Dal motto di un Impero alla definizione scientifica d’un gruppo d’imenotteri, invictus è quel termine latino che assicura, nella sussistenza di qualsiasi fattore contestuale, che una cosa o un gruppo non possono essere sconfitti, neppure dal passaggio di quel vento entropico che siamo soliti chiamare “passaggio del tempo”. Così l’essenza del Senato e Popolo Romano, anche dopo la sua divisione ed il collasso che ne avrebbe avuto origine, non fu mai davvero superato, resistendo ai secoli come concetto sovranazionale, reso tangibile dalla monumentale quantità di resti materiali, eredità linguistiche, ancestrali discipline. Eppure non dovremmo tralasciare come, tra coloro che crearono tale aggettivo e il popolo d’insetti che lo ha ereditato, furono i secondi a oltrepassare indenni le generazioni. Comparendo ancora oggi presso il novero degli atlanti dell’ecologia vigente, più potenti e prolifiche che mai. La RIFA: Red Imported Fire Ant o Solenopsis invicta può dunque presentarsi come una delle specie del regno animale di maggior successo al mondo. Se tale traguardo è veramente degno di esser misurato dalla quantità di luoghi dominati dalla sua incrollabile ed irriducibile presenza. Resistente, adattabile, indefessa. Capace di raggiungere gli estremi recessi dei continenti trasportata dagli uomini del tutto inconsapevoli, dal vento, persino dalle correnti. Grazie alla sua capacità di unirsi collettivamente nella formazione di zattere del tutto inaffondabili, destinate a resistere per giorni se non settimane intere. Come la grande arca del profetico Noé, che tanti millenni fa giunse presso le pendici del monte al-Ǧūdī, ad est del Tigri. Mentre queste distanti e zampettanti eredi, guidate dall’istinto ed il bisogno di acquisire nuovi territori, avrebbero un giorno percepito di aver messo piede nella terra promessa di un diverso tipo di appartenenza. E da quel giorno avremmo avuto anche noi, le formiche di fuoco.
Lo studio pubblicato pochi giorni fa sulla rivista Current Biology, uno sforzo cooperativo dell’Istituto di Biologia Evoluzionistica di Barcellona e le Università di Parma e di Catania, è di quelli che tendono a venire interpretati dalla stampa e gli altri media con terminologia allarmante. Poiché non sottolinea un’incipiente progressione o lieve trend peggiorativo, bensì uno stato dei fatti che si è già concretizzato ormai da diversi anni, tra l’indifferenza o l’incapacità di farne chiara l’evidenza prima di questo illuminato momento. 88 nidi dalle dimensioni significative contati nel corso dell’inverno tra il 2022 e il 2023 sono effettivamente troppi, di gran lunga, perché sia possibile tornare indietro. Il che ci lascia due possibili sentieri a partire dal momento attuale: una dura e intransigente repressione, con pesticidi spesso in grado di arrecare danni significativi all’ambiente. Oppure venire a patti con l’ulteriore, problematica realtà dei giorni a venire…
predatori
L’acuto pesce che scansiona con la pelle i colori dei fondali marini
La biomimetica è quel campo della scienza, e della tecnologia applicata, in cui l’ingegno umano sceglie di appoggiarsi ai più avanzati traguardi già raggiunti dalla natura, traferendoli all’interno di ambiti dove possano facilitare la nostra vita. Ma non sempre ciò tende a verificarsi come conseguenza di un intento preciso, risultando altrettanto facilmente come l’effettiva conseguenza dell’approccio collettivo usato per relazionarsi ai fattori ambientali. Che ci porta a riprodurre, l’una dopo l’altra, le cose che troviamo in qualsivoglia modo interessanti, verso la creazione di apparati come la fotografia a colori, la televisione al LED e l’auditorium maxi-sferico della città di Las Vegas. Pixel: questa è la parola chiave. Unità minima del mondo delle immagini, atomo visibile che definisce gli schemi e la logica dell’artificiale visualizzazione di soggetti, schemi o annotazioni. Così come la cellula risulta esserlo, in un certo senso, per gli organismi e le forme di vita bilateralmente simmetriche attorno alla linea di suddivisione di una notocorda. Osservazione utile ad anticipare la maniera in cui le due suddette cose, almeno in un caso in natura, tendono a convergere in un singolo elemento, il cui nome e cromatoforo o “portatore di colori”. Di cui questo pesce è niente meno che un maestro, essendone completamente ricoperto come si trattasse del mantello magico che può dare accesso all’invisibilità. Ave, Lachnolaimus maximus altrimenti detto hogfish (pesce-maiale, per le sue zanne sporgenti soprattutto a partire dalla mandibola inferiore) rappresentante monotipico di un genere dei Labridae, cercatori di molluschi ed altre prede deambulanti tra il disordine vivace della barriera corallina, che consumano grazie all’uso di una bocca instancabile e dotata di notevole prestanza masticatoria. E sono, a loro volta, le vittime elettive di molti pinnuti più grandi, se è vero che risorse assai considerevoli nel loro pregresso evolutivo sono state investite nel produrre una capacità cangiante simile a quella della seppia e di molti polpi del proprio areale di appartenenza. Situato unicamente nell’Atlantico Occidentale, tra il Golfo del Messico, il Canada e l’America Meridionale, dove un team di scienziati appartenenti in massima parte al dipartimento di Biologia Marina dell’Università della North Carolina sembrerebbe aver scoperto la maniera in cui questi prestigiatori riescono a compiere la loro magia visuale. Che ha origine nell’organo più vasto di ogni organismo, ovvero quella sottile membrana protettiva usata per coprire gli organi, i muscoli, i nervi e tutto il resto…
Le ornate vesti e la parrucca rockabilly dell’agguerrito passero himalayano
Quotato illustratore, naturalista e valido membro della Royal Society fin dall’epoca del suo ritorno dal Brasile nel 1820, William John Swainson osservò intento l’esemplare preservato giunto con il resto dei campioni dal suo fornitore con base nell’Estremo Oriente. Ah, l’Asia! Terra di misteri e meraviglie, sebbene i suoi numerosi viaggi non l’avessero ancora condotto verso quei particolari lidi. Ad incontrare in prima persona creature come questa: verde, giallo e nero con la lunga coda di colore blu cielo, l’uccello non più lungo di 20 cm sembrava concentrato nel guardare fisso verso un punto arbitrario dell’orizzonte. Ma così come il sole si apprestava a tramontare, proiettando ombre suggestive tra le strade e vicoli di Londra, il passero sembrava monopolizzare l’attenzione nell’attesa di essere il soggetto del suo lavoro. D’un tratto, egli si rese conto di aver trovato la soluzione a due problemi allo stesso tempo: punto primo, aveva trovato il soggetto per la copertina del suo prossimo volume stampato con tecnica xilografica, in base allo schema cromatico da lui distribuito alle principali tipografie londinesi. Ed inoltre si sarebbe infine meritato la benevolenza del suo vecchio amico George Ramsay, nono conte di Dalhousie, andando incontro alla richiesta, scherzosa eppure enfatica che più volte aveva posto sul suo cammino. “Ti presento, vecchio mio, lo Psarisomus dalhousiae, così denominato a titolo della tua stimata consorte, Christina Broun.” È semplicemente… Magnifico. Ma una singola domanda avrebbe condizionato la sua intera descrizione della nuova specie e tutto ciò che avrebbe scritto nelle estensive didascalie alle illustrazioni dell’ispirata creatura: “In quale modo il passero splendente può essere inserito in un sistema d’insiemi interconnessi, in base all’armonia quinaria che ricorre in ogni sorta di suddivisione tassonomica dell’Esistenza?”
Già, erano tempi più semplici e complicati al tempo stesso. Un trentennio prima della pubblicazione dell’origine delle specie di Charles Darwin, era convinzione stimata di molti scienziati che ogni forma di vita, ma in modo particolare le categorie degli uccelli, fossero definibili secondo una metodologia del tutto arbitraria, eppure matematicamente imprescindibile su base di cinque. Il che non gli impediva, d’altra parte, di apprezzare la straordinaria varietà di forme e colori presentate dalle mani spesso imprevedibili di Dio e la Natura.
Così che il beccolargo codalunga, come sarebbe stato chiamato con piglio estremamente descrittivo nelle successive disquisizioni divulgative a margine del mondo accademico, sarebbe presto diventato un favorito di coloro che volevano affrontare il tema della diversificazione naturale in luoghi e terre remote, pur mediante approcci funzionali che a loro sembravano ricorrenti. Un altro nome di questa sgargiante creatura, non a caso, è per l’appunto beccolargo “pappagallo”, per analogia con la tipica creatura variopinta delle canopie del Pacifico e l’America Meridionale, dove Swainson si era già estensivamente avventurato nel corso della sua articolata carriera, così come in seguito sarebbe emigrato in seguito in Nuova Zelanda, per sfuggire alle insistenti critiche dei detrattori del sistema quinario.
Con quel nome specifico, per tornare al vero protagonista della nostra trattazione, che allude dopo tutto non soltanto all’estetica della creatura, bensì anche alla sua natura largamente onnivora e l’uso versatile che fa delle sue appuntite e forti fauci, nella fagocitazione di frutta ma anche insetti, piccole rane e persino l’occasionale mammifero di passaggio nel suo territorio. Giacché nessuno, nell’osservare questa stravagante primadonna, potrebbe dubitare di una latente insicurezza nei confronti delle doti di cui la natura gli ha fatto dono…
La principessa? In un altro castello. Qui è la mosca che ghermisce l’uccello
Giorno dopo giorno, un poco alla volta, quelle ali si sono impossessate del mio subconscio. Avete mai provato, dal canto vostro, a lavorare con un assassino che vi tiene d’occhio dalla finestra? Cupo angelo dell’oltre-vita situato in posizione di preminenza, ovvero particolarmente in alto, poco prima di piombare sui passanti del grande Vuoto aereo terrestre. All’inizio non ci feci eccessivamente caso. Soltanto un’altra “mosca” irriverente, creata dall’evoluzione per accompagnarti con il suo ronzante concerto. Ma poi le cose cominciarono a morire. Altri ditteri di dimensioni minori, qualche imenottero (api, vespe) e una falena particolarmente sfortunata, ordinatamente messe in fila l’una di seguito all’altra sopra il ciglio del davanzale. Ogni volta non riuscivo a cogliere l’esatto attimo della cattura. Soltanto ciò che aveva modo di svolgersi dopo, con l’orribile creatura intenta a risucchiarne gli organi uno alla volta, attraverso un foro praticato nella testa con le sue mandibole simili a un coltello. Eppure non sapevo come, a conti fatti, il peggio dovesse ancora venire. Quando la collega della contabilità, con il beneplacito della direzione, fece in modo di posizionare sul balcone dell’ufficio un piccolo abbeveratoio per gli uccelli, frequentato nelle ore mattutine da un gruppo di passeri del vicino parco urbano. Ah, nessuno poteva prevedere… Ciò che sarebbe avvenuto qualche giorno dopo. Con l’occhio della mente, lo vidi succedere al rallentatore: il piccolo pennuto che si alza delicatamente in volo. La mosca che lo punta e parte in direzione diagonale cogliendolo in fase d’accelerazione. Entrambi cadono di fronte al vetro, rotolando una, due volte. Il pennuto resta immobile. L’insetto inizia a ricoprirlo laboriosamente con la sua saliva…
Immaginate per un attimo di essere venuti al mondo con l’esplicita e totalizzante programmazione di “uccidere”. Qualsiasi cosa vi passi davanti e possa essere classificata come cibo, facendo uso di una serie di caratteristiche di cui l’evoluzione si è premurata di fornirvi: un corpo formidabile con lunghe zampe prensili e pelose. Occhi estremamente efficaci, nonostante le loro dimensioni relativamente ridotte. Ed un veleno nella vostra bocca composto di neurotossine ed enzimi, capaci di agire sugli artropodi come acido solforico ai danni delle vostre prede. Buongiorno Asilidae, quella che internazionalmente prende il nome di robber fly o mosca assassina/rapinatrice. Ladra di ottime speranze e tutto ciò che ne deriva, bandita in grado di acquisire i giorni e trasformarli in energia per il suo viaggio torturante nell’incedere dei giorni privi di pietà residua. Uno di quegli esseri sostanzialmente onnipresenti, in ogni luogo tranne l’Antartico, che tuttavia tendiamo molto spesso ad ignorare. Forse perché troppo terribili, a pensarci…