Dietro il forte più famoso dei mari europei

Saldamente impresso nella memoria dei bambini degli anni ’90, quando ancora la Tv francese veniva trasmessa in chiaro fino alla nostra penisola del Mediterraneo, l’imprendibile fortino ha una forma perfettamente riconoscibile. Tondeggiante, compatto, con innumerevoli feritoie da ciascuna delle quali, un tempo, sarebbero emersi altrettanti cannoni. Ma basta gettare uno sguardo sulle foto satellitari di Google Maps, per scoprire come oltre 20 anni di inquadrature, in effetti, non tendessero mai a mostrare l’intera storia della faccenda. Perché dietro la costruzione a pianta ovale come una sorta di piccolo Circo Massimo, se vista da terra, ovvero sul lato ovest, c’è una struttura vistosamente quadrata, usata dalla produzione per approdare in sicurezza, portare i macchinari e il materiale necessari a realizzare quello che potrebbe essere descritto come il primo dei reality show. Stiamo parlando in parole povere di un jackup, la prima e più semplice delle piattaforme marittime, un tempo impiegata per l’estrazione delle risorse energetiche del mare: nient’altro che uno scafo con quattro zampe estensibili, che possono essere posizionate saldamente sul vicino oppure distante fondale. E quindi regolate, affinché la sovrastruttura del battello possa essere elevata a piacimento in base alle necessità, come quella di raggiungere, per l’appunto, un punto d’approdo concepito per l’impiego di antichi e possenti galeoni. E non è certo questo l’unico segreto ignoto al senso comune, tra i molti associati al possente Fort [de] Boyard…
È una problematica realtà sempre presente nella mente di un buon generale, il fatto che la costruzione di un arsenale rappresenti una risorsa bellica di primaria importanza, ma anche un punto debole per il paese che dovrà sfruttarne le risorse in battaglia. Così ogni deposito bellico della storia di Francia, e soprattutto così quello di Rochefort, il principale punto di riarmo, protezione e rifugio per l’intera flotta dei mari occidentali, dall’epoca del Re Sole fino alla sua chiusura nei tempi moderni, quasi tre secoli dopo nel 1926. Un luogo apparentemente arbitrario sulla costa dell’Atlantico, nella regione della Nuova Aquitania, fra le città di La Rochelle e Royan. Ma che costituiva, fin da principio, la base di un piano che l’avrebbe reso del tutto inaccessibile agli eterni nemici inglesi, a patto che il principale sogno architettonico dell’epoca potesse finalmente realizzarsi, grazie alla collaborazione di due grandi ingegneri, Benjamin Descombes e Sébastien Le Prestre de Vauban. Già rinomato progettista di resistenti fortificazioni marittime, il primo, e la singola più importante figura tecnica alla corte di Francia, il secondo, inventore tra le altre cose del concetto stesso di assedio scientifico, e delle sole fortificazioni “alla moderna” che potessero sperare di resistergli per la maggiore gloria del Re. L’idea dunque prevedeva la costruzione di due forti con batterie di cannoni, sulle isole d’Aix e d’Oléron, dinnanzi al punto d’approdo, se non che, col procedere dei lavori, fu d’un tratto segnalato un fondamentale problema: il tratto di 5 Km tra l’una e l’altra era sufficientemente largo perché un’intera flottiglia britannica, assumendo una formazione in colonna, potesse passare indisturbata e raggiungere l’arsenale di Rochefort. E la fortunata conformazione geografica di questo luogo sarebbe risultata del tutto inutile, agli occhi di ogni parte coinvolta, se non fosse stato per la trovata ingegnosa dello stesso Descombes: sfruttare una secca presente nel fondale tra le due terre emerse, nota ai naviganti col nome di loin Boyard, per costruire le fondamenta del singolo forte più incredibile che il mondo avesse mai visto. Un castello essenziale, come la torretta di un gigantesco sommergibile, che gettasse la sua ombra sul mare. Se non che il grande Vauban, a questo punto, espresse la sua opinione, facilmente riassumibile con la citazione diretta: “Sire, sarebbe più facile afferrare la Luna coi denti che costruire in un tale luogo…” Troppo friabile risultava essere, a suo parere, il terreno sottostante, e un’impresa al inumana trasportare i materiali fino alla loro ultima destinazione. Era semplicemente impossibile che nell’attuale ordine delle cose, costruito sulla suprema ragionevolezza e la fiducia del re nei confronti dei suoi nobili consiglieri, si potesse approdare all’effettiva messa in opera di un simile, illogica meraviglia. Il progetto, nonostante le premesse, venne dunque dolorosamente abbandonato.

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Il grande vortice alle porte del Mare di Norvegia

Anno Domini 700. O forse era 712? Potrei quasi giurare che fosse stato, addirittura, il 722. Per quattro giorni e cinque notti, i vichinghi delle isole Lofoten avevano navigato lungo la costa frastagliata a settentrione di Scandinavia, con la vela sferzata dai forti venti primaverili provenienti dalla regione dei ghiacci eterni. Un occasione imperdibile, e per di più stagionale, in cui raggiungere le terre tenere dei ricchi uomini protetti dal destino. Armati con spada e lancia, lo scudo tondo dal forte brocchiere, un paio d’elmi cornuti fra l’equipaggio (tanto per non tralasciare gli stereotipi) di cui uno situato a prua della rapida drakkar, la nave forte ed invincibile che avrebbe conquistato le più astruse correnti, allo scopo di rendere celebre e temuto il nome di Ansgar figlio di Bard, capo di guerra della sua comunità. Un fiordo dopo l’altro, con le stelle a guidarli, avevano varcato le onde più alte e feroci, scivolandoci sopra come lo spettro di un draugr, il non-morto ritornato dalla tomba, allo scopo di vendicare i torti subiti tra gli uomini del mondo. Ben sapendo che entro la prossima luna nuova, lui, assieme ai suoi fidati guerrieri, avrebbero riportato la giustizia negli equilibri di ricchezza di Midgard, la terra fra il cielo ed il regno dei giganti. Quando finalmente, sotto il cielo ombroso, si palesò la visione sperata “Ascoltate, miei coraggiosi guerrieri! C’è una barca da pesca a ponente, semi-nascosta dietro quel promontorio roccioso. Preparate le asce. Snorri, smetti di suonare il tamburo.” I rematori s’immobilizzarono come trasfigurati per un singolo secondo, prima di tirare fuori le armi nascoste sotto le loro panche in legno e pelli di pecore grigie, rese lucide dal lungo utilizzo sui sentieri del Mare. “Quest’oggi, assaggiamo il sangue della vendetta! Possa il martello di Thor guidare la nostra rivolta contro le crudeltà del Fato!” Spinta innanzi unicamente dalla vela, la drakkar continuò imperterrita lungo il suo percorso, mentre le figure indigene iniziavano ad assumere una forma più chiara, con testa, braccia e lunghi mantelli di pelo, allo scopo di proteggersi dal freddo. Almeno la metà dell’equipaggio, ancora inconsapevole della loro triste condizione, pareva intenta a tirare a bordo una rete dalle maglie piuttosto larghe. Al suo interno, il più incredibile tesoro alimentare che Ansgar avesse mai visto: merluzzi, pesci lupo dal dorso allungato, la forma larga e piatta dell’halibut atlantico, ripetuta per 20, 30 volte. Con un sorriso sghembo, il capo si rivolse al suo secondo: “Lo vedi, Snorri, le leggende erano vere. Ah, ah, ah! Cibo infinito, ricchezze infinite! Una via d’accesso alla fine del ponte stesso che conduce al Valhalla…”
Quindi, all’improvviso, la magia si spezzò: ora i pescatori gridavano, mentre ciascuno di loro correva al posto di navigazione. Adesso i vichinghi preposti impugnavano le aste dei loro arpioni, allo scopo di bloccare la preda. Prima che potessero scagliarli, tuttavia, la lunga e sottile barca da pesca parve agitarsi come il dorso di una balena, poi prese a correre all’interno del fiordo, dove due terre emerse, un’isola e una penisola, formavano una sorta di stretto passaggio verso l’entroterra. “Per il Padre degli Dei, che bisogno avevano, soltanto per prendere pesci, di una barca così dannatamente veloce! Svelti, tornate ai remi!” Per qualche decina di minuti, si trattò di un inseguimento decisamente atipico: gli uomini di Ansgar continuavano a guadagnare terreno, mentre gli indigeni continuavano a seguire una traiettoria bizzarra e curvilinea, oscillando da un lato all’altro dello spazio disposizione verso lo stretto passaggio inondato. Quindi, lentamente, apparve chiara l’orribile verità. In questo luogo, in quel momento, una feroce corrente scorreva, senza nessuna ragione apparente, verso la direzione del mare aperto. E nessuna drakkar, per quanto veloce, avrebbe potuto affrontarla direttamente. Ma c’era dell’altro: nascosti tra i flutti, una serie di gorghi terrificanti, simili ai buchi scavati dai vermi nella carne di un uomo recentemente passato all’aldilà, che per un motivo o per l’altro, non fosse stato possibile ardere sulla pira del villaggio. “Snorri, vai tu al timone. Non mi fido di nessuno di questi…” Il capo socchiuse gli occhi, mentre la preda pareva svanire tra la foschia. Una raffica di spruzzi raggiunse la prua della nave, accecandolo momentaneamente. Quando la vista tornò a funzionare, tutto quello che vide gli tolse il fiato. Un cupo valico verticale, con pareti irte e scoscese. Percorso su tutti i lati dalle forze del mare stesso, che vi disegnavano volute arabesche e l’accenno di rune prive di alcun significato. La luce del Sole, filtrando da attraverso la vela della drakkar, creava infiniti baluginii contrastanti, chiara metafora per le ultime volontà degli Dei. “È…Magnifico!” Esclamò, con un tono mai sentito prima, il nostro Snorri, mentre strappava la benda dell’occhio sinistro, rivelando la cavità vuota rimasta dall’ultima scorribanda. Senza voltarsi indietro, quindi, egli gettò l’elmo, e si tuffò nel moskenesstraumen, la leggendaria corrente del giorno finale. La maggior parte degli uomini lo seguirono. Chiaramente, preferivano sfidare la morte in solitaria, affidando ad Odino le ragioni del proprio futuro. Ma questo, Ansgar non avrebbe mai potuto accettarlo. Le braccia conserte, il mantello slacciato che volava nel vortice, si preparò all’esito finale di un tale crudele momento: c’erano soltanto due possibilità. Tutto poteva finire sugli scogli sommersi. Oppure riemergere dall’altro lato, gli occhi infuocati dal profondo desiderio di vendicarsi. Sussurrando un’incantesimo, strinse il ciondolo sottratto all’interno di un villaggio del meridione, che sembrava rappresentare il martello sacro del Primo Guerriero, benché avesse una strana estrusione sopra la parte usata per colpire il nemico. Come una testa di lancia. Qualcuno, tra i suoi uomini, usava chiamarla la Vera Croce. Nonostante tutto, oggi si sentiva…Fortunato.

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Il fango e l’arte della guerra dei delfini

Dobbiamo soltanto ringraziare il cinema se ad oggi, la stragrande maggioranza conosce tutti i meriti e i pericoli di un Tokyo Drift. La brusca accelerata, su automobili dotate di una coppia significativa e se possibile, con luci azzurre sotto il corpo del veicolo, seguita dalla rotazione del volante fino in fondo da una parte, con conseguente trasformazione chimica degli pneumatici in maleodorante fumo nero. In altri tempi, l’avremmo definita più che altro una “sgommata”. Naturalmente, tale prassi è largamente differente da un Kentucky Drift, per cui si richiede l’impiego di un pick-up con la bandiera dei ribelli sopra il cofano, o un California Drift, praticato mediante l’ausilio aerodinamico di un surf legato sopra il portapacchi. Ma non si può avere tutto, nella vita. E così l’insufficiente generazione annuale di costanti seguiti del grande classico dei buddy movies, Flipper il delfino, ha invece limitato la progressiva diffusione, e conseguente evoluzione, di quell’arte semplice e sublime cui potremmo attribuire l’appellativo per antonomasia di Florida Drift. Per la quale è sempre molto consigliata, come in ciascuno degli altri casi citati, d’impiegare un mezzo con trazione posteriore, e in modo particolare quella garantita da una pinna orizzontale. Ovvero quella tipica dei più simpatici mammiferi marini. Simpatici, non perché trascorrono la notte e il dì ad appisolarsi, come grossi gatti o cani sonnolenti, in attesa del momento in cui riceveranno i loro croccantini.  Bensì simpatici come lo squalo, il barracuda, gioviali quanto il puma di montagna… Veri e propri predatori, i sottili denti aguzzi e il perpetuo, apparente sorriso, che fa da biglietto da visita ad un vero e proprio terrore dei sette+1 mari. Volete sapere, in effetti, il nesso ultimo della questione? Questi super-pesci noi li amiamo, sopratutto, perché sono esattamente come noi. Spietati. E intelligenti. Ma soprattutto, spietati.
Il più annoso fraintendimento che la comunità dei bagnanti perpetua in merito alla questione del Florida Drift è che si tratti di una forma d’intrattenimento usata per il popolo del mare. Del tipo: “Oh, guarda che carino! Il pinnuto sta evocando il senso della gioia della vita, inscenando uno spettacolo tra i flutti e vuole da mangiare, vuole che io mi sporga dalla barca, per tirargli da mangiare…” Mentre se c’è una cosa di cui i delfini non avrebbero giammai bisogno, è il cibo degli umani. Poiché ogni loro singolo neurone, ogni voluta di quell’incredibile cervello ancor più grande del nostro, la natura l’ha creato con un solo ed unico scopo: trovare l’obiettivo, farlo proprio, diventare grossi e forti. Dominare il mondo.  E la sgommata, per loro, è un’arma. Tutto inizia, dunque, con la vista trasversale di un’ammasso di sabbia, che si solleva inspiegabilmente nella grande e bassa baia sita a sud della penisola più lunga degli Stati Uniti. Una persona dotata di vista particolarmente acuta, come l’elfo Legolas, potrebbe triangolar se stesso geograficamente con la sagoma dell’arcipelago antistante di 1.700 micro-isole, unite al continente col viadotto del Seven Miles Bridge. Sono queste le Florida Keys, e sia chiaro che un tale spettacolo, potrai vederlo solamente qui. Nessun altro delfino, orca o balena, in tutto il mondo conosciuto, ha mai praticato questa straordinaria strategia di sopravvivenza, che dal punto di vista della guida, è anche una notevole prova di controllo del veicolo su fondo sabbioso e umido, volendo approfondire la metafora fin qui impiegata. Perché lo sbuffo di sabbia, ormai sarà palese, non è frutto di un piccolo vortice o di un gorgo, bensì dell’atto intenzionale di uno di “loro” per lo scopo attentamente calibrato di arrecar…Disturbo.
Immaginate, dunque, di essere un Ballyhoo (Hemiram-phus brasiliensis) pesce con il becco della baia, o in alternativa un piccolo Haemulidae, o ancora un pesce rospo (Batrachoididae) che gracchiando muto nella sua piccola mente, trascorreva amabilmente la giornata. Quando all’improvviso, contro il sole Sotto l’acqua bassa arriva per stagliarsi la più odiata sagoma del mondo, lo squittente predatore della fine. Uno solo, nessun branco. Ovvio, questo è il punto chiave dell’inganno. Quindi per ragioni a voi del tutto ignote, tutto attorno si solleva un polverone impressionante, che offusca gli occhi, penetra le branchie, rende impossibile capire cosa stia nei fatti succedendo. Cosa fareste? Non salireste fino in superficie? Non tentereste di saltare oltre la barriera vorticante? Non finireste dritti, inconsapevolmente, nelle fauci dei suoi 6 o 7 compari, che tenendosi in disparte, sapevano quand’era l’attimo d’intervenire sulla scena…GNAM.

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La ragnatela di vetro che regge il mondo

Tutto inizia, volendo usare un punto di vista selettivo, dalla nostra penisola a forma di stivale. L’Italia, come paese, non ha un grandissimo numero di linee colorate. La ragione è da ricercarsi nella sua posizione geografica, che nella parte settentrionale la collega al grosso hub tecnologico dell’entroterra europeo. Eppure, anche noi ci difendiamo: ce n’è uno che unisce la penisola alla Sardegna. Ed un paio in Costa Azzurra, diretti verso il principato di Monaco e la Spagna. La Corsica, dal canto suo, giustamente risulta collegata soltanto alla Francia. La Puglia ne ha due, con ramificazioni verso l’Albania, la Croazia e la Grecia. Ma è soprattutto in Sicilia che le cose iniziano a farsi realmente serie: come un avamposto nel mezzo del Mediterraneo, l’isola triangolare è un punto d’approdo per l’AAE-1, 25.000 Km di autostrada sommersa, in fibre ottiche, rame ed acciaio, che giungono fino in India passando per il Mar Rosso, e da lì in Malesia, per incontrare altri cavi. Ce n’è soltanto una manciata, in tutto il mondo, in grado di rivaleggiare una tale imponenza. Vedi il più lungo in assoluto, di nome SEA-ME-WE 3, che partendo dalla Germania gira attorno alla nostra massa continentale, per poi raggiungere la Turchia, il Medio Oriente, le Filippine, il Giappone e l’Australia. O le letterali dozzine che s’irradiano dall’America, affrontando la sfida tradizionale dell’Atlantico o quella più recente, e complessa, del Pacifico verso le Hawaii e l’Asia. Prima che fossero costruiti, il mondo era soltanto un insieme di luoghi sconnessi che tentavano di comunicare attraverso il trasporto di pezzi di carta. Da quando ci sono, possiamo spingere un tasto e far ballare un gatto dall’altro lato del globo. In questa mappa prodotta per la testata del Business Insider, la grafica computerizzata e la musica da ascensore ci permettono di farci un’idea della disposizione complessiva di uno dei principali patrimoni della modernità, i nostri cavi per le telecomunicazioni appoggiati ai fondali marini (se dovete preferirla, ecco una versione interattiva ospitata presso il portale Telegeography). Letterali miliardi di dollari d’investimento e le lunghe ore di lavoro ed impegno, da parte degli uomini e donne di un industria che paga bene, ma risulta intrinsecamente e drammaticamente ignorata dalla collettività. Che pure, ne beneficia!
È un paradosso storico piuttosto pressante, quello che si propone di comparare gli avanzamenti tecnologici degli ultimi 100 anni, a quelli dell’ultima generazione o giù di lì. Perché se a medio termine troviamo la costruzione di jet supersonici, l’esplorazione dello spazio, la penicillina, i vaccini… Cosa abbiamo concluso, come categoria d’esseri sapienti, dall’invenzione di Internet? Praticamente null’altro, che potenziare Internet. Il che, del resto, non è un’impresa semplice come potremmo pensare. Perché ciò che occupa lo spazio virtuale risulta essere, per la nostra concezione immanente, un qualcosa di volatile, quasi immaginario. Mentre la realtà è che portare a destinazione i dati oltre una massa d’acqua, come attività, non è certo una delle più semplici a questo mondo. Né economiche: stiamo parlando di un investimento medio che può andare dai 100 ai 500 milioni di dollari per singolo progetto. L’importanza di un giusto approccio fu dimostrata inizialmente da Samuel Morse, col suo esperimento per far passare un cavo telegrafico attraverso la laguna di New York, operazione che ebbe successo unicamente grazie alla ricopertura di quest’ultimo con canapa incatramata e gomma naturale nel 1839. Ma la vera svolta sarebbe arrivata nel 1845, con l’impiego da parte di Michael Faraday e Charles Wheatstone di un nuovo materiale riportato in Inghilterra dall’India, la resina appiccicosa dell’albero di gutta-percha (Palaquium gutta) un isolante naturale che si dimostrò in grado di proteggere il potenziale elettrico del cavo all’interno attraverso miglia e miglia del fiume Reno, in Germania. Nel 1851, grazie all’opera del battello di nome Blazer della compagnia Submarine Telegraph, furono quindi proprio gli Inglesi a poter godere della risorsa di una linea di collegamento attraverso un braccio di mare ampio come la Manica, per meglio comunicare con la Francia e i Paesi Bassi. Come attività del resto, la posatura di linee di collegamento subacquee non fu mai particolare appannaggio degli Stati Uniti, semplicemente perché con il progressivo modificarsi del contesto socio-economico mondiale, e il successivo aumento dei commerci trans-oceanici, sarebbero stati piuttosto gli altri paesi del mondo, ad avere interesse a raggiungerli coi proprio cavi. Un mercantile che può comunicare con la madre patria, avrà informazioni chiare su cosa comprare ed a quale prezzo. Un ambasciatore sa cosa chiedere ed offrire. Una spia, può inviare il suo codice senza dare eccessivamente nell’occhio. I quali aspetti, a lungo andare, giustificavano ampiamente l’investimento…

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