formato dalla linfa pre-digerita in aggiunta ad uno speciale fluido viscoso, si presenta infatti con l’aspetto di un involucro abbastanza spesso, il cui gusto acre può riuscire a scoraggiare un qualsiasi predatore. Fermando, inoltre, il passaggio dell’ossigeno, ragion per cui è davvero una fortuna che la sputacchina non possieda neanche l’ombra di un polmone. Potendosi accontentare per l’assunzione del gas vitale di far emergere dal cumulo di bolle la parte estrema del suo posteriore, usata dunque allo stesso tempo per espellere ed assumere, espellere ed assumere i due fondamentali fluidi dell’esistenza. Finché l’ora di quel lungo sonno che precede la metamorfosi verso l’imago o stadio adulto non potrà figurare a pieno titolo tra gli impegni delle sue lunghissime giornate. Affinché l’ultima bolla possa lasciare il suo corpo, destinato a diventare del tutto irriconoscibile persino per colei che l’ha messo al mondo…
La creatura gelatinosa del laghetto di Stanley Park
Nel robot da combattimento Megabryoz, ogni elemento costituente ha il suo ruolo e la sua funzione. Tigrid, il grande felino che si trasforma nella gamba destra, identifica il nemico e manovra il sistema di volo durante le trasferte lunari. Rhingo il rinoceronte/gamba sinistra, è in grado di correre sulle ruote o lanciare missili dal suo ginocchio. Il falco e il gufo che formano le braccia, Apex e Zenith, sono combattenti all’arma bianca dalle competenze straordinariamente varie, in grado d’impugnare spade, lance, alabarde. Mentre Justin la grande tartaruga, ritirando la testa, diventa un torso del tutto impervio a qualsiasi attacco del nemico. Basta però che uno solo dei veicoli costituenti sia assente nel momento della mega-trasformazione, affinché essa diventi letteralmente impossibile da portare a termine. Se uno degli eterogenei e inaffidabili piloti dovesse un giorno ubriacarsi, svegliarsi per il verso sbagliato, innamorarsi o vincere al SuperEnalotto, il male avrebbe vita straordinariamente facile per un’intera settimana. Quindi al minimo, il pianeta sarebbe invaso da pericolose creature aliene. Un po’ come avviene nel nostro organismo, nel caso di disfunzioni ad un organo come fegato, polmoni, pancreas o cuore. Si, sapete quale sarebbe la soluzione? Non avere componenti specializzati tra le proprie cellule costituenti, bensì piccoli granuli indipendenti. Talmente adattabili che se un giorno, qualcuno dovesse tagliarci a metà, ben presto potremmo rigenerarci. Ed allora, d’un tratto, esisterebbero due di noi. Storia impossibile per gli umani. Tutt’altro che impensabile per una creatura principalmente costituita da gelatina e…
Siamo nel cuore verde di un’intera città, la vasta riserva naturale di 405 ettari che costituisce, al tempo stesso, l’orgoglio e la principale attrattiva turistica della città di Vancouver. Un intero habitat, con foreste, colline, radure abitate da letterali dozzine di animali diversi, molti dei quali appartenenti a specie protette o facenti parte di assi migratori importanti. Coronato, nella sua parte centro-orientale, da un corposo bacino chiamato la Laguna Perduta. Non perché sia inesplorato (stiamo parlando, dopo tutto, di una città da oltre 600.000 abitanti) bensì per una vezzo della celebre scrittrice del XIX secolo, E. Pauline Johnson, che si lamentò poeticamente della maniera in cui la sua riva preferita tendesse a scomparire, per l’effetto del clima e delle maree. Già perché all’epoca, in effetti, questo luogo non era un lago, bensì la riva dell’Oceano Pacifico, finché nel 1916, non senza critiche da parte dei cittadini per la spesa tutt’altro che trascurabile, l’amministrazione non decise di costruirvi attorno una strada rialzata. Ed a quel punto, la sua esistenza diventò fissa ed indipendente per tutta l’eternità. O almeno così si pensava, finché l’estate particolarmente secca del 2017 non portò ad un calo sensibile del livello dell’acqua, con conseguente istituzione di un BioBlitz d’emergenza della Stanley Park Ecology Society, un ente affiliato al Dipartimento Parchi della città. Stiamo parlando, per essere più precisi, di un insolito evento giornaliero in cui scienziati, naturalisti ed esperti di tassonomia incontrano la gente comune, per istituire gruppi di ricerca temporanei finalizzati a riconoscere, e possibilmente catalogare, il maggior numero di specie animali presenti all’interno dei confini urbani. Procedura in grado di condurre, in questo specifico caso, ad almeno una scoperta estremamente degna di nota: la presenza di numerosi esemplari di Pectinatella magnifica, per la prima volta avvistati ad ovest del fiume Missouri.
Qualcosa di non tanto splendido quanto il suo nome farebbe pensare… Anzi, qualcuno potrebbe addirittura definirlo orribile, nella sua appartenenza estremamente rappresentativa al phylum dei briozoi. Dei letterali ammassi marroni dalla forma non definita, che alcuni hanno ben pensato di definire animali-muschio, per l’impossibilità sostanziali d’inserirli all’interno di categorie biologiche esistenti. Se osserviamo dunque l’albero della vita, li troveremo lungo la diramazione dei protostomi, ovvero gli animali che hanno una sola apertura per fungere da bocca ed ano, in un singolo ramo del tutto privo di ulteriori suddivisioni. Qualcuno ipotizza una vaga parentela con determinati vermi marini, ma ciò resta una teoria per lo più priva di fondamento. Dunque per quanto ne sappiamo essi semplicemente esistono, fin dagli albori dei tempi, risultando il prodotto di un sentiero evolutivo tra i più diretti e sicuri, mirante al raggiungimento della più perfetta collaborazione tra esseri potenzialmente distinti. Esattamente: ciascuno di questi “piccolini” (che possono in realtà raggiungere la dimensione di un pallone da basket sgonfio) nasce come una singola larva o zooide, dalle dimensioni inferiori al millimetro, che quindi clona se stessa infinite volte, fino alla costituzione dell’ammasso informe che stiamo per andare a descrivere più nei dettagli.
L’insignificante medusa che ha sconfitto la morte
Tutto quello di cui abbiamo bisogno, l’unica cosa che dovremmo riuscire a fare, è poter riavvolgere un singolo giorno della nostra vita. Importa realmente quale…? Direi proprio di no. Così raggiunta l’ora del tramonto, ritornerebbe l’alba. Ma sarebbe la stessa di 10 ore prima. E poi di nuovo, in un ciclo infinito d’invecchiamento e rigenerazione. Già, perché una cosa non dovrà per forza escludere l’altra! Questo è il significato ultimo dell’esistenza: pensate ad un pollo, che si trasforma in un uovo, il quale nel giro di qualche tempo si schiuderà, ritornando un pulcino. Qualcuno vorrà ancora sapere, a quel punto, quale delle due forme è venuta prima? Chiedetelo a Christian Sommer, il biologo marino tedesco, ed al suo amico Giorgio Bavestrello, proprietario di un acquario a Rapallo, all’interno del quale negli anni ’80 fu per la prima volta trasferita una creatura, che prima di quel fatidico giorno, non era mai stata notata dall’uomo. E lo credo bene: dopo tutto, la Turritopsis non misura che 2,7 mm di lunghezza, per 3,2 di diametro. Ed per di più semitrasparente, come si confà a una vera medusa. Ciò non significa, del resto, che possa sparire nel nulla. Immaginate dunque la sorpresa di questi due, quando la mattina dopo la fatidica scoperta, ritornando per controllare lo stato della loro cattura, non riuscirono più a ritrovarla in alcun modo. Mentre al suo posto, saldamente assicurato al fondale dell’acquario, c’era quello che gli scienziati chiamano polipo (non un “polpo”) ma che noi potremmo definire per analogia, come una sorta di anemone, minuscolo e sottile, i cui tentacoli protesi verso la superficie sembravano sfidare i perplessi catturatori. Scenari improbabili iniziarono ad affollarsi nella mente degli scienziati: “Forse il secondo animale era nascosto nell’acqua, noi non l’abbiamo notato, e si è mangiato la medusa” oppure “Mi pare evidente che ieri avevamo bevuto un bicchiere di troppo, e tutto il resto l’abbiamo sognato.” nonché ovviamente, la più assurda di tutte: “I nostri occhi stanno guardando la stessa cosa. La medusa di ieri, trasfigurata.”
Possibile? Davvero? Se fino a 30-40 anni fa, un’ipotesi simile fosse stata paventata dinnanzi al mondo scientifico riunito in convegno, svariati insigni studiosi dalla barba bianca sarebbero scoppiati a ridere. Poiché in effetti, molti appartenenti all’ordine degli cnidaria attraversano questa specifica metamorfosi, ma lo fanno all’inverso, come parte di un ciclo che può essere sommariamente riassunto in uovo>larva>polipo>medusa. Ora se realmente, una forma di vita avesse scoperto il segreto per ritornare dalla quarta alla terza fase, e poi nuovamente dalla terza alla quarta, che cosa potrebbe fermarle dal farlo un infinito numero di volte? Essa potrebbe vivere per 100 anni…1.000…5.000, anche 12.000 millenni. Fatta eccezione per la casualità, in realtà statisticamente piuttosto probabile, di finire in bocca a qualcosa o qualcuno. Dopotutto, è difficile mettere radici mentre si viene digeriti. L’intera questione fu dunque sottoposta a uno studio. Finché Ferdinando Boero, un professore dell’università di Salento contattato a suo tempo da Sommer e Bavestrello, non poté pubblicare nel 1996 il suo celebre articolo Reversing the life cycle: medusae transforming into polyps and cell transdifferentiation in Turritopsis nutricula. Tutti quanti, leggendolo, rimasero senza parole. Col che intendo che dal punto di vista dell’uomo della strada, non importò praticamente niente a nessuno. Troppo diverso, appariva, questo insignificante essere tentacolare dalla forma di vita “superiore” di noi possenti e saggi esseri umani. Giusto? Sbagliato, come sappiamo effettivamente dal 2003, grazie al completamento del Progetto Genoma Umano, e ad uno studio del 2005, che mise in relazione il nostro codice genetico con quello di diverse specie animali. Caso in cui fu scoperto, tra un generale senso di stupore diffuso, che in effetti l’unica differenza tra noi e le fluttuanti creature degli abissi sono due eventi evolutivi di duplicazione dei geni. Se soltanto le cose fossero andate in maniera leggermente diversa, nella lunga e articolata storia di questo pianeta, oggi noi potremmo trovarci aggrappati agli scogli, sperando di sopravvivere un altro minuto. E le meduse vivrebbero nelle case, lasciando scie di gelatina dal divano del salotto allo sportello della dispensa in cucina. E fu allora che all’improvviso, l’opinione comune si ricordò della Turritopsis. Questa nostra ritrovata parente, subito popolare poiché in possesso di un qualcosa di altamente desiderabile… Una ricchezza ulteriore… Un segreto che vorremmo anche noi. Oh quanto ci interessava, d’un tratto, la sua minuscola storia….