Gli stupendi palazzi sui laghi del Rajasthan

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Fluttuando lievemente tra l’onde, dietro il collo del cigno di legno, compare sull’acqua un maestoso edificio. Decine di finestre, quattro grandi padiglioni al centro delle mura ed altrettanti chhatri (gazebo decorativi) più piccoli agli angoli, con sullo sfondo un filare d’alberi piantati nel misterioso giardino. Sito nel punto in cui l’acqua ed il cielo s’incontrano, poggiato sul proprio riflesso, l’imponente Jal Mahal (palazzo dell’Acqua) conduce lo sguardo e il pensiero ad un tempo passato, quando la dinastia dei re di Amer mandava qui i propri giovani per svagarsi, a caccia d’anatre e d’altre conquiste. Ma guardando più attentamente la vasta struttura, come un turista dovrebbe pur fare, ad un certo punto ci si rende conto di qualcosa di molto strano: sotto le antiche mura, nei fatti, non c’è alcun appezzamento di terra. È come se queste mura galleggiassero, in effetti, sull’acqua stessa. O in altri e più probabili termini, proseguissero al di sotto della superficie, per poggiare più o meno saldamente sullo stesso fondale sabbioso del lago Man Sagar.
È universale il senso di desiderio che l’uomo prova, dinnanzi a una gemma di preziosa, di raccoglierla ed ornarsi del suo splendore. Così come un famoso archeologo raccoglie l’antica moneta, e la trasporta fino al museo che riporta il suo nome, colui che scava per raccogliere risorse non può fare a meno, ad opera compiuta, di edificare un qualcosa che dichiari ai posteri la propria esistenza. Una meraviglia dei secoli. L’edificio che è il frutto, sopra ogni cosa, dell’ambiente e delle circostanze presenti. Per questo Jaipur, città capoluogo dell’omonimo distretto nello stato indiano del Rajasthan, che fu fondata nel 1728 dal Maharaja Sawai Jai Singh II, è oggi nota in modo particolare col nome di “Città Rosa” per il colore predominante dei propri edifici, costruiti principalmente nella pietra d’arenaria e quarziti che da sempre affioravano, invitanti, sul suolo selvaggio di questa regione. Mere curiosità geologiche, forse, nell’occhio dei semplici mercanti che di qui passavano verso regni più ricchi e allettanti, ma le fondamenta stesse, in attesa di essere edificate, per l’intenzione di un ambizioso governante alla ricerca di terre presso cui imprimere la propria visione del mondo. Nei secoli successivi, dunque, la città fu attentamente pianificata e gradualmente ingrandita, secondo un progetto planimetrico molto preciso e moderno, mentre mano a mano si arricchiva di luoghi di riferimento degni di essere per lo meno citati: il Jantar Mantar, un osservatorio stellare all’aperto, costruito sul modello di analoghe strutture a Delhi; l’Hawa Mahal, palazzo dei venti, così definito per le mille merlettature e finestre da cui le donne di corte potevano osservare, non viste, la gente comune sbrigava le proprie faccende in strada; il Chandra Mahal, l’enorme reggia del capo del clan rajput dei Kachwaha, con sette piani letteralmente pieni di dipinti, sculture, specchi sui muri e decorazioni floreali. Eppure niente di tutto questo, per certi versi, avrebbe mai potuto eguagliare il fascino silenzioso dell’edificio abbandonato nel Man Sagar.
L’origine esatta del Jal Mahal, in effetti, resta tutt’ora un mistero irrisolto. Si ritiene che sia stato costruito agli albori della dinastia, per far fronte alla tradizione per cui la corte della vicina Amer doveva viaggiare in estate, recandosi presso diversi luoghi e residenze dal notevole splendore e gli scopi più diversi, benché spesso legati alla caccia. Qui sostano, infatti, numerose specie di uccelli migratori, probabile fonte di piume e di carni straordinariamente pregiate. Mentre ciò che sappiamo per certo, invece, è la ragione dell’esistenza del lago stesso, in realtà un serbatoio artificiale creato secondo dei piani tutt’altro che insoliti in quest’area geografica, le cui carenti piogge non furono mai sufficienti a far fronte al fabbisogno agricolo della popolazione. Fu dunque determinato a seguito di una grave carestia, avvenuta nel 1596, che una diga sul fiume Darbhawati fosse la perfetta soluzione al problema, in quanto ne avrebbe deviato le acque in prossimità di una depressione nel terreno già naturalmente non permeabile, garantendo una riserva a cui attingere per tutto il corso della stagione più secca. Il fatto che lì fosse presente il pregiato palazzo dei trascorsi Maharaja di Amer, alquanto comprensibilmente, non fu considerato un problema del tutto insormontabile…

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Il parco alpino che diventa un lago per due mesi l’anno

Green Lake Austria

Giornata lenta al club delle immersioni, senza tuffi organizzati per l’intero resto della settimana. Non è facile, talvolta, mettersi d’accordo. L’orologio a forma di pesce spada batte il singolo rintocco delle ore 13:00, mentre un gruppo di hobbisti di ritorno da un’ottima frittura mista trova posto attorno al tavolo colore del corallo, per discutere ordinatamente delle rispettive idee. O almeno, questo era il piano: “Non sto esagerando, vi dico. Cioè l’ho visto in sogno, ma è la verità.” Il responsabile tesoreria e bombole, intento a rigirarsi tra le mani una conchiglia a pettine, non può esimersi da emettere un’udibile sospiro. Gli altri cessano all’istante di parlare, qualcuno sorridendo, altri con l’espressione indecifrabile di chi sta pensando: ecco, presto ne vedremo delle belle. Sentendo di trovarsi finalmente al centro dell’attenzione, come atteso da diverse ore, Franz riprese la sua storia: “Devo ammetterlo: la situazione di partenza non mi è chiara. Nell’esperienza della scorsa notte, io apro gli occhi e mi ritrovo in una valle di montagna. Con ripidi declivi da ogni lato, ma abbastanza distanti da essere visibili soltanto grazie all’aria tersa e limpida di questo luogo. La neve sopra i picchi lancia strali di riflesso per la luce del Sole. Gli alberi mi fanno ombra da ogni lato. Ma fra il mezzo dei loro tronchi, individuo la chiara presenza di un grande specchio. Con una tinta tendente a quella dell’aurora boreale. Della misura di… Diciamo all’incirca un centinaio di metri quadri.” Pausa ad effetto. Un refolo di vento, entrato nella stanza per il tramite della finestra rimasta aperta, agita delicatamente la tenda con la Grande Onda di Hokusai. Il ticchettio dell’orologio pare farsi lievemente, impossibilmente più veloce. “Allora io dimentico ogni sorta di prudenza, corro avanti saltellando sopra le radici, giungo in mezzo alla radura e poi mi lancio a capofitto contro il vetro verdeazzurro, senza una chiara idea del risultato. Ed invece di schiantarmi, all’improvviso, sono entrato in un diverso mondo. Ero sott’acqua, vi dico! Ma anche sospeso in mezzo al cielo di un ambiente estremamente riconoscibile, con piante di terra, fiori alpini ed un paio di siepi stanche, perché cresciute in modo discontinuo. Dinnanzi a me, oltre un ettolitro di acqua trasparente come una bottiglia, s’intravede la forma geometrica di qualche cosa di misterioso. A questo punto, non riemergo. Dovete sapere che nei miei sogni, io sono sempre in grado di restare senza ossigeno per il tempo di 10 minuti.” Risatina sommessa dall’altro lato del tavolo, prodotta non si sa da chi. “Così allargo le mie braccia, ed inizio a nuotare. Altrettanto facile sarebbe dire che stavo volando: a tal punto mi era chiara la presenza di un riconoscibile praticello alpino sotto di me, completo di ogni optional tranne la capra che bruca lietamente verso sera. Vado verso l’ombra misteriosa, finché all’improvviso, essa non si palesa per ciò che realmente è: una PANCHINA in legno, di quelle normalmente montate lungo i percorsi escursionistici delle località per turisti. Momentaneamente esausto, devo sedermici finché non mi addormento. E quando riapro gli occhi, sono nel mio letto e…” Proprio mentre sta per concludere il suo racconto, Franz nota che il solo ed unico responsabile del club, nonostante lo scetticismo iniziale, ora lo sta scrutando attentamente, come aspettando l’occasione di prendere parola in prima persona. Il narratore d’occasione si ferma e gli fa un gesto d’incoraggiamento, subito accolto dall’interessato: “Amico mio. Devo dirti che hai perfettamente ragione. Tutte le ragioni del mondo e scusami per averne dubitato: un tale luogo esiste per davvero. A dirti la verità, ci sono stato la scorsa primavera! Tu stavi sognando, per uno scherzo inspiegabile del tuo subconscio, niente meno che il più famoso lago della regione austriaca della Styria, o come viene amorevolmente definito dagli abitanti del vicino comune di Tragöß, il Grüner See.” Quindi, sconsolato, egli scuote la testa: “Però devo dirtelo, mi dispiace. Arrivi troppo tardi, ormai…”

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Google potenzia le pecore delle Isole Faroe

Faroe Sheep

C’è stato un tempo, cronologicamente non molto lontano, in cui far percorrere le proprie strade dalle auto-telecamere di una multinazionale sarebbe sembrato un qualche cosa d’indesiderabile, persino svantaggioso. Quando le persone ancora non pensavano “Venite, tanto non ho nulla da nascondere.” Oppure:  “Niente di ciò che faccio è inappropriato. Sono un perfetto ingranaggio del sistema del consumo.” Ma cose lievemente irregolari, tipo: “Mia moglie è fuori casa, posso trattenermi qualche ora di più al bar… Mmmh, sarà meglio fermarmi a comprare del tabacco per la pipa. Chissà se servono la carne di cavallo dietro casa? O di balena?” Era meglio? Era peggio? Era (gosh!) praticamente uguale?! Non scherziamo, gente. Ora che siamo lanciati a un folle ritmo verso la superficie del pianeta del Futuro, se spegniamo momentaneamente i retrorazzi e ci affacciamo dall’oblò, quello che scorgiamo è solamente la grigia Terra in fiamme e quel che è stato, mentre l’unica speranza è diventata andare avanti, nel profondo di un cielo assurdamente blu. E rosso. E giallo. E verde. Come il variopinto logo che campeggia innanzi al Sole del motore di ricerca più celebrato ed amato al mondo. Secondo i dati espressamente forniti dal motore di ricerca più celebrato ed amato al mondo. Google che prolifera, Google che ogni cosa vede, Google che determina, coi suoi algoritmi misteriosi (decisioni prese con la logica? Per carità!) l’importanza della gente e delle cose. E dei luoghi, verdeggianti come questo: lo splendido paese sito nel bel mezzo dell’Atlantico, tra Scozia, Norvegia e Islanda. Un rifugio assai remoto, dalle rotte e ahimé, anche dal pensiero dei turisti potenziali. Il che è…Un gran peccato…Non c’è che…Dire. Se si dice quanto segue, tuttavia, dev’esserci un perché: la speranza è l’ultima a morire. Mentre gli eroi conoscono le vie segrete del destino, chiedetelo agli esploratori dell’epoca del gran vichingo Harald “Bluetooth” Gormsson. Persone come Durita Dahl Andreassen, ragazza dei nostri tempi, informatica ed attrice che lavora presso l’ente turistico Visit Faroe Islands, la quale aveva ben pensato, verso l’inizio del maggio scorso, di iniziare chiamare a gran voce l’inclusione del suo paese nel servizio di mappe con foto a 360° più famoso in assoluto, un moderno caposaldo del web, impiegando formule del tipo: “Questo paese è splendido, tutti dovrebbero vederlo!” Oppure: “Perché mai dobbiamo sempre essere l’ultimo remo del drakkar?” [disclaimer: la seconda è una parafrasi spirituale]. Per poi passare a vie di fatto veramente… Interessanti, esemplificate dal piazzare telecamere con cellulari, pannelli solari e GPS su alcune delle pecore della sua beneamata isola di Streymoy, e lasciarle andare in giro a fare quanto di dovuto. Perché pensava, e così ci era stato delineato, che iniziando a fare noi qualche fotografia ruotabile da caricare sul portale, certamente prima o poi la G ci noterà. Non per niente Fær Øer significa, in lingua norrena, esattamente questo: isole delle pecore, senpai.
Noi ci avevamo creduto? Chi può dirlo. Molti fra tutti, è probabile, se n’erano dimenticati. Eppure c’era questo senso di fondo, remoto ma insistente, che l’idea fosse partita da un meritevole sentire. E che se c’era ancora un solo grammo di giustizia in questo vasto oceano, prima o poi, i colleghi d’oltreoceano avrebbero risposto all’appassionato richiamo! Cosa che, il 31 agosto esatto del 2016, si è puntualmente verificata sull’onda di quel profondo sentimento d’amicizia, d’entusiasmo e reciproca stima che corrobora il co-marketing di qualsivoglia tipo. A partire dall’atterraggio di un baldo giovane, con il destriero bimotore di un pesante jet di linea (niente meno poteva bastare) che sceso dal portellone ha salutato Durita come Cristoforo Colombo alla scoperta delle Americhe, porgendogli l’offerta di un solenne uovo in plastica, metallo e vetro. L’unica vera e sola, insostituibile, ormai quasi leggendaria, “sfera di cattura” stradale, ovvero l’apparato necessario per mappare, finalmente, le Isole Faroe. Ed a quel punto…

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Quante persone servono per muovere una casa?

Bayanihan

È una situazione tipica dei nostri tempi, eppure al tempo stesso, non così diffusa in paesi che siano diversi dagli Stati Uniti. Una persona lavora per tutta la vita, mette da parte i soldi, incassa la liquidazione e poi… Deve decidere il farsi. Nelle terre della moderna ed incrollabile frontiera, non ci si attacca al luogo di nascita in maniera particolare. Sia pur soltanto, perché è molto raro che sia stato quello dei propri genitori. O dei loro addirittura, prima ancora? Impossibile. Quindi, ci si sposta: verso la Florida, la California. In luoghi tiepidi e ospitali, intranazionali e dotati di ogni massimo comfort. Oppure, se lo spirito d’avventura ancora arde nonostante gli anni, gente avventurosa parte per gli antipodi del mondo. Dove una pensione dello Zio Sam, sia pure di un livello medio, può bastare a far la vita di un aristocratico dei nostri tempi, ospite gradito fino all’ultimo dei propri giorni. Ed ecco una destinazione, fra le tante: l’arcipelago delle Filippine. Luogo di cultura antica, rigorosa religiosità, città caotiche non prive di problemi e campagne… Dove ancora si praticano strani usi e costumi. Tra cui quello, estremamente anacronistico, dell’umana solidarietà.
Così è possibile trovare, su YouTube, alcuni video d’istruzioni su come “ritirarsi nelle Filippine” generalmente accompagnati dalle osservazioni di un anglofono su questa o quella vista sorprendente tra le strade del paese austronesiano dal più alto numero di gruppi etnici distinti, che nonostante le difficoltà reciproche, convivono da tempo immemore nel bel mezzo dell’Anello di Fuoco del Pacifico, tra tifoni, vulcani ed uragani. Prima fra tutte, l’esperienza dimostrata anche nella sequenza di apertura: l’antica tecnica per il trasloco del bayanihan, in cui i vicini si radunano per aiutare una famiglia, che per motivi necessari o meno, ha preso l’ardua decisione di spostarsi altrove. Situazione nella quale, in determinati ambiti sociali e luoghi, è d’uso fare quanto segue: si inseriscono due pali paralleli sotto fra la piattaforma sopraelevata della tipica capanna di bambù e foglie di nipa, quindi se ne mettono altri due, trasversalmente. Poi venti, venticinque persone li afferrano ben saldi, li sollevano ed iniziano tranquillamente a camminare. E sembrano miracolose tartarughe, paiono creature d’altri mondi, questi tetti che senza oscillare se ne vanno per le strade, verso destinazioni tutt’altro che immediatamente chiare. Al termine dell’impresa, secondo l’usanza, i proprietari di casa stringeranno la mano a ciascuno dei loro aiutanti d’occasione. Poi gli offriranno da mangiare, in una cena dall’atmosfera celebrativa ed allegra. Non sono previsti altri metodi di pagamento.
L’impiego di questo particolare termine per riferirsi alla pratica costituisce in realtà un’antonomasia, laddove in lingua tagalog, la bayan costituisce la “comunità intera” mentre la particolare declinazione del termine utilizzata nel presente caso include il concetto di farne parte, esserne elemento imprescindibile e vitale. Nello specifico, la bayanihan è una qualsivoglia iniziativa comunitaria, altruisticamente finalizzata alla risoluzione del problema di un singolo individuo o gruppo familiare. Esistono in realtà molti sinonimi nel mondo, per simili prassi provenienti dai vari paesi: in Indonesia, c’è il Gotong Rotong, in Sudan l’usanza del Naffir. Tra i Quechua e gli Aymara del Sudamerica, lo sforzo collettivo prende il nome di Mink’a. Negli stessi Stati Uniti, benché una trascinante modernità guidata e misurata dal guadagno l’abbia ormai reso molto rara, esiste la parola Bee, riferita ad un lavoro autogestito, spontaneamente messo in atto eppure attentamente organizzato, per risolvere un problema significativo in ambito rurale, quale l’edificazione di un granaio, oppure riparare la chiesa e il municipio dopo il passaggio di un tornado… Oggi, questa parola ha subìto un ulteriore slittamento semantico, trovandosi impiegata in particolari progetti dell’open source informatizzato (alcune distro di Linux) sopratutto se diretti verso un pubblico prevalentemente filippino. Ma l’immagine della casa viaggiante resta così inscindibile, a tal punto collegata a questa particolare visione del mondo, che tutt’ora ricorre nella cultura popolare di questi luoghi e talvolta, in tutti quei casi in cui l’architettura impiegata sia ancora adatta a farlo, viene nuovamente messa in atto. Il che significa che la casetta deve essere del tipo…

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