L’artista delle maschere che fabbrica l’identità animale

Tutti hanno sognato, almeno una volta nella vita, di essere un pappagallo. E con questo intendo diventare in grado d’imitare, con il semplice verso della propria voce, lo stile della vita ed il rapporto con gli altri di qualcun altro, assumere per gioco la sua identità. Molti meno, comparativamente, si sono trovati a loro agio tra le piume dell’antonomasia stessa, di un uccello variopinto che proviene (molto spesso) dalle regioni tropicali del Sud America o dell’Australia. Perché mai, mi chiedo? Fra tutte le creature alate, non ce ne sono molte in grado di vantare la stessa intelligenza, complessità caratteriale, tratti del comportamento che assomiglino davvero da vicino a quelli degli umani! Beh probabilmente, a frenare l’entusiasmo ci ha pensato un mero aspetto problematico di contesto: gli uccelli sono COSÌ diversi….Da noi. Come i mammiferi domestici in cui tanto facilmente ci identifichiamo, primariamente gatti o cani, essi hanno un cervello semplice improntato alla ricerca: di cibo, luoghi sicuri, una compagna con cui tramandare i propri geni. Ma a differenza di essi, non posseggono quel quantum naturale d’empatia, l’imprescindibile considerazione dell’essere parte di un gruppo familiare. Forse perché i propri piccoli fuoriescono da un uovo, la cui connessione ultima è difficile da stabilire. Fatto sta che avere voglia di vedersi con le ali non è tipico, e diventa rappresentativo di un rapporto con la vita assai particolare. Ragione per cui diventa spesso complicato, trovare gli adeguati ausili. E con ciò intendo, quanto serve per modificare i propri connotati, indossando piume al posto dei vestiti ed una testa enorme, nello stile di coloro che intrattengono i bambini presso un Luna Park a tema…Ebbene si. Stiamo parlando dei cultori di quella relativamente diffusa, nonché notevolmente disparata, sottocultura che è il furry fandom: fingere di essere qualcosa d’altro, perché… Non c’è un perché. O forse sarebbe meglio dire che ve n’è una varietà infinita, come del resto avviene sotto l’aspetto psicologico in qualsiasi tipo di hobby o passatempo. Per non parlare degli “stili di vita”, termine con cui tra l’altro, molto spesso viene definito questo mondo a parte dalla collettività universale…
Il fantastico travestimento da macao blu e giallo (Ara ararauna) di cui sopra, dunque, è uno degli ultimi prodotti di Crystumes, l’entità relativamente misteriosa che si è trasformata negli ultimi anni in un punto di riferimento della sua intera comunità. Soprattutto in funzione della sua bravura straordinaria nel creare teste, con peli, scaglie o piume realistiche, fornite di articolazioni per il becco o il muso che permettono di trasformarle in apparente verità. Ma la sua prima e più sincera passione, come potrete facilmente immaginare al termine di questo articolo, restano gli uccelli. La fursona (unione linguistica di fur+personalità) di questa ragazza dai capelli azzurri, che non si vede mai in volto, è stata dichiarata sul sito ufficiale come quella di un gufo bianco, rappresentato attraverso una di quelle tute complete che non lasciano trasparire neanche un briciolo d’identità. Il che non significa, del resto, che durante le convention ella non si mostri ai propri amici e colleghi in tutto il suo splendore di Homo sapiens. Un tale gesto, tuttavia, non è in alcun modo propedeutico al programma di continuo miglioramento: osservate il realismo delle piume del pappagallo, il modo in cui l’attrice sposta di lato la sua testa, batte il becco, emette un delicato verso. Non è troppo difficile immaginare l’utilizzo di questo costume dinnanzi all’uccello vero che all’inizio, da lontano, crederà probabilmente di trovarsi innanzi ad un suo simile. Finché ad un tratto, giunto troppo innanzi per negarlo, la natura ibrida di questo bipede non si presenti in tutta la sua assurda innaturalità. Il che, del resto, permette di comprendere almeno in parte l’ingiustificata reputazione negativa che l’opinione generalista, ma anche una parte significativa di Internet, sembrano custodire in merito alla furry fandom. Questa cognizione secondo cui sentirsi affini agli animali antropomorfi sia, in maniera misteriosamente imprescindibile, un comportamento che denuncia un qualche tipo d’insanità mentale. Anche e sopratutto, diciamo la verità, in funzione di alcune puntate di serie televisive poliziesche alla metà degli anni 2000, in cui questo particolare mondo è stato usato come scena d’efferati crimini, per così dire, controcorrente. E numerosi articoli d’approfondimento che a partire da quei tempi, si sono soffermati unicamente sull’aspetto sessuale che si trova a margine di questa moltitudine, i presunti “festini spinti” in cui uomini e donne in costume avrebbero lasciato prevalere il proprio lato più bestiale, per sperimentare l’esperienza di una sorta di sabba delle streghe trasportato ai tempi e ai metodi della modernità. Quando in effetti, parliamoci francamente: avete mai visto il peso e l’aspetto di una fursuit (tuta da furry) a corpo intero? Allora avrete un’idea per quanto vaga di quanto essa possa dare caldo e restringere i movimenti. Chiunque pensa che un abito simile possa essere stato concepito primariamente per suscitare un qualche tipo di reazione erotica, evidentemente non ha un’idea chiara di come funzioni il metabolismo umano. O animale…

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Quando sarà giunta la mia ora, seppellitemi nel pesce d’oro

Era una vera pasta d’uomo. Ha avuto tre mogli che lo amavano, ha dato i natali a 17 figli. Ha posseduto una grande casa, ha fatto il pastore, il boscaiolo, il pescatore. Ha viaggiato in tutta l’Africa e l’Europa. Raggiunta la terza età, si è trasformato in uomo di cultura, e quando scriveva lettere ai parenti, non mancava mai di ricordare i vecchi tempi. L’altro giorno, mentre la pioggia battente cadeva sopra le acque del lago Bosumtwi, noi ci siamo svegliati. E invece lui, non c’era più. La Morte l’ha raggiunto nel sonno, stringendolo nell’ultimo e più duraturo degli abbracci. Privatamente, qualcuno si è rinchiuso in casa a meditare. Tra gli amici è insorto un forte senso di malinconia. Ma quasi nessuno, ha pianto. Ciò perché la fine della vita non è il termine di tutto, a Teshie nella periferia di Accra, né un momento triste per definizione. Si tratta, piuttosto, di un’occasione per raccogliere le idee, accogliere il pretesto e fare festa. E che male c’è… I vecchi membri del villaggio, giunti nello stesso periodo presso le strade asfaltate della grande città, si sono radunati per la processione funebre, in attesa di…Qualcosa. L’ultima consorte con il figlio, nel frattempo, hanno raggiunto un officina assai particolare. Un luogo ameno, rumoroso, con teste variopinte d’animali che si affollano presso l’ingresso. E le ombre varie, di alti attrezzi, sagome a martello, peperoncini grossi quanto un coccodrillo. “Buongiorno Mastro Kwei, buongiorno. Purtroppo, egli ci ha lasciato. Hai terminato ciò che servirà ad accompagnarlo all’altro mondo?” Falegnami, intagliatori, pittori che si mettono da parte. Ponendosi per indicare con lo sguardo quella cosa splendida e agognata: due specchietti, un parabrezza, un grosso cofano d’argento. È una Mercedes Benz, fatta di legno, come quella che il defunto possedeva da anni, e usava il fine settimana per andare in chiesa. Le linee sono fedeli e raffinate, gli specchietti incorniciano quel volto inanimato come si trattasse di un’attrice. Con un gesto carico di sottintesi, il capo dell’officina solleva sui cardini l’intera parte superiore. Al suo interno, il raso rosso (colore della morte) attende il corpo che custodirà per  ogni giorno a venire, da qui fino all’Eternità.
È un’usanza particolarmente legata al popolo nativo di questi luoghi, le genti che prendono il nome di Ga-Adangme, o semplicemente Ga (popolo). Che pur avendo ricevuto, come tanti altri vicini del continente africano prima di loro, il dono straniero del Cristianesimo, restano legati all’antico culto di Nyogmo-Ga, l’Essere Supremo, e i molti spiriti che fanno il suo volere presso i mari, monti e fiumi della Terra. E assieme a simili credenze, mantengono a un qualche livello la preziosa convinzione che i defunti, nel momento del trapasso, non lascino i viventi, ma piuttosto li accompagnino e li guidino attraverso le peripezie della vita. Un motivo in più, se mai ce ne fosse stato bisogno, di lasciare in loro un ottimo ricordo di se. Il che significa, sostanzialmente, inviarli all’altro mondo col possesso di qualcosa, almeno, un grande oggetto che ricordi quello che erano stati in vita. Qualcosa che accresca il loro prestigio, e che connoti l’imprescindibile post-esistenza nella  terra dei defunti. Soprattutto per questo, i funerali in Ghana sono un momento di raccoglimento, ma anche danze, canti e banchetti. Nel corso dei quali, un momento particolarmente significativo e la rivelazione della bara. Che costituisce, molto spesso, un vero e proprio capolavoro dell’arte naïf. L’origine delle bare personalizzate in senso formale è in realtà piuttosto recente, non andando oltre gli anni ’50 dello scorso secolo, benché nei fatti, esistesse qualcosa di simile nell’antica organizzazione tribale della società. C’era infatti l’abitudine, al momento del decesso di un capo, di porre la sua bara sopra lo stesso mezzo di trasporto che egli aveva usato in vita, e talvolta, seppellirlo con lui. E fu proprio così, secondo la leggenda, che nacque questo particolare mondo artistico di un campo tanto inusuale: quando, oltre 65 anni fa, un membro della comunità di spicco aveva chiesto a Seth Kane Kwei (1922-1992) la creazione di un palanchino con la forma di un seme di cacao, cibo da lui particolarmente amato. Poco tempo dopo, quindi, costui morì. E quello fu l’inizio dell’idea: perché quando svariati anni dopo, purtroppo, anche la moglie di Seth dovette passare all’altro mondo, egli costruì per lei una bara con la forma di un aereo, dando seguito al sogno irrealizzato che la donna aveva avuto di viaggiare in giro per il mondo. “Non l’ha potuto fare in questa vita, quindi gli darò queste ali, affinché possa sperimentare una simile esperienza nella prossima.” Fu una frase ad effetto, che fece una grande impressione sui concittadini. Tanto che in breve tempo, in molti accorsero per potersi assicurare un simile trattamento.

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Donna crea 300 bambole per sostituire i compaesani defunti

Sei persone sulla pensilina, congelate ad aspettare un autobus che purtroppo non arriverà mai. Due pescatori seduti sull’argine del fiume, perfettamente immobili, le gambe più lunghe del normale per un probabile effetto dell’accumulo di forza di gravità. Bambini per la strada, e nella scuola, con i professori che li guardano intenti, a pronuncia una lezione totalmente fuori dall’umano. Decine, centinaia di testoline appena abbozzate, che scrutano dagli angoli gli alterni movimenti della loro Imperatrice. Chi non ricorda, tra i giovani della corrente generazione, l’antologico cartone animato della Principessa Mononoke, creato dal grande maestro Miyazaki per esporre le sue idee benefiche in merito all’ecologia, la responsabilità civile, il senso del dovere verso i parenti, gli antenati… Una creazione che costituiva, tra le altre cose, uno spettacolo visuale senza pari. I mostruosi cinghiali ricoperti di vermi, i guerrieri samurai, il meraviglioso lupo gigante, candido e feroce! E poi loro, tutti in fila per fare atto di presenza: gli spiritelli Kodama (木霊) che vivevano negli alberi, piccoli volti a margine dei lunghi sentieri dentro la foresta. Neanche una parola pronunciata, o un gesto che corroborava i personaggi principali. È un’immagine così straordinariamente giapponese! Questa sensazione che ci sia un qualcosa che ci guarda, sorvegliando tutti i nostri gesti, una pluralità di esseri che sono, in qualche modo, meno che umani. Eppure al tempo stesso, molto di più che umani. Talmente insita in questa cultura, che c’è una donna nella prefettura di Tokushima, presso l’isola largamente rurale dello Shikoku, che ha deciso di farne il suo stile di vita. Scegliendo di vivere in un luogo i cui abitanti, sostanzialmente, possa costruirli tutti lei. Ma per comprenderne la posizione storica, prima, una piccola nota sull’etimologia di questa parola, bambola.
Il primo carattere non è affatto complicato: si tratta di una stampella, uncino più, uncino meno, sistemata in posizione eretta sulla riga del foglio di carta. Rappresenta un qualcosa di… grossomodo verticale, con due basi solide (i piedi) non è dunque chiaro ciò di cui stiamo parlando? Si tratta di hito (人) persona, un carattere degli Han che i giapponesi usano, a seconda del bisogno, nei contesti e coi significati più diversi. È tutta una questione, chiaramente, di quello che c’è dopo: un kanji decisamente più elaborato. Che si compone, a sua volta di altri due (radicali) due tronchi uniti da una trave orizzontale e tre trattini diagonali, che ricordano l’acqua che cade ma in realtà, sono qualcosa di molto diverso. Simboleggiano ago e filo di colui che cuce, la pialla del falegname, l’attrezzo di tutti coloro che creano con le proprie mani per risolvere la situazione. I due caratteri posti di seguito formano katachi (形) la forma. Ma se davanti aggiungi anche quell’altro, otterrai ningyō (人形) la forma dell’umano. Ovvero in altri termini, la persona “creata”, il pupazzo dato in dono ai giovani bambini e a quelli non più tanto giovani, per ciò che simboleggia, i concetti che gli riesce di rappresentare. Il pupazzo antropomorfo è un concetto pregno in tutte le culture del mondo, spesso usato nei rituali religiosi, nelle cerimonie d’importanza sociale ed associato a momenti specifici della vita di ognuno. E questo è più che mai vero laggiù, in Giappone, dove per l’ottica della religione Shinto non esiste un solo oggetto destinato a rimanere eternamente inanimato, nessun dio, apparizione o spirito che possa esistere senza essere legato alla terra, ai nostri gesti, alle nostre cose. Durante il remoto Medioevo del periodo Heian (794 – 1185) abili artigiani creavano riproduzioni dei personaggi del romanzo della dama Murasaki, la romantica, amorosa e complicata vicenda di Genji, lo splendente principe del clan dei Minamoto. Simili oggetti venivano considerati simboli di alto prestigio, e non c’erba abitazione che avrebbe rinunciato all’opportunità di esporle. Mentre ancora oggi, ogni anni a marzo le bambine costruiscono l’altarino tradizionale della Hina Matsuri, con fino a 15 figurine rappresentanti i membri della famiglia imperiale. Mentre i loro fratellini, nel contempo, ricevono il pupazzo di Kintaro, il forzuto bambolotto cresciuto sulle montagne con la strega Yama-uba, spesso raffigurato mentre sconfigge un’enorme carpa in mare. Ma non c’è alcun tipo di conflitto, nel pacifico villaggio di Nagoro…

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La differenza tra un Gundam e una Lamborghini di carta

Uno dei punti principali della seconda serie di una delle saghe fantascientifiche più famose del Giappone, il mai abbastanza celebrato “Zeta” Gundam di Yoshiyuki Tomino, tra gli aspetti maggiormente sorprendenti va citato il fatto che il mecha (ehm pardon, mobile suits) pilotato dal protagonista Kamille Bidan, per tutta la prima metà degli episodi non aveva, davvero, proprio niente di particolare. Intendiamoci: l’RX-178 Gundam Mk-II, per l’epoca dell’entrata in servizio dei suoi tre prototipi immediatamente rubati dall’AEUG, il Fronte di Liberazione Terrestre nell’anno spaziale 0087, aveva alcune doti certamente degne di nota: era in primo luogo particolarmente agile, grazie all’impiego per la prima volta del sistema movable frame, in cui la corazza veniva fissata direttamente allo chassis del mezzo bipede guerriero. E una cabina di comando con cockpit panoramico, in grado di dare al pilota una visibilità migliore della situazione di battaglia. Ma risultava nel contempo privo del rinforzo alla corazza offerto dal titolare gundamium o Luna titanium, il materiale che aveva offerto molte delle seconde opportunità in combattimento all’eroe per caso della prima serie, Amuro Ray. Ed è proprio questa, la sostanziale differenza tra le due vicende narrate: scegliere per questa volta un protagonista meno maturo, intellettualmente instabile, con palesi difetti di carattere e che in generale sembra essere molto meno “una brava persona” ma che nel contempo vince le sue battaglie, ed aiuta l’esercito della parte dei buoni (per intenderci, quelli meno simili ai tedeschi della II guerra mondiale) grazie ad un’abilità di pilotaggio totalmente fuori da qualsiasi parametro precedente. Nelle classifiche periodicamente stilate su chi fosse il miglior pilota di Gundam, Kamille è spesso vincitore, benché venga generalmente raffigurato assieme al suo mecha più famoso, il successivo, e molto più performante Zeta Gundam, destinato a rimanere competitivo per un centinaio buono di episodi, venendo impiegato ancora dal successore Judau Ashta contro l’esercito del redivivo Neo Zeon, la forza reazionaria galattica destinata a risorgere un infinito numero di volte, al servizio di una trama sempre più simile all’idea originale che ci eravamo fatti di essa.
Ma non in quel caso, non nella storia di quei fatidici momenti: Zeta costituisce, a mio parere, un esempio splendido di come possa continuare e rinnovarsi un racconto di fantasia, sovvertendo una quantità di cliché superiori persino a quelli della serie Trono di Spade, e con una realistica spietatezza contro gli eroi del racconto che, aggiungerei, lo accomunano ulteriormente a un racconto fantasy televisivo che ha fatto e continuerà a fare epoca, ancora per molti anni a venire. Proprio per questo, nonostante non si tratti certo di uno dei mobile suit più riconoscibili ed amati, approvo la scelta del grafico ed artista di origini ucraine Taras Lesko alias VisualSpicer, naturalizzato statunitense, che il Gundam Mk II ha deciso di ricostruirlo a un’altezza di oltre 2 metri, utilizzando il più accessibile, eppure imprevisto dei materiali: la carta. Di questo l’autore, che tra le altre cose collabora da tempo con gli autori della famosa serie di videogiochi automobilistici Forza Motorsport dei Turn 10 Studios, aveva già saputo farne un marchio di fabbrica, con un canale di YouTube personale che è un repertorio spropositato di automobiline (e non tanto -ine) ricavate dalla sua reinterpretazione dell’arte tipicamente nipponica del pepakura (papercraft) ovvero la piegatura, ritaglio ed incollatura della candida cellulosa. Un approccio diverso da quello dell’origami, che invece prevede l’impiego di un singolo foglio di carta, limitando così necessariamente la grandezza del risultato ottenibile, soprattutto quando il soggetto raffigurato presenta un notevole tasso di complessità. Mentre con il presente metodo, è sostanzialmente possibile continuare ad aggiungere, ancora ed ancora, fino al raggiungimento di un qualcosa che sia chiaramente enorme, gigantesco, torreggiante, persino una percentuale tangibile dell’originale oggetto ispiratore di una simile idea.

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