Per essere la terra dei 100.000 laghi, con dimensioni variabili tra i 5.519 Km quadrati del grande Vänern fino alle più insignificanti pozzanghere, ma pur sempre permanenti, della regione di Kopparberg, la Svezia presenta una quantità relativamente bassa di fiumi. 2.477, ne elenca Wikipedia, e a guardarli sulla cartina, risulta decisamente difficile individuarli. Soprattutto perché non sempre, raggiungono il mare. Il che suscita la spontanea domanda: dove se ne va la dolce acqua sorgiva? Chi ne beve spropositate quantità, per accrescere il proprio benessere all’alba di un nuovo giorno? Nessuno, ve lo assicuro. I corsi appaiono privi di una foce, poiché scivolano gradualmente nel sottosuolo. Attraverso il fenomeno carsico della dolina. O il cenote, come lo chiamano nelle Americhe, ovvero una valle il cui suolo era un tempo composto da pietra calcarea. La quale attraverso i secoli e i millenni, sottoposta all’azione chimica dell’acqua, ha lasciato spazio ad un vertiginoso imbuto, via d’accesso verso le più profonde viscere della Terra. E benché ve ne siano di piuttosto famosi ed evidenti, come i tre buchi di Ewens Ponds in Australia, o la Grande Voragine Blu a largo del Belize, non sempre simili caratteristiche del paesaggio sono facili da trovare.
Come nel caso del fiume Bjurälven, nella municipalità di Jämtland, Svezia centro-meridionale, la cui via di fuga dal cielo azzurro della superficie rimase largamente ignota fino al 1979, quando lo speleologo Bo Lenander scovò la caverna in corrispondenza di una diramazione apparentemente del tutto priva di sorprese, per inoltrarvisi almeno in parte scattando qualche foto con la sua macchina digitale dotata di flash. Ma dal punto di vista speleologico, l’epoca era decisamente diversa da quella odierna, e soprattutto c’era un problema di tipo logistico-organizzativo: l’impossibilità di immergersi in inverno, in un luogo in cui le temperature scendono frequentemente sotto i -20 gradi, rendendo il proposito delle immersioni del tutto impossibile senza l’impiego di una moderna drysuit dotata di strato protettivo d’aria. La scoperta, dunque, fu fatta in estate, quando lo scioglimento del vicino lago di Dolinsjön causa possenti correnti, in grado di rendere virtualmente inavvicinabile un simile ambiente. Condizione che continuò a sussistere per molti lunghi anni, finché nel 2008, una nuova generazione di amanti dell’esplorazione non si approcciò nuovamente alla dolina, armata stavolta di tutto l’equipaggiamento, e l’esperienza necessari ad inoltrarsi nel profondo durante i mesi più freddi dell’anno. Con la finalità di scoprire.
Ci sono diversi video, tra YouTube e Vimeo, dedicati alle annuali gesta della Spedizione Bjurälven, un gruppo variabile tra i 15 e i 20 speleologi scelti uno per uno tra i più esperti del paese, che si sono auto-assegnati la mansione di creare una mappa del labirinto sommerso di queste vaste e sconosciute caverne, che oggi prendono il nome di Dolinsjön. Tra i quali il tema ricorrente, il più delle volte analizzato da una voce fuori campo in lingua svedese o inglese, è quello oggettivamente piuttosto spiazzante del “perché lo facciamo”. Già, perché. Vestirsi ed equipaggiarsi di tutto punto, soltanto per penetrare all’interno di un pertugio talmente stretto, da richiedere il sistema delle bombole rimovibili o montate sui fianchi. Così angusto che il più delle volte, piuttosto che nuotare ci spinge semplicemente sfruttando le pareti del condotto, ben sapendo che può bastare un piccolo ma non insignificante strappo nella tuta, causato da una pietra particolarmente acuminata, a causare il rischio di una rapida morte per assideramento. E le proteste di amici e parenti stavano probabilmente diventando sempre più pressanti, anno dopo anno, finché nel 2013 non diventarono, d’un tratto, del tutto superflue: il team guidato dall’Organizzazione Speleologica Svedese aveva infatti trovato qualcosa in grado di generare un’irresistibile richiamo: una zona asciutta, a 450 metri dall’ingresso del tunnel. Immaginate voi, adesso, di stare effettuando un’esplorazione laggiù, nella più profonda oscurità del mondo. Soltanto per trovarvi all’improvviso all’interno di una camera vasta e silenziosa, dal soffitto a volta, dove mai nessuno prima ha poggiato i piedi. Come sarebbe mai possibile a quel punto, tornare indietro…
sottosuolo
Il fenomeno geologico della lava nera
La Rift Valley Lodge, la Rift Valley Academy, il Rift Valley Restaurant…Come i negozi di una strada commerciale in una grande città italiana, tra i recessi d’Africa si susseguono le realtà, commerciali e non, identificate dallo stesso nome riutilizzato in serie. Con una piccola, significativa differenza: esse si estendono lungo una frastagliata direttiva nord-sud della lunghezza di oltre 8.000 Km. Tanto che verrebbe da chiedersi: qual’è questa singola valley, che risulta in grado di superare i confini di nove paesi, partendo dal territorio del lago Malawi a meridione per poi biforcarsi ai due lati di quello Victoria, giungendo in Rwanda ad ovest e poi fino all’estremità Sud del Mar Rosso dall’altra parte, oltre l’Etiopia e l’Eritrea? A uno svelto ragionamento, apparirà evidente che può trattarsi soltanto di una spaccatura continentale. Ovvero il punto in cui, da 35 milioni di anni o giù di lì, due pezzi d’Africa si stanno separando per l’effetto della deriva dei continenti. Causando fenomeni geologici di entità particolarmente rara. Come zattere mineralogiche di dimensione planetaria, le principali terre più o meno emerse al di sotto dei nostri piedi sviluppano un continuo processo di riconfigurazione. Per via del quale, sconvolgimenti epocali causano il mutamento dei paesaggi. Come l’esistenza di un’avvallamento, che talvolta è un vasto canyon, qualche altra una mera fessura, e nei luoghi in cui il metaforico fazzoletto della crosta terrestre era andato esaurito e non poteva più coprire alcunché, l’emersione di quel qualcosa che si trovava al di sotto. Magma caldo, lucente, denso e infuocato, talvolta. Il quale al contatto con l’aria, si raffredda progressivamente formando i massicci montuosi: vedi ad esempio il Kilimangiaro, il Karisimbi, il Nyiragongo e il monte Kenya. Oppure, tra il lago Natron e la riserva di Nainokanoka in Tanzania, lo stranissimo vulcano di Ol Doinyo Lengai (Montagna del Dio Nero). Che ha un qualcosa che lo distingue dalla maggior parte dei suoi simili lungo il percorso, quella di risultare attualmente attivo… Nonché, in via del tutto incidentale, presentare un’aspetto decisamente alieno.
Chi dovesse vederlo in lontananza, da un aereo, oppure raffigurato in una qualsiasi cartolina di queste terre, noterà in effetti qualcosa di estremamente inaspettato: la colorazione della sua vetta ed il cratere che vi trova posto, assolutamente candida, come se vi fosse caduta la neve. Il che, a queste latitudini, sarebbe un qualcosa di strano; così che, gradualmente, emerge chiara la verità. È proprio la pietra, che ha quel colore. Diametralmente all’opposto della tonalità tendenzialmente scura di qualsiasi altro cono che abbia eruttato dall’inizio della storia umana. Proprio perché, nel sottosuolo di questo particolare tratto della Rift Valley, si trova una combinazione mineralogica tale da giungere a generare una classe di pietra fluida nota con il nome di natrocarbonatite. Che ha un aspetto, una densità e una temperatura radicalmente diversi da quelle della lava, per così dire, comune. Si dice che le basaltiti, nel momento in cui emergono liquefatte da un condotto di tipo geologico scavato attraverso le viscere del mondo, siano relativamente “fredde”: appena 1.000 gradi. Ma ciò che si presenta all’ingresso di questa fonte nell’Africa nera è, a dire il vero, un qualcosa di ancor meno estremo. Tanto che sarebbe possibile, in effetti, cuocervi sopra una pizza o panzerotto, giungendo essa ad una temperatura di appena la metà di tale cifra. A 500 gradi, la lava si presenta come una sorta di fango nero dall’alto contenuto di calcio e talvolta potassio. Laddove tale sostanza è generalmente composta di silicati ed ossigeno, che giungono alla liquefazione solamente in presenza di un’energia molto maggiore, e per questo giungono in superficie con il caratteristico colore rosso intenso. Il funzionamento dell’Ol Doinyo Lengai, dunque, risulta estremamente caratteristico: piuttosto che poche grandi eruzioni, ne sviluppa di numerose attraverso i suoi lunghi periodi di attività. Tra i casi registrati recentemente, possiamo ad esempio trovarne nel 1917, 1926, 1940, 1966-67 e 2007-2008. Momenti nei quali, generalmente, la lava carbonatitica viene lanciata verso l’alto a gran velocità, raffreddandosi con una velocità tale da ricadere a terra, talvolta, già solidificata. Quindi, con il progressivo diminuire della pressione, si formano una serie di grandi fiumi, dalle volute fantastiche ed intricate, che progressivamente schiariscono, rallentano e vengono incorporati nella montagna. Sarebbe una vista a cui non rinunciare almeno una volta nella vita, se lo spettacolo non risultasse così tremendamente, orribilmente pericoloso…
Il dedalo atomico sotto il ghiaccio della Groenlandia
Sotto diversi punti di vista, sembra quasi una storia tolkeniana della Prima o Seconda era. I nani avevano costruito una macchina di oricalco ed ossa di drago, in grado di produrre energia virtualmente infinita. Ben sapendo quindi che molto presto, la guerra contro gli elfi sarebbe inevitabilmente arrivata, essi avevano scavato nel cuore della montagna, dove avevano costruito le loro fucine per produrre armi e armature magiche, in grado di prevalere in battaglia. Per anni, ed anni, le loro fucine continuarono a battere nelle viscere stesse del mondo. Ma essi non sapevano che la fonte stessa della loro industria era corrotta e malevola per definizione, poiché andava contro il volere di Eru Ilúvatar, il sommo creatore. Così, una frana catastrofica ostruì il passaggio, mentre l’intero popolo lasciava la possente fortezza, per tornare a vivere in superficie. Ma prima o poi, lo spettro di Moria li avrebbe chiamati indietro… A questo punto, chiariamo l’analogia: siamo negli anni ’60 del 900, e i nani sono gli americani. Gli elfi, a questo punto è automatico, niente meno che l’URSS. L’oricalco è il cemento armato, e le ossa di drago, l’uranio. E per quanto concerne la macchina miracolosa…. Non è ovvio? Un generatore nucleare. Portatile, niente meno! Il primo e l’ultimo che sarebbe mai stato, effettivamente, utilizzato sul campo. Fatta eccezione, a voler essere pignoli, per quelli integrati nei sommergibili e le portaerei naniche e dopo tutto, una certa corrispondenza c’è: perché Camp Century (la Base del Secolo) aveva lo scopo di trasformare un’intera terra emersa in nave da guerra. L’isola più grande, e settentrionale del mondo. Ora, potreste sapere o meno che la Groenlandia, contrariamente a quanto appare dalle mappe che distorcono notevolmente la realtà in prossimità dei poli, NON è affatto grande più dell’Australia, né pari al doppio dell’altezza del Nord America intero. Ma sono pur sempre 2.166.085 Km quadrati di pietra e ghiaccio collocati a fare da ponte tra America ed Eurasia, talmente inospitali da contenere appena 56.000 abitanti, per lo più inuit ed altre genti semi-nomadi ancora legate agli allo stile di vita dei loro antenati.
Dal punto di vista geografico, fino ai tempi recenti, un vuoto strategico inutile a qualsivoglia funzione militare. Finché il concetto di guerra stesso, a seguito del secondo conflitto mondiale, non cambiò per l’avanzamento della tecnologia. Con l’invenzione dei primi bombardieri a lunghissimo raggio, ma anche di missili intercontinentali in grado di radere al suolo un’intera città. Quando d’un tratto, gli Stati Uniti di Truman si resero conto che proprio lì, fra tutti i luoghi possibili, avrebbero dovuto porre le loro basi più avanzate. Il che costituiva un problema, poiché la Groenlandia, fin dall’epoca coloniale, costituiva un paese costituente all’interno del regno di Danimarca. Paese alleato eppure, non troppo vicino da un punto di vista delle alleanze militari. Nel 1946, dunque, l’amministrazione presidenziale fece quello che avrebbe fatto qualunque altro capo del singolo paese più forte e influente nel Mondo Occidentale. Durante una visita del ministro degli esteri danese nel 1946, il segretario USA fece un’offerta formale di 100 milioni di dollari per l’isola della Groenlandia. Che fu, per tutta una serie di ragioni, rifiutata. Intanto perché la Danimarca usciva, in quegli anni, da un lungo periodo di occupazione tedesca, e teneva più che mai a mantenere solidi i propri confini. E poi, soprattutto, non volevano aumentare ulteriormente l’ostilità dell’altra parte, dopo che i russi avevano dovuto lasciare per i trattati internazionali di pace l’isola nel Mar Baltico di Bornholm. L’affare, dunque, non si fece. Ma come nel caso odierno degli accordi sul clima di Parigi rifiutati da Trump, questo fece ben poco per influenzare effettivamente gli eventi della storia. Poiché vigeva necessariamente in Groenlandia, come in taluni altri luoghi remoti del mondo, la regola fondamentale della frontiera: chi per primo giunge, meglio alloggia. E l’effettivo stato dei rapporti di potere, giammai avrebbe permesso ai danesi di rifiutare lo spazio per “installazioni di ricerca” e “stazioni meteo” da gestire in maniera congiunta con gli americani. E se poi al paese d’Europa fosse mancato il personale tecnico da inviare fin lassù, nessun problema: avrebbero pensato a tutto loro. Fu un processo lento ma inesorabile. Finché, nel 1957, la svolta: per la prima volta, nella zona controllata dagli USA giunsero 27 persone non più appartenenti ad istituzioni scientifiche, bensì effettivi membri dell’esercito, con l’incarico di rispondere a una domanda nuova: sarebbe stato possibile costruire una base sopra e all’interno del permafrost, da cui puntare una metaforica pistola verso il cuore stesso degli elfi, dall’altra parte del mare? In prima analisi, perché no, ed in ultima analisi, certamente. Così nacque il sito II, nome in codice Fistclench (la “stretta del pugno”) scavato nei ghiacci eterni grazie a un formidabile nuovo tipo di macchinari svizzeri, dal nome di Peter Snow Miller. Era l’inizio di una delle serie di eventi più strane, e terribili, di tutta la storia del Circolo Polare Artico…
Lo strano caso della talpa coi tentacoli sul naso
Fatti piccolo, ancora più piccolo, praticamente un topolino. Con due zampe forti per scavare. E un pelo folto, una boccuccia con 44 denti, per meglio fagocitare vermi, insetti o crostacei. Talmente piccolo che le riserve d’energie dovrai tenerle nella coda, in attesa del momento in cui dovrai spenderle, d’un tratto, per cercare una compagna degna dell’accoppiamento! Ma come potrebbe realmente sopravvivere, nella più profonda oscurità del sottosuolo, una creatura del peso di appena 55 grammi, col metabolismo rapido di un roditore… Facendo il possibile per procacciarsi da mangiare ad ogni ora. Una talpa non è un topo. Ed un topo, non è una talpa. Ciascuno può contare sulle sue particolari strategie. Anzi si potrebbe dire a proposito di Condylura cristata, la quale vive nel Canada e gli Stati Uniti nord-occidentali, che il suo sia più che altro uno strumento. Per annusare. E tastare. E misurare! Quale nessun altro mammifero, di questo vasto mondo, possa dire di aver mai provato l’eguale. La chiamano la talpa dal muso a stella, ma per certi versi, direi che il suo assomiglia più che altro a un fiore. Proveniente dalle più remote profondità del cosmo. Una mostruosa margherita, che se mai qualcuno dovesse azzardarsi ad annusare, farà l’indicibile, sniffandoti a sua volta, come l’Abisso filosofico di chi sai tu. Per poi fare sèguito nel giro dei secondi, come da programma, con l’attacco del piccolo e vorace mangiatore.
La talpa in questione è piuttosto inusuale, e non soltanto per il suo organo speciale. Tra tutte e 39 le specie della sua famiglia essa costituisce, in effetti, l’unica che goda di particolari adattamenti per l’ambiente paludoso ed umido dei bassopiani fluviali. Dove l’umidità costituisce un’arma a doppio taglio, perché da una parte permette all’olfatto di percepire più facilmente gli odori, ma dall’altra li blocca completamente, laddove una pozza o infiltrazione si frappone tra predatore e preda. Qualunque fosse la via intrapresa dalla specializzazione dell’animaletto in questione, dunque, deve essere apparso più che mai chiaro già qualche millennio fa, che esso fosse destinato a sopravvivere, o perire, in funzione dell’efficienza del suo senso olfattivo. Una generazione dopo l’altra, dunque, è iniziato ad emergere la soluzione. Gradualmente, nel naso del piccolino si sono concentrate molte migliaia di organi di Eimer, le papille tastatorie che caratterizzano l’intera genìa delle talpe, in grado di tastare e percepire gli odori allo stesso tempo, finché sostanzialmente, non c’era più una superficie sufficiente a contenerle. Immaginate la nascita della mano umana. Un’appendice, dapprima più simile a una zampa, che profondamente manifesta il desiderio di manipolare, manipolare sempre maggiormente ciò che la circonda. E secondo quanto giudicato necessario, a un certo punto, si guadagna le sue dita lunga e affusolate. Ecco, qualcosa di simile per lei, la talpa. Però al centro della faccia. Poi provate a dire che la Natura non ha il senso dell’umorismo…
Tuttavia, lungi dal preoccuparsi della sua classificazione in un concorso di bellezza, la tenace scavatrice ha saputo trarre il meglio da questa mirabolante dotazione. Apprendendo il succo ed il segreto, il Santo Graal del regno animale, di connettere il cervello in via diretta con gli impulsi ricevuti. Studi neurologici hanno dimostrato come oltre il 50% delle fibre pensanti della talpa siano dedicate al controllo e l’interpretazione dei segnali captati dal muso-a-stella. Proprio per questo, si usa dire che la C. cristata sia il mammifero in assoluto più veloce a mangiare, in grado d’identificare in condizioni ideali, ghermire e ingurgitare una preda in un tempo complessivo di appena 120 millisecondi (la media misurata è in realtà 227 ms). Il che sembra quasi superfluo, visto che stiamo parlando di creature piuttosto inermi, come semplici vermi di terra, ma è in realtà assolutamente fondamentale per la sua soluzione biologica di fondo. Meno tempo impiega a cacciare, meno la talpa consuma calorie. E tanto più a lungo, dunque, può sopravvivere con un singolo verme catturato.