Il significato delle rocce eternamente equilibrate

Kyaiktiyo Pagoda

C’è un luogo in Birmania, sotto la montagna di Kyaiktiyo, ove sorge un piccolo villaggio di nome Kinpun, con abitazioni tradizionali ed orti tipici, ma anche ristoranti, negozi di souvenir… Poiché nessun turista che dovesse passare da queste parti, pur non essendo un fervente religioso, potrà mai fare a meno di salire per assistere al miracolo del Macigno d’Oro. Che da millenni sembra pronto per cadere, lievemente in bilico sul ciglio del burrone. Ma che giorno dopo giorno, resta lì. 611,5 tonnellate di granito! È una visione niente meno che paradisiaca: tra la foschia proveniente dal remoto golfo del Bengala, spunta questa forma spigolosa, circondata da terrazzamenti ed edifici riccamente ornati, secondo lo stile delle opere d’arte del buddhismo Theravada eppure con l’aggiunta di elementi locali, quale le statue degli spiriti dei Nat, personificazioni delle forze naturali. Ma non c’è niente, tra le cose costruite dagli umani, che possa competere con una simile imponente presenza, in grado di focalizzare e catturare lo sguardo di ognuno. Sopra il macigno, c’è uno stupa, inteso come il monumento dell’intero sub-continente indiano e dei paesi confinanti, generalmente impiegato con il fine di rendere visitabile una sacra reliquia. Il quale, in questo caso, non riesce neanche lontanamente a contenere l’oggetto all’attenzione dei suoi progettisti, che stolidamente svetta, giace, domina il paesaggio. Sembra quasi che qualcuno, se dovesse scegliere di spingere con forza, potrebbe farlo cadere con facilità. Le apparenze ingannano: niente, nessuno potrebbe contare su una forza sufficientemente significativa da rimuovere una tale grande cosa. E qualora qualcuno, per volontà del Caos o del Fato, dovesse aver successo nell’impresa, allora saremmo di certo tutti quanti nei guai. La stessa fine del mondo, d’improvviso, apparirebbe più vicina!
E la ragione di una tale apparente esagerazione va cercata, se vogliamo, nella storia che è all’origine di questo antico luogo di culto, parte di un pellegrinaggio considerato assolutamente fondamentale per chiunque desideri raggiungere la buddhità. Per chi davvero crede nel significato della meditazione tramite preghiera, dopo tutto, rendere onore a un simile significante senza tempo vuole dirlo farlo all’indirizzo di colui che rese possibile posizionarlo fin lassù: niente meno che Śakro devānām indraḥ, anche detto Thagyamin, signore degli Dei e degli Asura, l’essere supremo che agisce da pacere nelle eterne guerre fri queste ultimi due gruppi d’individui sovrannaturali, che da tempi sempiterni scuotono con le loro armi magiche i confini del cielo. Ma il potere di un alto sovrano e difensore del Buddha stesso, dopo tutto, agisce totalmente su di un’altra scala. Un fatto che talvolta, occorre ricordare ad entrambe le regioni del cosmo. E fu così che Śakra, una volta contattato dal re Tissa del popolo terrestre dei Mon, decise di ascoltare la sua storia: “Oh, grande governante in armi del cielo! Ascolta quanto ho da dirti. Alla mia indegna corte, in questo dì di festa, è giunto un eremita che si fa chiamare Taik Tha. Egli recava in dono, secondo il volere del Buddha Gautama stesso, una ciocca dei capelli di Costui, capace di assisterci nel tentativo di assomigliare il più possibile alla Sua perfetta consapevolezza di ogni cosa. Ma per farcene dono, ci ha richiesto in cambio l’impossibile: che la reliquia venga custodita sotto il peso di un enorme macigno con la forma della sua testa, affinché tutti potessero ricordare, attraverso i secoli, il nome dell’insignificante Taik Tha. Oh, personificazione terrena di Indra! Oh, Imperatore di Giada delle terre sconfinate del Nord… In nome del potere di mio padre, stregone ed alchimista, e di mia madre, principessa dei Naga dalla coda di serpente, io ti chiedo assistenza. Mostrami la via…” Così ebbe a verificarsi, sotto gli occhi dell’intero popolo riunito, un grande e maestoso prodigio: un fulmine divise il cielo, la terra tremò per qualche attimo, l’acqua delle cascate cessò brevemente di scorrere…. E alla fine di un simile disturbo, dentro al fiume, v’era l’ombra lieve di una nave magica, fluttuante in forza delle sue speranze. Pronta a dirigersi tra i flutti dell’Oceano sconfinato!

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Le strane voragini tra il permafrost della Siberia

Yamal Sinkhole

L’attimo, la terra che tremò. L’aria, s’incendiò. Mentre un colpo fragoroso, come l’esplosione di una bomba dal potenziale misurabile in diversi megatoni, risultò udibile fino a 100 Km di distanza, tra le rustiche case degli allevatori di renne della penisola di Yamal, il cui nome significa letteralmente: la terra alla fine del Mondo. Un’appellativo di natura soprattutto geografica, visto come tale striscia soltanto in parte abitabile, posizionato tra la baia di Baydaratskaya nel mare di Kara ed il golfo di Ob, veda la sua parte settentrionale estendersi nelle propaggini più estreme del Circolo Polare Artico, dove i grandi orsi e le foche costituiscono le uniche forme di vita in grado di prosperare al di sopra della superficie dell’Oceano. Ma che potrebbe presto diventare un vero ammonimento letterale, rivolto ai popoli del pianeta e col supporto dei fatti attualmente già verificatosi. Sul fato deleterio che ci attende tutti quanti, prima o poi, a meno che non sopraggiungano elementi nuovi di giustificazione o un radicale cambio di stile di vita. In un luogo che non ha nome, se non nella tradizione orale di chi vi transita da immemori generazioni, verso l’inizio dell’estate del 2013, è così comparso un buco. Dalle notevoli caratteristiche geometriche: 70 metri di diametro, 50 di profondità, con una forma regolare che poteva far pensare ad un impatto meteoritico, o all’esplosione di un ordigno posizionato dall’uomo. Ma i diversi team di scienziati sia americani che russi, che negli ultimi anni si sono dati il cambio nell’analizzare l’incomprensibile nuova caratteristica del territorio, non hanno trovato i segni che avrebbero dovuto giustificare l’una o l’altra ipotesi. Semplicemente, innumerevoli tonnellate di terra sono state improvvisamente scaraventate verso l’alto, ricadendo in giro per la tundra anche a molti chilometri di distanza. È come se il suolo stesso fosse essenzialmente, esploso.
Ma la storia non finì lì. Negli ultimi tre anni, da un estremo all’altro di una tale terra desolata, giunsero numerose altre testimonianze di simili eventi: almeno altri tre grandi crateri, oltre ad un numero attualmente stimato tra i 20 e i 30 dalla posizione ignota, forse più piccoli ma comunque sufficienti ad inghiottire un pastore, la sua slitta e l’intero gregge delle renne che lo stavano seguendo fino al pascolo distante. Nel giro di pochi mesi dalla loro formazione, quindi, simili depressioni tendono a riempirsi d’acqua diventando a tutti gli effetti indistinguibili da elementi paesaggistici più convenzionali. Eppure, per chi ne conosce l’origine, essi appaiono meritevoli di guadagnarsi quell’appellativo spesso impiegato più a torto che a ragione, di “Porta dell’Inferno” quasi come le anime dei trapassati gridassero con furia dai recessi umidi tra le pareti ripide e scoscese. Mentre sia il Vladimir Pushkarev, direttore del Centro Russo per l’Esplorazione dell’Artico, che il Prof. Julian Murton dell’Università del Sussex, che in prossimità di simili recessi ha guidato più di una spedizione con partecipazioni internazionali, hanno rassicurato il mondo facendosi calare nei reconditi anfratti, e garantendo quindi che: “Non c’è alcun pertugio che s’inoltra nelle viscere della Terra, in fondo a questi fori. Tutto finisce ove può spingersi l’occhio umano.” Il che, nel risolvere un mistero, ne creava un’altro: in assenza di punti di sfogo dalla natura vulcanica o misteriosa, che cosa dunque avrebbe dovuto causare il crearsi di un tale grande vuoto? Le possibili risposte fornite a margine sono state molto diverse. Ma ce n’è una, in particolare, che sembra la più probabile…

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Chi misura gli alberi più alti al mondo

Big Lonely Doug

Dietro un record significativo c’è (quasi) sempre una grande storia, e questo tanto maggiormente vero nel caso di un categoria da guinness, forse meno immediatamente spettacolare de “la creatura più veloce” o “l’uomo più forte del mondo” eppure straordinariamente importante per giungere a una comprensione più profonda del nostro pianeta. Perché risponde a una domanda d’importanza fondamentale: fino a che punto può spingersi la natura, nel rendere imponente e duraturo un solo, gigantesco essere? In se stesso dotato di ogni presupposto a sopravvivere per molte interminabili generazioni, ed al cui confronto noi effimeri camminatori del terreno non possiamo che esprimere la nostra riverenza, per venerarne ad un livello istintivo lo spirito prezioso ed antico… E la ragione di una simile avventura? Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non è affatto facile assegnare un numero all’immenso, per quanto immobile e del tutto privo d’intenzioni. O per lo meno, è difficile farlo in maniera precisa. Voglio dire, provateci! Simili alberi massivi crescono, generalmente, in luoghi estremamente remoti, o in altri termini abbastanza scomodi perché, nelle generazioni, nessuno si sia mai preso la briga di buttarli giù, con l’obiettivo di creare gigantesche navi o la struttura d’edifici di ogni tipo. Non è quindi possibile sfruttare punti di riferimento, con la finalità di fare, per così dire, ad occhio. Né la soluzione più tecnologicamente moderna, dell’impiego di un sistema di misurazione laser, sortisce facilmente l’effetto desiderato, visto come la cima tenda ad oscillare nel vento, i rami siano molteplici e l’ottenimento di una misurazione oggettivamente corretta, anche per questo, estremamente passibile d’errori. Così alla fine, non resta che un’unica possibile soluzione: armarsi e partire.
Come fatto da questo team formato da vari individui dell’Arboreal Collective e dell’Ancient Forest Alliance, entrambe organizzazioni con sede nella Columbia Britannica, al fine di cementare, ed iscrivere nei libri mastri, la scoperta di “Big Lonely Doug”. Un abete. Non esattamente uguale a quello che avete addobbato in occasione del Natale scorso: se questo fosse un edificio, avrebbe almeno 15 piani. E la circonferenza del suo tronco è tale, che se un’automobile con quattro porte dovesse mettersi a girargli attorno, essa sparirebbe pressoché immediatamente dalla vostra vista. Queste sono, per intenderci, le dimensioni di cui stiamo parlando. 66 metri d’altezza, 4 di larghezza. Una vera enormità. E dire che l’antico vegetale, sito nel bel mezzo dell’isola di Vancouver, non è nemmeno vicino ad essere il più grosso del mondo sotto alcun parametro, venendo facilmente superato da almeno un suo simile alto quasi il doppio, laggiù nella contea di Coos nell’Oregon, per non parlare di tutti gli altri appartenenti ad una lista che viene ogni anno pubblicata, documentata ed aggiornata, con al suo interno la più vasta selezione di arbusti dell’America Settentrionale, australiani ed appartenenti ad ogni recesso geografico dell’area dei Tropici. Già, ma misurati COME? Salendoci sopra, se proprio volete saperlo! Il sistema più efficace, “semplice” ed a prova d’errori: un coraggioso, scelto tra i più agili del gruppo, dovrà premurarsi di lanciare a grande altezza un tenue e lungo filo, con un contrappeso alla sua estremità. Quindi mettersi a tirare quella cosa giù dall’altra parte, ma non prima di averla assicurata ad una corda da alpinismo, che egli impiegherà, secondo i suoi metodi e ritmi, per giungere fino alla cima della foresta e del mondo. E tutto questo, con la sola finalità di ritrovarsi da solo, lassù, una mano saldamente stretta al più solido ramo del circondario. Ed un altra, che stringe saldamente un nastro di misurazione, la cui estremità crescente dovrà essere gettata giù. Ottenendo, finalmente, una lettura in chiari metri dell’originale senso di stupore e meraviglia. Ed è proprio così, alla fine, che qui nasce una leggenda.
L’impresa relativa a questo particolare abete di Douglas, che viene definito il secondo più alto del Canada, non è del resto neanche tra le più incredibili. Ma soltanto una delle meglio documentate su YouTube. Gli alberi della specie Pseudotsuga menziesii, infatti, sono estremamente resistenti, rapidi nella crescita e vivono fino a 1.000 anni. Il che significa che essi attraversano, nel corso della loro vita, un’ampia serie di cambiamenti, tra cui il processo di auto-potatura dei rami più bassi per ottimizzare il proprio dispendio di energia. Raggiunto il secolo d’età, quindi, essi presentano uno spazio di circa 10 metri da terra, in cui l’unico appiglio offerto agli aspiranti scalatori è il tronco nudo dalla ruvida e sugherosa corteccia. E gli ostacoli si moltiplicano, con il distanziarsi del soprastante obiettivo…

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La tecnica segreta dell’airone ad ombrello

Black Heron

150 cose tondeggianti nere, più alte nella parte centrale, che appaiono vagare nella torbida corrente, al tramonto. Ma non tutte nella stessa direzione! Ciascuna digradante ai lati, con un ciuffo dorsale che si arruffa in modo stranamente ritmico e sincronizzato. Potrebbero sembrare parasoli con le piume, che qualcuno di assai distratto ha aperto, quindi fatto rotolare giù in terra, finché la sabbia ed il pietrisco non hanno lasciato il posto all’acqua verde di materia vegetale, che lentamente li ha riuniti in un feccioso gorgo. Se non fosse che, in effetti, questo delta dell’Okavango non costituisce un luogo tanto frequentato dai turisti, con le sue moltitudini di coccodrilli, leoni, iene, ghepardi, sciacalli, leopardi… Al punto che, persino i mammiferi più grandi e forti al mondo, quali l’elefante, il bufalo e il rinoceronte, qui preferiscono restare in gruppo, per meglio proteggere i propri piccoli dalla pressante fame della collettività. Il Botswana più selvaggio, del resto, è così: cane mangia cane, e poi, arriva qualcosa di più forte e mangia pure il cane. Mentre altri organismi, più furbi, scelgono la vita via dagli occhi del nemico potenziale. Laggiù sul fondo del maestoso fiume, nutrendosi di scarti e d’alghe semi-consumate. Molti sono i piaceri a cui rinunciano, i ciprinidi e gli altri piccoli pesci d’acqua dolce, per salvarsi nell’ambiente segregato che li rende più difficili da catturare. Il grande Sole che s’infrange sull’increspatura, l’erba verde, il vento che precorre i ripidi sentieri. Eppure, anche così, essi non sono invulnerabili. Come riesce chiaramente a dimostrare l’Egretta ardesiaca, più comunemente definito airone nero.
La scena di uno di questi uccelli impegnato nella pesca è un’espressione di soave grazia ed eleganza. Non per niente, intere scuole di pittura dell’Oriente lo hanno fatto il proprio soggetto d’elezione, senza mai mancare di raffigurarlo al centro delle proprie scene di bucolico splendore. Esso avanza, lentamente, con le gambe che si flettono appena. Poi estende il lungo collo con la forma ad S, e piega la sua testa da una parte, per meglio scrutare i movimenti sotto i flutti del suo ambiente naturale. Finché, convinto della sua triangolazione, non colpisce dritto con la punta del suo becco, trafiggendo il pasto inconsapevole che transitava di lì. Un pesce, tuttavia, non è un bersaglio facile, soprattutto per la sua cautela innata. La quale lo porta ad uscire dai luoghi sicuri unicamente quando la luce del giorno cade di traverso sul suo lago d’appartenenza, e comunque sempre spostandosi rapidamente da un luogo riparato all’altro. Il che scoraggerebbe molti, ma non il fotogenico protagonista della qui presente situazione predatoria. Che attraverso le generazioni, grazie alla sapienza endemica che ha ereditato il giorno della nascita, conosce un metodo per conquistare i piccoli e innocenti snacks pinnuti. Impiegando, per usare un termine forse facilmente frainteso, una sua versione del proverbiale gesto dell’ombrello. Non fatto con le braccia, s’intende (gli uccelli hanno le ali) bensì tramite un’applicazione assai più letterale del concetto, ovvero aprendosi come una cupola, le remiganti quasi a contatto con l’acqua, e nascondendo sotto la testa, per mettere i piedi l’uno dietro l’altro e procedere verso una certezza collaudata: che un ricco pescato potenziale, senza falla, si presenti innanzi ai loro gialli occhi indagatori.
Le ragioni possibili sono, essenzialmente, due: la prima è quella di farsi scudo dalla luce, per meglio trarre in fallo il piccolo fuggiasco di turno. Mentre la seconda, proposta dagli etologi soltanto in tempi più recenti, consisterebbe nello sfruttare l’istinto naturale di quest’ultimo a cercare la salvezza sotto foglie di ninfee, tronchi che galleggiano, all’ombra degli scogli o di altre protezioni naturali. Il che lo espone, sfortunatamente per lui, alla furbizia dell’airone ingannatore.

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