Una visita virtuale della superportaerei USS Nimitz

USS-Nimitz

Che uso strano e interessante, per quel tipico strumento della conoscenza internettiana: la telecamerina GoPro! Impiegata, in questo caso, senza casco, ma nel corso di una passeggiata dentro a un luogo che tutti conoscono, eppure relativamente pochi, soprattutto fuori dagli Stati Uniti, possono davvero dire di aver mai visitato. Ne esistono esattamente 10 che costituiscono, in effetti, circa un terzo dei battelli esistenti da cui possano decollare ed atterrare degli aerei militari, per lo meno a livello di squadroni e con prestazioni tali da poter compiere missioni complesse. Dei restanti due terzi del totale, uno è occupato dalle unità di assalto anfibio polivalenti della classe Wasp, anch’esse americane. Ma persino la loro massa unitaria di 40.500 tonnellate imperiali non è quasi nulla, al confronto delle oltre 100.000 cadauna di queste vere e proprie città sul mare, che tra le loro caratteristiche più degne di nota, trovano quella dei due reattori nucleari Westinghouse A4W. Un metodo di propulsione che gli permette, senza fatica, di spostarsi per i mari a una velocità operativa di 30 nodi (56 Km/h) con tutto il loro carico di fino a 5.000 persone, 85-90 velivoli tra ala fissa ed elicotteri di vario tipo. Uno di questi giganti, senz’altro tra le imbarcazioni più possenti mai varate (superate in stazza unicamente da certe titaniche superpetroliere) è in grado di operare senza rifornimenti di carburante per un periodo oltre i 20 anni, superati i quali, generalmente, viene effettuata l’operazione definita Refueling and Complex Overhaul, che abbina le opere di manutenzione essenziale all’aggiornamento dei sistemi di bordo, successivamente alla messa a secco del vascello in un apposito bacino di carenaggio. E di acqua, ne è passata sotto i ponti, da quando la protagonista del presente video ha superato un tale fondamentale capitolo della sua vita operativa, conclusosi nell’ormai distante 2001, dopo circa tre anni di un’alacre lavorìo. È stanca ormai, e per certi versi superata. Già nei cantieri della Newport News Shipbuilding, in Virginia, la Huntington Ingalls Industries sta applicando le ultime rifiniture alla prima portaerei esponente della classe Gerald R. Ford, che la sostituirà attorno al 2025, in una data ancora da determinarsi in funzione del budget di marina. È stato stimato che lo smantellamento del vecchio mostro dei mari, infatti, richiederà tra i 750 e i 900 milioni di dollari, principalmente in funzione dei suoi impianti nucleari. Per qualche anno ancora, dunque, sarà ancora possibile percorrere quegli stretti corridoi, fare la conoscenza di una vera piccola città semovente che, per importanza strategica, diplomatica e simbolica, sarà destinata a lasciare un’impronta indelebile nella storia geopolitica internazionale.
Già, perché è qui che siamo. Si tratta di una circostanza alquanto inusuale: ci hanno da lungo tempo abituati, soprattutto per quanto concerne quello che viene dato da osservare come civili ben distanti e soltanto parzialmente informati, a conoscere soltanto il meglio, il non-plus-ultra di ogni cosa. Il ponte scintillante, sotto il sole dei tropici, su cui getta l’ombra la maestosa torre della plancia di comando. Gli aerei disposti in ordine, negli hangar grandi come cattedrali, ciascuno pronto a decollare sull’improvviso presentarsi di una circostanza emergente. La stanza sulla cima di quel mondo a parte, da dove il capitano, con i suoi ufficiali e tecnici di bordo, dirige le operazioni e definisce le arcane geometrie della navigazione. Giammai, nei video propagandistici di vecchio stampo, ci sarebbe stata offerta l’opportunità di visitare il sotto, il dietro, l’organismo funzionale che concede alla creatura di metallo l’esistenza operativa, unicamente per il frutto e l’opera di tanti giovani, o non più tanto giovani, umani globuli e consumatori. Di ossigeno (ce n’era in abbondanza) e cibo (l’hanno caricato prima di partire) e perché no: l’occasionale tempo libero, da trascorrere seduti in certe anguste sale, che non sapendone il contesto, l’uomo della strada avrebbe tranquillamente potuto scambiare per i moduli di una base spaziale. Fino a un tale punto, siamo qui distanti da una vita che si possa realmente definire, convenzionale.
La vita per mare, del resto, è sempre stata così…. Ma dopo le prime scene, appare chiaro. Qui c’è un’atmosfera rilassata, un diffuso vociare, che forse in nessun’altra epoca sarebbe stati considerati possibili, e una grande quantità di civili, privi di uniformi o di evidente disciplina. Tra gli altri passanti, di tanto in tanto, è persino possibile scorgere l’occasionale anziano e/o bambino, generalmente intenti a guardarsi intorno, rispettivamente spaesati o entusiastici per tutto ciò che passa innanzi ai loro occhi. L’occasione, in effetti, è di quelle che non si ripetono poi tanto spesso: si tratta di una Tiger Cruise, la Crociera della Tigre. Un’occasione a cui molti, ritengo, avrebbero piacere di partecipare…

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La questione dell’allungamento delle navi da crociera

Braemar jumboing

Può sembrare incredibile ma è in realtà una chiara legge di natura: così come le cose grandi tendono a rimpicciolirsi, per effetto dell’erosione, del consumo, dell’invecchiamento e l’entropia, tutto quello che è piccolo, da un giorno all’altro, può all’improvviso crescere in maniera impressionante. Specie se stiamo parlando di una risorsa utile, in qualche maniera, al suo creatore uomo. Col cappello. Con la giacca. Con la pipa: un vero lupo di mare. E tali canidi riconoscono l’utilità dei vasti spazi, finché mantengono il contatto con terre selvagge ed incontaminate, lande vaste di pianure o valli trasparenti, soggette a mutamenti fluidi e al moto ciclico delle maree. Così può capitare, ed è successo più spesso di quanto potreste forse tendere a pensare, che una nave non sia più considerata economicamente produttiva. Ma i suoi proprietari, partendo da un’attenta analisi dei presupposti, decidano contestualmente d’esclamare: “Può ancora esserci utile, perché gettarla via?” Prima ipotesi. Oppure addirittura, che un armatore coscienzioso, riconoscendo i limiti dei suoi mezzi finanziari, sotto-dimensioni volutamente il suo primo valido vascello, limitando la spesa per lanciare la sua compagnia. Già tenendo a mente, in un momento successivo, di acquisire i mezzi per “concluderne” la costruzione. Dopo averla già impiegata, quella troppo-corta nave, per anni, ed anni e mesi e settimane. Perché è di questo, fondamentalmente, che stiamo parlando: prendere uno scafo già fatto e finito, separarlo in due distinte parti, poi allontanarle grazie ad appositi meccanismi su ruote in un bacino di carenaggio, l’una dall’altra, creando un grande vuoto. Nel quale verrà subito inserito, con macchinari appositi, una vera e propria fetta trasversale della stessa cosa. Che sarebbe a dire, una sezione del corpo della nave. Quindi, compiuto l’epico passo, si concluderà il puzzle riallacciando la cavetteria ed i tubi, per procedere immediatamente con i saldatori a rendere di nuovo unito, ciò che un lo era da princìpio. Con una singola, importante differenza: da quel fatidico giorno, il vascello potrà portare molti passeggeri in più. Oppure merci, oppure chi lo sa…
Sembrerebbe un’improbabile invenzione di un autore di romanzi, questa ipotesi difficilmente immaginabile dalla comodità di casa propria, se non ci fosse a disposizione su Internet la vasta serie di video di riferimento relativi, tra cui questo recentemente pubblicato dalla MKtimelapse con immagini acquisite nel 2008. Nel quale ci viene mostrato, attraverso la tecnica della ripresa accelerata, un simile processo presso i cantieri di Amburgo della Blohm+Voss, finalizzato ad estendere di 30 metri la Ms Braemar, nave di proprietà della compagnia battente bandiera norvegese Fred. Olsen. Una missione apparentemente impossibile, che richiese invece soltanto due mesi di lavoro, ovvero molto meno del tempo necessario a costruire un vascello totalmente nuovo. Andando, soprattutto, incontro a costi notevolmente inferiori. La pratica, in realtà, pur restando relativamente inusuale, è tutt’altro che avveniristica. Questo metodo per l’allungamento, che in gergo anglofono viene definito talvolta jumboising, risale al 1865, l’anno del varo della SS Agamemnon, la prima nave inglese dotata di motore a vapore ad espansione multipla, in cui l’energia termica, fatta passare attraverso successive camere di combustione, veniva potenziata più volte per ottenere una spinta molto più efficace. Il mercantile, che avrebbe collegato le isole della Gran Bretagna con le distanti terre della Cina, fece un’enorme impressione nel suo settore, al punto che i principali armatori coévi decisero che avrebbero dotato le loro navi già esistenti di un sistema simile di propulsione. Se non che, c’era un problema: questa tipologia di meccanismo si presentava, per sua stessa implicita natura, come considerevolmente più ingombrante delle alternative precedenti. Ponendo gli speranzosi committenti innanzi ad un dilemma: conveniva ridurre i tempi delle traversate, al costo della riduzione della capacità di carico di ciascun singolo vascello potenziato? Si pensò molto a lungo alle possibili soluzioni. Finché a qualcuno, non venne l’idea. Che fu messa in atto su larga scala, per la prima volta, dalla Allan Line, una grande compagnia trasportatrice di posta, merci e persone con la sua sede principale a Glasgow, in Scozia. La quale nel giro di tre anni, a partire dal 1871, fece allungare ben sei delle sue navi più importanti, vedendo un considerevole aumento dei profitti. A quel punto, la via per il futuro apparve estremamente chiara…

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Come maneggiare l’animale più pericoloso al mondo

Cubomeduse

E così… Non hai ascoltato il cartello. Eppure non poteva essere più chiaro, Bagnante dello stato australiano settentrionale del Queensland, che tra novembre ed aprile si è trovato in un’insenatura ad U, tra scogli troppo scivolosi da scalare. Trovando sulla strada dell’uscita, con l’accidentale funzione di sbarrargli la strada…proprio lei. Tempo di confronti, tra le sagome. Possibile che fosse questa, l’oggetto dell’avviso in spiaggia? Un quadrato obliquo giallo sopra un palo, simbolo internazionale di pericolo. Con all’interno del perimetro, una figura umana con la testa fra le onde (si, sei te quello) e le gambe avvolte dalle propaggini ulteriori di una strana bestia, lunga pressoché 30 cm, se si conta solamente il corpo principale. “Che potrà mai farmi, un animale tanto piccolo!” Avrai pensato, oppure: “Non è mica una CA-RA-VEL-LA POR-TO-GHE-SE. Male che vada, basterà prestare la dovuta attenzione. Farò il bagno con gli occhiali da immersione, per vedere più lontano.” Che ottima idea! E probabilmente è stato proprio questo, a salvarti. Quando, tra una bracciata e l’altra, ti è parso di scorgere una testa trasparente sopra i flutti, quasi avessero decapitato il corpo di un fantasma. Un residuo ectoplasmico. Un teschio di cristallo. Il potenziale segno della fine che… Ottimo! No, dico, perfetto. Perché già soltanto il fatto di poterlo descrivere, ti ha posto nel 15% circa delle potenziali vittime più fortunate. È terribilmente difficile, sia chiaro, scorgere tra le acque la figura della Chironex fleckeri, (molto) amichevolmente detta “grande medusa a scatola” o “vespa di mare” perché è semi-trasparente, e tende a dare seguito alla naturale rifrazione della luce. Il fatto stesso di paragonare una di queste bestie all’insetto a strisce più aggressivo e potenzialmente fastidioso dell’ambiente terrigeno, in effetti, è come dire che un candelotto di dinamite è una piccola bomba atomica, o una pistola giocattolo, di quelle che sparano la gommapiuma, equivale a un carro armato della seconda guerra mondiale.
D’un tratto, mentre galleggi nello stretto spazio della tua escursione, con l’ammasso gelatinoso a separarti dalla libertà, ti ritorna in mente come una visione il mini-documentario visto su Internet, appena l’altro giorno E poi dimenticato, chissà poi perché. Che descriveva, molto dettagliatamente, la sensazione di essere colpiti da uno di questi animali. Evocata nel seguente modo: “Immaginate la lama bollente di un coltello riscaldato sul fuoco fino al calor rosso, che vi viene appoggiata sulla pelle. Ora moltiplicate il dolore per 10 volte, e prolungatelo per una ventina di minuti. Quindi fatelo seguire da almeno sei giorni della stessa sensazione, progressivamente meno forte, mentre l’organismo si riprende dallo shock.” Questo, chiaramente, se siete davvero molto fortunati. Perché a seguito di un contatto sufficientemente prolungato ed esteso con questa particolare specie di cubomedusa, può immediatamente sopraggiungere la morte. Non è un modo di dire: la maggior parte delle volte, il malcapitato lascia questo mondo, nel giro di…Un paio di minuti. Il mamba nero, per intenderci, che viene considerato il serpente più letale del pianeta, ti uccide mediamente nel giro di 7-15 ore. Mentre l’avvelenamento prodotto da una simile sostanza oceanica (o per meglio dire, un composto di)  è talmente virulento, in effetti, che non lascia neanche il tempo d’impiegare il siero antiveleno. Che comunque, per fortuna, esiste. Grazie all’opera convinta di persone come il protagonista del nostro video di oggi, il professor Jamie Seymour della James Cook University di Cairns, che tutti gli anni, giorno dopo giorno, sceglie avventurarsi nel marasma di simili atroci mostriciattoli. Solamente per raccogliere, con le proprie stesse mani, dei campioni delle cellule velenifere della medusa, con il fine di comprenderne il terribile funzionamento. Un mestiere complicato, che non può prescindere da qualche puntura occasionale. Ciascuna resa incancellabile, tra l’altro, dalle vistose cicatrici che tendono a rimanere a seguito della puntura subìta. Ma diamine, umida vittima designata dal destino, che a causa delle rocce in avanzato stato d’erosione non può scavalcare, né aggirare la vespa di mare: non tutto è perduto. C’è ancora un metodo rischioso per salvarti…

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I vantaggi tecnologici del molo galleggiante

Surin Jetty

Ho profondamente chiaro nella mia analisi geometrica di quanto ci circonda, che la sfera sia una forma veramente poco empatica e gentile. Perché se la lasci sola per un paio di minuti, quella tende normalmente a rotolare, scappando per i ripidi pendii, eternamente persa al suo benefattore. Una sfera non può essere impilata, con altre sfere, a meno che quest’ultime non siano chiuse da un recinto, o letteralmente cementate al suolo sottostante. E per di più il risultante cumulo, se pure dovesse riuscirvi con qualche metodo complesso di farlo stare assieme, avrà una resistenza strutturale meno che perfetta, e sarà inoltre inadatto al calpestìo, nonché pieno di vuoti in cui far scomparire oggetti utili, come le chiavi di casa, il cellulare, il portafoglio… Della sfera…Non ti puoi fidare. Tutt’altra storia, a conti fatti, rispetto ai sei volti sorridenti dell’amico Cubo. Un’entità capace di costituire il modulo più piccolo di praticamente ogni forma,  guadagnandosi un posto d’onore in qualsivoglia impresa che possa dirsi, senza esitazione, come rientrante nel metodo ingegneristico dei prefabbricati. Nulla si combina meglio con se stesso, in effetti, che un oggetto che ha la stessa altezza, larghezza e profondità, sia pure generalizzando, visto come determinate soluzioni aderenti a un tale stile di pensiero, molto spesso, si affidino a dei parallelepipedi di variabilissima entità. Ma tutti sempre conformi, non difformi, i loro spigoli perfettamente opposti e non proposti, le linee rette e perpendicolari. Datemi una fila di cubi abbastanza lunga, e vi solleverò il mondo – Cit.
Così avvenne all’uomo con la telecamera, il cui nome chiaramente scritto in fondo al video è Adam Hobbs, di trovarsi un giorno in un soggiorno vacanziero presso la costa ovest dell’isola di Phuket, in quella località dall’alto tasso turistico che ha il nome di spiaggia di Surin, qualche chilometro a nord della città di Patong. Per osservare con un vago senso di stupore, sull’immediato e catartico momento, l’esistenza di una strana propaggine mirante al mare aperto, costituita in materiale plastico di due colori, azzurro e celestino chiaro. Un molo? Una piattaforma? Una via marittima per biciclette? Tutte queste cose, e molte altre. O per usare un solo termine, il tipico esempio autoconcludente del sistema brevettato Candock, la più diffusa soluzione per la costruzione di ponti o pontili galleggianti, che dal fresco Canada è giunto a diffondersi, negli ultimi anni, presso i centri abitati e le proprietà private di una buona metà del mondo. Non che sia l’unico approccio conforme a tale descrizione, sia chiaro. Abbondano, anzi, le imitazioni, con diversi gradi di miglioramento del progetto originale. Eppure c’è qualcosa di chiaro e lampante, semplicemente funzionale, nel concetto di una moltitudine di cubi in PVC, collegati tra di loro grazie ad asole e grosse viti da inserirvi, anch’esse realizzate nello stesso materiale. Che risulta solido, abbastanza da camminarci o legarci le barche, ma al tempo stesso straordinariamente flessibile, come stava per scoprire il viaggiatore in quel frangente certamente degno di registrazione.
Se attendi l’arrivo dell’onda grande su di un molo convenzionale, tutto quello che potrai aspettarti è qualche schizzo, magari una pozzanghera tra i piedi, che presto si dissolve come neve al sole. Ma se ti trovi su di un simile apparato, potrai sperimentare l’esperienza di essere letteralmente sollevato, assieme al pavimento, di anche parecchi centimetri, tornando quindi presto al punto di partenza. Una sorta di naturale montagna russa, o l’approssimazione ragionevole di quello che potrebbe essere camminare sull’acqua, ma in un luogo in cui quest’ultima è mobile e irrequieta. Pur costituendo uno strumento architettonico vero e funzionale, è quindi chiaro che il molo galleggiante si presti in modo particolare ad assumere una dimensione affine a quella del divertimento…

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