L’invenzione norvegese dell’unico skilift per ciclisti al mondo

Quando s’inizia ad andare a lavoro in una grande città, avvengono alcuni cambiamenti negli schemi mentali di chi guida che lo portano, per la prima volta, ad invidiare concetti e situazioni del tutto nuove. È impossibile dimenticare ad esempio la prima volta in cui, bloccati temporaneamente a un semaforo, ci si ritrova affiancati da colui o colei che può definirsi tanto eccezionalmente fortunato/a, da poter vivere il proprio pendolarismo a bordo di un velocipede a pedali. Chiusi nella propria letterale capsula di metallo, dietro un parabrezza raffreddato con l’aria condizionata, rivolgere il proprio sguardo verso chi, di suo conto, possiede ancora il coraggio e il diritto di affrontare il clima, le intemperie, quel salutare sforzo dei muscoli finalizzato a raggiungere una meta (assai meno) distante. Un’eventualità che appare tanto più probabile, quanto maggiormente ridotta è la dimensione dell’agglomerato urbano in cui si trascorrono i lunghi anni della propria vita, nel sempiterno rispetto di una curva probabilistica che non può che diminuire col progressivo aumentare di due fondamentali “D”: la Distanza ed il Dislivello.
Così per chi vive a Trondheim nel Trondelag, regione relativamente popolosa della Norvegia, un’estensione di “appena” 341 Km e circa 187.000 abitanti assicurano a una percentuale relativamente elevata di potersi recare spostare facendo ricorso esclusivamente ai pedali e la propria energia muscolare. Tranne che per un piccolo, importante problema: le pendici dell’alto monte Storeya, che gettando le proprie radici verso la parte occidentale del centro abitato, garantiscono un sollevamento discontinuo del territorio fino al di là del tortuoso fiume Nidelva. Il che colloca, esattamente in corrispondenza del Ponte Vecchio (Gamble Bybro) una ripida salita che conduce, tra tutte le mete possibili, alle porte del quartiere Bakklandet dove si trova l’Università. Cinque metri più in alto di dove si era partiti. Ora quando si è studenti o insegnanti in un centro abitato di dimensioni medio-piccole, molto spesso la bicicletta diventa un mezzo talmente pratico e conveniente da risultare praticamente obbligato. Se non fosse per quel singolo tratto di strada il quale, ogni giorno, portava i percorritori a raggiungere l’obiettivo con un residuo senso d’affanno e latente sfinimento.
Fortuna volle tuttavia che, nei primi anni ’90, questo stesso tragitto facesse anche parte dell’esperienza personale di Jarle Wanvik, fondatore e presidente della società ingegneristica Design Management AS, il quale aveva un’idea e a conti fatti, il coraggio di arrivare a vederla realizzata. Ragione per cui, stanco per l’ennesima sudata primaverile o estiva (dopo tutto, da queste parti possono fare FINO A 18-20 gradi!) decise di andare dal sindaco o il suo assessore di turno, proponendo ciò che aveva prodotto l’ultima volta che si era seduto al tavolo da disegno: una sorta di nastro trasportatore da seppellire sotto il cemento cittadino, finalizzato a far muovere un lungo susseguirsi di piccoli vagoni. Alcuni dei quali dotati, ad intervalli regolari, di quello che poteva essere soltanto un appoggio per piedi umani. Nasceva così la prima versione di Trampe, ascensore per biciclette, dispositivo capace non tanto di abbreviare le distanze di un quotidiano tragitto, quanto di eliminare, letteralmente, l’ostacolo che riusciva in qualche modo a tagliarlo in due. A patto di aver richiesto al comune l’apposita scheda perforata, dal costo che possiamo soltanto presumere assai ragionevole visto che dal 2013, come parte di una manovra inclusiva e democratica, è stato completamente ridotto a zero.

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La torre di 50 metri sullo scoglio più remoto della Cornovaglia

Sagoma stagliata nella nebbia, circondata dall’alone di un sole stranamente remoto. Che si erge in mezzo ai flutti, sostenuta da una forma larga appena quanto le sue stesse fondamenta. Tanto da lasciar pensare che debba inevitabilmente trattarsi, quanto meno, di una costruzione ultra-moderna, basata su una titanica colata di cemento, oppure soluzioni tecniche come dei grandi galleggianti. Niente, tuttavia, potrebbe essere più distante dalla verità: poiché il faro di Bishop Rock (la Roccia del Vescovo) ha in effetti oltre un secolo e mezzo di storia, ed è stato collocato lì in risposta ad una serie di drammatici eventi, particolarmente celebri nel tormentato tragitto della storia d’Inghilterra.
Poche vicende costituiscono la dimostrazione dell’orgoglio sproporzionato di un uomo in una posizione autorevole, nonché della sua intera categoria professionale, quanto il tragico disastro delle Isole Scilly del 1707, culminante con la perdita di un numero tra i 1.400 e 2.000 marinai e i loro stesso ammiraglio, di ritorno da una difficile battaglia di supporto della guerra di successione spagnola, relativa al blocco della città francese di Toulon. Al punto che assai numerose furono le dicerie e leggende, sulla fine inevitabile di Sir Cloudesley Shovell, già veterano di almeno due tra i numerosi conflitti navali combattuti dalla Marina Reale in Europa verso la fine del XVII secolo. Tra cui la storia, al tempo stesso tipica e altamente indicativa, sul marinaio originario di questo particolare arcipelago, che trovandosi a bordo della stessa nave del supremo comandante, sentendosi obbligato a far sentire la sua voce, in merito al fatto che la flotta si trovasse molto più a settentrione di quanto era stato calcolato. Tutto ciò, ottenendo solamente una severa punizione, corrispondente secondo alcune versioni all’immediata impiccagione all’albero maestro. Piuttosto eccessivo, nevvero? Fatto sta che questo fosse il tipo di naufragio, capace di coinvolgere quattro delle venti navi sotto il disgraziato comando e in grado di lasciare un segno profondo nell’immaginazione di un paese e la sua elite al potere, gli uomini del Parlamento sotto la tutela del Re.
Il primo atto compiuto a tal proposito, dunque, sarebbe stato quello di far traslocare la tomba dello stesso Shovell, che una volta seppellito sulla vicina isola principale dell’arcipelago, era diventata vera e propria pietra dell’infamia per l’odio popolare, a causa del mito sulla fine del subordinato ingiustamente punito. Il secondo sarebbe effettivamente passato alla Storia, come Atto della Longitudine del 1714, emanato dal governo affinché la marina fosse fornita, dietro lauta ricompensa, di un sistema nuovo e più efficiente per triangolare la propria posizione in mare. Voleva il caso infatti, che mentre l’arco del parallelo geografico corrente fosse ragionevolmente facile da determinare, grazie all’altezza del sole a mezzogiorno o delle stelle nel cielo notturno, l’unico modo conosciuto al tempo per determinare il meridiano fosse ricorrere alla navigazione stimata (o dead reckoning) sulla base della velocità e il tempo di navigazione trascorso. Un sistema inerentemente impreciso, di fino a un ventesimo del cammino compiuto fino a un determinato momento, con conseguenze potenzialmente disastrose e già ampiamente dimostrate. Ma poiché le varie soluzioni tra cui cronometri e solcometri più precisi, oltre a un nuovo sistema di calcolo dell’altitudine lunare elaborato dal carpentiere e orologiaio John Harrison dietro lauta ricompensa governativa, tardavano a prendere piede tra coloro che ne avrebbero dovuto fare un uso coscienzioso, causando tra l’altro ulteriori naufragi presso le isole di Scilly, il governo scelse di rivolgersi come terza contromisura alla Trinity House, la corporazione fondata nel 1514 e ancora oggi operativa, con l’antico incarico di gestire tutti i fari della Gran Bretagna. E fu così che ad oltre un secolo di distanza il rinomato ingegnere di origini scozzesi James Walker venne trasportato per la prima volta presso lo scoglio responsabile di tante disgrazie, per il sopralluogo che avrebbe portato, nel 1847, alla costruzione del primo faro di Bishop Rock.

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La spiaggia che assorbe la luce assieme al mare d’Islanda

È soltanto una volta scesi dall’aereo e lasciata Reykjavík, percorrendo la grande Hringvegur, o strada ad anello che circonda un’intera nazione nel mezzo dell’Oceano Atlantico verso la costa meridionale della terra vulcanica per eccellenza, che si acquisisce realmente la sensazione di trovarsi su un’altro pianeta. Tra zone verdeggianti e montagne pietrose, parallelamente a ruscelli che trasformano in sottili e scintillanti cascate. Dove lo sguardo rapito non può che lasciare la strada asfaltata, verso i rilievi che formano l’anfiteatro distante da cui provengono quelle misteriose nebbie cineree, esalazioni dalle viscere stesse del Profondo. In luoghi come il vulcano di Katla, ospitante il ghiacciaio di Mýrdalsjökull, al cospetto del quale si estende il singolo insediamento più vasto dell’isola, per lo meno dal punto di vista dell’estensione. Quel “villaggio” di Vík í Mýrdal, misurante circa 70 Km da un’estremità all’altra, secondo quanto definito dalle disseminate case dei suoi appena 291 abitanti. Ed è soltanto fermandosi in questo luogo, presso una delle stazioni di ristoro o rinomati piccoli alberghi a disposizione del fiorente turismo locale, che il visitatore potrà iniziare la propria escursione più memorabile, di un viaggio e probabilmente, fase intera della sua stessa vita. Verso una striscia nera di sabbia vulcanica che pare attraversare l’Atlantico, incorniciata tra il promontorio (fjall) di Reynir, nome del primo vichingo che chiamò questo luogo “casa”, e la maestosa formazione rocciosa denominata Dyrhòlaey, un’arco abbastanza alto da permettere il passaggio di un’intera nave.
È Reynisfjara, unica spiaggia non tropicale a figurare regolarmente nelle classifiche di tali luoghi, un territorio battuto dal vento gelido e le onde incessanti provenienti dal Settentrione, dove il visitatore tende a dimenticare la propria identità e luogo di provenienza, mentre si sperimenta la furia possente della natura. Finché una vista assurda e apparentemente illogica, d’un tratto, non lo riporta ad interrogarsi sulla meccanica di quello che sta vedendo; la risacca che sale con insistenza, spingendolo a ritirarsi verso le scoscese pareti basaltiche del promontorio antistante. E poi… Piuttosto che ritornare indietro, sparisce senza lasciare traccia. Sembra di assistere all’effetto grafico di un imperfetto videogame. Poiché ciò che sale, dovrebbe prima o poi percorrere la strada inversa. Non trasformarsi in materia invisibile, ovvero sostanzialmente, lasciare la piena esistenza di questa Terra! Possibile che al di là della nebbia, quel giorno, fossero in atto forze mistiche o sovrannaturali… Come la notte lungamente narrata, in una leggenda folkloristica locale, durante la quale tre giganteschi troll attaccarono una nave da trasporto a largo del Reynisfjall, cercando di trascinarle a riva per trafugarne il carico. Se non che la coraggiosa resistenza dei marinai, spinti dalla forza della disperazione, finì per impegnare i mostri fino al fatidico sorgere dell’astro solare, il cui potere sui vagabondi capaci di rigenerarsi è fin troppo noto; pietrificazione, senza nessuna pietosa via di scampo. Tanto che essi campeggiano, tutt’ora, a largo della spiaggia e in forma di faraglioni erosi dalle onde, tra cui il vento sibila con un velato senso di scherno. Reynisdrangar, è il loro nome, e in alcune versioni del racconto si tratterebbe invece di due giganti e un’incolpevole fanciulla lasciata a trasformarsi in pietra con loro da suo marito, in cambio della promessa da parte dei bruti di non nuocere più all’esistenza e la vita degli umani. Di certo un fato tutt’altro che invidiabile, benché non privo di una certa solennità immanente.
Eppure, strano a dirsi, la spiegazione del gioco di prestigio con l’acqua tra i grani cupi è una commistione di fattori estremamente logici, nient’altro che l’espressione di quel rapporto tra causa-ed-effetto che fin dall’alba dei tempi, ricevette il compito di governare il mondo. Se soltanto una simile astrusa scenografia, così diversa da ogni esperienza pregressa, non facesse tutto il possibile per trasportare la mente a pensieri distanti…

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Il valore architettonico di un gabinetto norvegese nel nulla

L’esperienza di visitare una qualsiasi grande città italiana, per un turista, può talvolta risultare ansiogena, soprattutto se proviene da un paese del Nord. Mentre ci si sposta da un’antico monumento a una piazza storica, assorbendo uno per uno  i reperti delle epoche passate, il clima mediterraneo tenderà inevitabilmente a pesare sull’impeto della camminata, soprattutto in estate. Così, a temperature superiori di anche 15 gradi rispetto a quelle di una città come Oslo, persino a parità di stagione, il sudore inizierà a formare dei rivoli copiosi, mentre prevedibilmente, l’esploratore fuori sede finirà per acquistare una bottiglietta d’acqua, da un minimarket o uno dei tanti venditori ambulanti del centro. Così con l’avanzare del pomeriggio, prima o poi, avvertirà la necessità d’utilizzare la toilette. Un’esperienza che in territorio nostrano, per quanto basilare, può talvolta risultare contro-intuitiva. Già perché dove sono, ad esempio, i gabinetti pubblici della Capitale? Roma è un luogo in cui, se si avverte il bisogno di espletare le risultanze, l’unica scelta ragionevolmente a disposizione è spesso prendersi un caffè al bar. Mentre grava sulla propria testa la possibilità, sempre presente, che proprio il locale in cui è stata riposta la propria fiducia abbia appeso il lapidario cartello “guasto” per questioni di tipo tecnico o amministrativo. Perciò mentre si chiede al proprio fisico di trattenere ciò che non può essere rimandato, tanto spesso, lasciare i confini della città verso l’aperta campagna rappresenta un’esperienza di riscoperta, che permette un ritorno metaforico e letterale alla natura. Dove ogni luogo può essere un bagno, quando la necessità guida il giudizio e le preoccupazioni diventano poco più del battito d’ali di una falena, attorno al fuoco notturno della liberazione individuale.
Prendiamo in analisi, di contro, la questione di un tipico luogo turistico norvegese. Il paese in grado di sconfinare nel Circolo Polare Artico, la cui densità di popolazione media, per ovvie ragioni contestuali ammonta a sole 15,8 persone per Km quadrato (ma può calare, in vaste aree del territorio, a fino un terzo di quella cifra). Un paese lungo e stretto, in cui un ristretto numero di lunghe strade statali riveste un ruolo primario nella viabilità nazionale, con utilizzo relativamente intenso e costi di mantenimento altrettanto significativi. Ciò che avviene a quel punto, come in certe aree centrali degli Stati Uniti per la leggenda della storica Route 66, è che il tragitto stesso diventa una meta degna di comparire sulle guide, arricchendosi d’innumerevoli “punti di sosta” consigliati ai turisti, ciascuno dei quali in grado di offrire un modo per fermarsi ed assaporare il momento, senza la mediazione gravosa degli pneumatici e del volante. Soltanto che, senza il linguaggio tipico del kitsch d’oltreoceano, piuttosto che monumenti alla bizzarria come la più grande ciambella del mondo, il dinosauro evoluzionista a scala naturale o l’edificio a forma di cestino del pranzo, simili attrazioni tendono qui ad avere una specifica funzione. E tale funzione, tanto spesso, è il bagno. Ed è singolare ma comprensibile, in un tale panorama, il successo internazionale riservato a una creazione come quella di Ureddplassen tra Gildeskål e Meløy, nel Nordland, proprio dove la celebre strada Helgelandskysten transita di fronte al golfo di Fugløya. “Ecco a voi il bagno più bello del mondo!” hanno titolato giornali per lo più inglesi come il Telegraph e il Daily Mail, mentre secondo una prassi già lungamente acquisita, le testate di altri paesi hanno si sono fatti ambasciatori dell’insolita notizia. Poiché in effetti, l’aspetto di questa struttura è tanto atipico da sembrare quasi decadente. Il senso di meraviglia inizia già mentre si lascia l’area di sosta, percorrendo una serie di ampi gradini costruiti come parte di un anfiteatro, giungendo presso una piazza in riva al mare dotata di attraenti panche rivestite in marmo di rosa norvegese. Ed è allora che apparirà al centro del proprio campo visivo, il più particolare piccolo edificio con pareti di vetro non-trasparente, il tetto formato da una struttura in grado di ricordare il moto delle onde che s’infrangono sugli scogli antistanti. “Mentre ci si avvia verso la ritirata” racconta un sito web, “…sarà possibile udire il richiamo distante delle pulcinelle, aquile di mare o il più grande gufo d’Europa, l’hubro. Alla vostra destra, un importante monumento…”

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