La lunga ricerca del più grande nido mai costruito da un uccello terrestre

Vedere per credere, toccare con mano per sperimentare la sensazione. Sedersi dentro per trasformarsi nell’approssimazione antropomorfa di un gigantesco pulcino implume, fatta eccezione per il cappello da ranger e la giacca color verde militare. La vita del ranger è piena di sorprese ed una delle più piacevoli può essere collocata di questi tempi, grazie a una foto che sta ottenendo un significativo successo su Internet, presso lo Hueston Woods State Park di Preble County, Ohio. Dove qualcosa di sovradimensionato sembrerebbe essersi posata a terra, armata di becco, rametti ed il coraggio di usarli, mettendo assieme la più sfolgorante abitazione per volatili. Ben 2,5 metri di diametro per almeno uno e mezzo di profondità, tali da permettere a chiunque ne provi il desiderio di sedersi all’interno, per ponderare la propria condizione assieme al sogno di prendere il volo che un tempo fu, per Leonardo da Vinci, una ricerca programmatica dei propri codici più interessanti. Ciò detto, pubblicare l’immagine in questione sul sito del parco naturale sembrerebbe aver sollevato, a suo tempo nel 2017, non poche critiche accese da parte di chi non si prese la briga di leggere la didascalia; dopotutto, gli americani possono tollerare molte cose. Ma NON sottrarre per studio la nursery a un uccello simbolo della nazione, la Haliaeetus leucocephalus o splendida aquila di mare testabianca, costringendola presumibilmente in una sorta di semplice attrazione per turisti. Mentre un’analisi più approfondita, o la semplice voglia di usare la logica avrebbe aperto gli occhi dei detrattori verso alcune significative incongruenze. Prima tra tutte, la presenza di una rete metallica all’interno del nido, per poter tollerare meglio il peso e l’ingombro di una figura umana. Per non parlare dei giganteschi “rami” fin troppo perfetti, apparentemente usciti dal tipico diorama museale di un’epoca preistorica ormai perduta. Quello che urge sapere per giungere ad un’interpretazione realmente corretta della faccenda, tuttavia, è il modo in cui l’intera costruzione risulti essere assolutamente in scala reale, piuttosto che ampliata per valorizzare i più minimi dettagli. Volendo rappresentare nient’altro che un una dimensione possibilmente media, per l’essere che costituisce il costruttore di nidi arboricoli più alti nell’intero corso della storia evolutiva terrestre.
Non lo pterodattilo (che lasciava i suoi piccoli a schiudersi all’interno di una buca nel terreno) e probabilmente neppure le mega-colonie del passero tessitore, sebbene talvolta l’agglomerato dei loro nidi possa raggiungere le proporzioni accidentali di una vera e propria piccola città pigolante. Laddove parrebbe esserci qualcosa di estremamente speciale nel concetto stesso di un grande uccello il quale, mantenendosi monogamo per tutta la vita, fa ritorno per 20, 30 anni nello stesso luogo, ogni volta ampliando e restaurando il suo sopraelevato grattacielo. Vi sono, tuttavia, casi estremi in cui gli stessi eredi di una coppia hanno continuato ad utilizzare l’abitazione dei propri genitori, come nella celebre osservazione del nido fotografato per la prima volta nel 1805 presso un’isola del fiume Missouri, da J.C. Cowles. E che 55 anni dopo, il capitano ed esploratore William F. Raynolds ritrovò perfettamente invariato, nello stesso identico luogo. Struttura di cui non fu mai misurata l’ampiezza, benché possiamo presumere, nonostante tutto, che avesse mancato di raggiungere anche soltanto il record ufficiale registrato nel libro d’oro dei Guinness contemporanei, tale da far impallidire lo stesso costrutto artificiale dello Hueston Woods State Park.

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La distruttiva fame arboricola del porcospino nordamericano

Nella nebbia di un’alba umida e fredda, il giovane melo sorgeva stolido nel mezzo del giardino pubblico recintato sul confine esterno della città di Albuquerque. Appariva chiaro, tuttavia, la natura per lo più finale di una tale condizione tutt’altro che duratura nel tempo. La corteccia dello snello arbusto se osservato a partire dalla chioma superiore appariva infatti frastagliata a mezz’altezza, prima di cessare in maniera pressoché completa verso i due metri dal suolo. Stretti canali trasversali, in un susseguirsi di linee accuratamente intagliate, ricoprivano il legno rimasto nudo di un color marrone chiaro, ricoperto di uno stretto strato di linfa simile al sangue di una vittima innocente, già contribuendo ad attrarre gli insetti ed i microrganismi che avrebbero sancito l’ora del botanico tramonto. Piccole mezzelune legnose, scure tra le foglie autunnali, costellavano l’area circostante il povero tronco già condannato a un lento processo di disfacimento. “Ca…Castoro? A queste latitudini?” Fece il primo dei due custodi colpito dall’inconcepibile scena di vandalismo. Fu in quel momento, tuttavia, che un un lieve movimento tra le siepi tradì la silenziosa controparte. Una schiena vistosamente irsuta spuntò dondolando tra i radi cespugli del sottobosco. Preceduta da un muso tozzo e baffuto, non del tutto dissimile da quello di una comune cavia domestica nella sua gabbietta situata sul tavolo della cucina. Se non che il roditore in questione, considerati i vasti spazi della natura statunitense, doveva pesare un minimo di 15-20 Kg. La strana bestia emise un sommesso richiamo, simile al suono di un kazoo, per poi voltarsi ed avanzare lentamente di lato. Ben sapendo per l’esperienza che nessuno, proprio NESSUNO si sarebbe sognato di avvicinarsi.
Con una strategia difensiva sostanzialmente simile a quella della puzzola (chi tocca muore, non sto scherzando) uno dei più rappresentativi mammiferi degli inverni nordamericani, dagli Stati Uniti al Canada e nell’intero territorio dell’Alaska è famoso per la sua insolita abitudine di saltare completamente il letargo, potendo fare affidamento su una dieta a base vegetale piuttosto variegata se gli è concesso dal clima (frutta, bacche, radici, germogli, erba particolarmente nutriente) per quanto diviene piuttosto concentrata su un’unica pietanza quando uno spesso strato di neve comincia a ricoprire ogni possibile alternativa. A quella pietanza, in genere giudicata poco saporita, che è l’interfaccia legnosa tra la corteccia e l’interno del tronco, chiamata scientificamente lo strato del “cambio”. Ed è così che il fenomeno si ripete, fin da tempo immemore, di alberi dalla perfetta in salute che si ritrovano improvvisamente scartati come una confezione di patatine per l’intero vasto areale di questa bestia dalle abitudini notturne, senza che nessuno possa essenzialmente fare alcunché per prevenirlo. Benché l’impiego di recinzioni e trappole possa dimostrarsi variabilmente valido a seconda dei casi, non è semplicemente possibile difendere tutti gli alberi di una foresta. Ed è così che le frondose vittime verticali, una dopo l’altra, continuano a cadere sotto l’insistente masticazione dell’Erethizon dorsatum, più comunemente e graziosamente detto in lingua italiana, l’ursone…

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L’alato draghetto che dardeggia tra gli alberi della foresta asiatica meridionale

E quando l’uomo raggiunse l’assoluto predominio della terra, del mare, delle montagne, delle valli, dei fiumi e le pianure, si fermò per qualche generazione; egli ancora non era pronto, semplicemente, a rivolgere il suo sguardo verso il cielo. Così mentre la marcia dell’evoluzione (tecnologica) continuava la sua inarrestabile corsa, palloni aerostatici iniziarono a sollevarsi, quindi ali si spiegarono dai fianchi di scintillanti aerei, liberandosi dall’insistente tirannia del proprio peso gravitazionale ereditato. Perché quanto segue è quello che riesce a renderci, nell’opinione delle moltitudini, in qualche maniera “speciali”: la capacità di realizzare quanto ci sembra possibile, soltanto dal punto di vista teorico, verso l’ottenimento di uno stato o condizione che siano degni di essere considerati Migliori. Ma stiamo davvero parlando, in tali prototipiche circostanze, di una caratteristica dei soli ominidi discesi dalle scimmie dei primordi naturali? Poiché se il succedersi delle generazioni progressive ci ha donato, con notevole vantaggio, di un cervello tanto complesso e sofisticato, ancor più diretto verso il cielo quel processo è risultato per una particolare sottofamiglia delle lucertole agamidi, che includono per fare qualche esempio quella barbuta (pogona) il drago d’acqua cinese (P. cocincinus) e il compatto acantinuro dei deserti africani (Uromastyx a.). E poi ci sono loro, le Draconinae dotate di ali e addirittura una pinna di stabilizzazione collocata in corrispondenza della gola, che possono aprire o chiudere a comando neanche fossero una sorta di aeroplano a geometria variabile. Circa 40 specie differenti, benché alcune molto più comuni di altre e dotate di una serie di elementi e caratteristiche, che potremmo facilmente ritrovare disperse tra le sommità degli alberi dell’India, le Filippine e l’intero Sud-Est Asiatico. O ancor più facilmente, individuarle mentre balzano, come costituisce loro primaria prerogativa, dai rami protesi tra l’uno e l’altro, avendo cura di ricordare al mondo come il pavimento possa veramente essere lava, quando sei un rettile delle lunghezza di 20 cm circa che vive in un ambiente pieno di agguerriti e famelici predatori. Così che, per queste piccole e colorate creature, esistono soltanto due modalità: l’attività frenetica che le prepara al coraggioso balzo nell’infinito, o un assoluto stato d’immobilità mimetica, facendo affidamento sulla propria livrea generalmente specializzata nel ricordare la corteccia di particolari tipologie d’arbusti. Vedi il caso della Draco dussumieri della parte meridionale dell’India, che resta prevalentemente immobile per buona parte della sua giornata, facendo affidamento sul reiterato e prevedibile passaggio di letterali schiere di formiche arboricole, che divora con trasporto risucchiandole dentro la bocca dotata di denti piccoli e aguzzi, concepiti unicamente come ultimo strumento d’autodifesa. Almeno finché il suo cervello di rettile, per una serie di circostanze non sempre apparenti, non segnali che è giunto il momento di raggiungere un differente angolo del proprio territorio, portando allo spettacolare dispiegamento del patagium disteso tra costole specializzate, la membrana di pelle che permette all’animale di staccare tutte e quattro le zampe dal terreno solido, planando via verso destinazioni, anche piuttosto lontane: fino a 10 metri di distanza, in circostanze convenzionali, benché si abbiano notizia di lucertole che si sono dimostrate in grado di percorrere volando uno spazio anche tre volte superiore, grazie alla loro leggerezza inerente e la capacità di generare un elevato grado di portanza. Benché gli etologi sembrino dissentire, sostanzialmente, sul perché una simile situazione abbia avuto il modo e la ragione di verificarsi…

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L’uomo nato sotto il segno di una stella ninja in agguato

Col fermarsi momentaneo del vento, l’aria tacque in mezzo agli alberi della foresta di Boemia. L’uomo con la bandana, cogliendo l’auspicabile momento, impugnò quindi un’intera manciata delle armi necessarie per la sua sessione di addestramento. Piccole, simmetriche, appuntite shuriken. Quindi il cinque volte campione di lancio istintivo dei coltelli e 4 volte iscritto nel libro dei record Adam Celadin, tenendo lo sguardo fisso verso l’obiettivo, iniziò a correre tra i tronchi, poggiando in rapida sequenza le sue scarpe da ginnastica sulla corteccia dell’uno e l’altro fusto, per darsi lo slancio necessario a sollevarsi fino ai rami più bassi della selva in paziente attesa. Ed ogni volta, un lampo di luce, seguìto da un sibilo dell’aria separata per il transito di un affilato oggetto. Destinato a conficcarsi, con un tonfo spietato, nel bersaglio nudo del suo immaginario nemico. Faggio veterano, ricoperto dalle cicatrici dei lunghi anni di addestramento. E con più stelle di un intero albero di Natale. Al sesto lancio, l’atleta si fermò per qualche istante a meditare. E aperti nuovamente gli occhi, raccolse dalla sua riserva l’arma distruttiva usata per concludere il conflitto immaginario: la croce di metallo a quattro punte, dal peso complessivo paragonabile a quello di un’ascia da guerra. Caricando il colpo e misurando attentamente la distanza, iniziò il gesto utile a condurla verso l’obiettivo. E…
Molte disquisizioni variabilmente colte sono state spese in merito all’effettiva esistenza pregressa del ninja (忍者) o shinobi (忍び), il leggendario guerriero furtivo del Giappone feudale. Una tradizione legata almeno in apparenza all’esigenza percepita, da parte dei signori che si fecero la guerra per oltre dieci secoli, fino alla sofferta unificazione dell’arcipelago, di sfruttare metodi non propriamente convenzionali ed ortodossi, che tendevano spesso ad includere lo spionaggio, la diffusione di false informazioni e l’assassinio. Finché attorno al XVI secolo, o almeno così si dice, la pratica di tali arti non venne formalizzata in una serie di precise scuole d’arti marziali, ciascuna tramandata da una precisa linea di sangue, affine al concetto propedeutico di un clan. Ciascuna particolarmente specializzata, benché nell’ideale comune contemporaneo, ancora oggi, persista uno stereotipo ideale del tipico appartenente a questa misteriosa categoria professionale che include alcuni elementi esteriori continuativi nel tempo: furtivo ed invisibile, vestito completamente di nero e con il volto coperto dal tipico cappuccio. Armato di tutto punto, con la spada, vari tipi d’implementi atipici con corda/catena e soprattutto, attrezzi da lancio dalla foggia estremamente riconoscibile, pensati per ferire o rallentare gli eventuali inseguitori nemici. Il termine shuriken (手裏剣 – letteralmente: lama della mano nascosta) viene in genere attribuito ad un’intera classe di coltelli dalla forma in realtà piuttosto varia, che oltre ad includere gli hira shuriken (平手裏剣) dalla forma piatta, ovvero le caratteristiche stellette ninja, vedeva spesso l’impiego di sottili pugnali dritti come un bastone, chiamati per l’appunto bō shuriken (棒手裏剣). Armi, quest’ultime, certamente in grado di arrecare un danno maggiore di quanto si potrebbe essere indotti a pensare, come ampiamente dimostrato dal moderno praticante Celadin, benché l’impiego su un bersaglio in movimento dovesse risultare necessariamente più difficoltoso rispetto a quello effettuato ai danni di un povero tronco indifeso. Tanto da giustificare l’ulteriore leggenda secondo cui i suddetti attrezzi venissero preventivamente bagnati in vari tipi di veleno, oppure immersi nella melma per garantirne la contaminazione da parte dei micidiali batteri del tetano, per garantire la futura dipartita del proprio avversario. Una visione tanto improbabile, quanto conveniente alla propagazione del mito…

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