Il drago sputafuoco che si specchia nelle acque del fiume Don

Come avviene per molti altri luoghi del fantastico, è particolarmente importante non smarrirsi sulla strada per Kudykina Gora, la Montagna [russa] del Chissà Dove. Non che nel caso di un tale luogo, possano esservi d’aiuto indicazioni come “sempre dritto” o “seconda stella a destra prima del mattino”. E neppure Google Maps, visto che i ripetitori del segnale Internet cessano di funzionare a circa 11 Km da Zadonsk, il paese di 10.000 abitanti situato nel distretto omonimo, non troppo lontano dal confine settentrionale dell’Ucraina. Soltanto i vostri GPS, almeno fino a un certo punto del percorso, possono guidarvi a destinazione, benché considerando la natura estremamente rurale del territorio, inclusiva di strade non precisamente riportate sulle mappe internazionali, sia comunque consigliabile fermarsi e chiedere agli abitanti del luogo, neanche foste stati trasportati per davvero in un’epoca velatamente leggendaria. “Dov’è il drago? Dov’è il mostro? Dove siede, in agguato, Zmey Gorynych, lo scaglioso signore della montagna, nemico di tutti gli Dei e tremenda vipera del sacro libro di Veles?” Seguendo uno dei fiumi più lunghi dell’enorme paese, finché alla vostra destra, stagliandosi contro il sole, scorgerete la più alta delle tre teste fare capolino all’altezza di 18-20 metri, seguita da un gran paio d’ali e il dorso scaglioso della spaventosa creatura. Una statua, almeno in base all’opinione dei più razionali, benché appaia in qualche modo assai particolare. In effetti, non è affatto tipico che tali arredi paesaggistici, non importa quanto strani e singolari, scaglino lingue di fuoco verso il pubblico in solenne attesa.
Tubature del gas interne al grande arnese, collegate ad una grossa bombola semisepolta nel paesaggio erboso. È un concetto, se vogliamo, particolarmente “russo” benché trovi applicazione, in questo ambiente, per dare la vita a una creatura che appartiene a tutto il mondo slavo, fin da quando i preistorici Solomonari, cupi negromanti uniti sotto il lago di montagna, la incatenassero e corrompessero per dare sfogo ai loro compiti maligni. E “Chi controlla il clima, controlla il mondo” avrebbe potuto riassumere il pensiero di costoro, quando precorrendo di svariati secoli Mazinga fuoriuscivano dall’acqua lacustre di una montagna ignota, a cavallo della bestia sopra i cieli cupi e tempestosi della nazione temporaneamente addormentata. Pioggia, fulmini e la furia senza tempo dei tornado! Sopraggiunta l’epoca moderna, quindi, simili scherzi del clima persero il significato primordiale. Lasciando il drago in questo luogo di pensionamento terreno, che oltre a offrire presupposti di guadagno per chi lo amministra, è un modo per staccare temporaneamente dalla vita fin troppo connessa delle moderne città. Trascorrendo un lungo pomeriggio tra i divertimenti, animali esotici di vario tipo e le curiosità della natura. Ma non è tutto “semplice” nel parco giochi di Kudykina Gora, per non dir spontaneo ed immediato. La vera fortezza costruita in legno, come gli avamposti di frontiera della civiltà dei gotici Grutungi, da cui si dice che discenda la tribù dei ‘Rus e conseguentemente tutto il mondo Russo dell’antico Medioevo. Presso cui, la gente, finito il giro delle variegate attrazioni, si raccoglie attorno al triplice colosso, aspettando l’ora prefissata in cui il venerando Zmey dimostrerà, ancora una volta, la sua furia fiammeggiante.
Volendo essere concreti, stiamo parlando di una statua costruita in cemento sopra un’armatura di metallo, dall’artista autodidatta di origini ucraine Vladimir Kolesnikov, famoso per i suoi arredi con personaggi fantastici, prodotti a vantaggio di molti parchi e giardini dei paesi dell’ex unione sovietica, generalmente riconoscibili dalla vivace verniciatura dai colori pastello, che li fanno assomigliare alle illustrazioni di una bylina, fiaba della tradizione orale messa in versi da qualche poeta dimenticato. Eppure sarebbe lecito affermare che sia proprio la tonalità uniforme, grigia come un blocco di granito, a donare un aspetto particolarmente draconiano al suo capolavoro, l’imponente attrazione al centro di tante composizioni fotografiche dei circa 500 ettari del parco, costruito verso l’inizio degli anni 2000 da un consorzio di agricoltori ed uomini d’affari locali. Ma ciò che implica, dal punto di vista leggendario, non dovrebbe essere mai sottovalutato…

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Cavalli e altre figure disegnate nello scheletro delle colline

Figurano senz’altro tra le immagini chiaramente inscritte nel repertorio della fantasia comune contemporanea, quella dell’uccello dalle ampie ali, del ragno geometrico e la scimmia, la lucertola e le altre messe in mostra sopra il suolo del deserto peruviano, dall’antica civiltà dei Nazca tra il 300 e il 500 d.C. Geoglifi dell’ampiezza di 300, 380 metri, fantastici e moderni nello stile fortemente idealizzato che li caratterizza. È curioso e significativo, tuttavia, che un’espressione molto simile dell’arte primordiale, al tempo stesso più antica ed a noi notevolmente più vicina, sia largamente sconosciuta all’opinione pubblica europea. Per lo meno fuori dal suo paese di provenienza, l’Inghilterra. Luogo di gigantesche pietre disposte in cerchio per formare antichi osservatori, ma anche anomali prodotti della geologia, colline, montagnole ed alture in cui grattato via lo strato superiore del terreno, compare il gesso bianco come l’osso che costituisce il grosso della massa sottostante. Uno stato dei fatti, questo, che può essere descritto solamente come origine di ogni ispirazione, ovvero in termini televisivi, il prototipo dell’Art Attack.
Certo è probabile che, circa 3.000 anni fa (verso la fine dell’Età del Ferro) la creatività dell’uomo fosse propensa ad instradarsi nella riproduzione di quello che aveva modo di vedere coi suoi stessi occhi primitivi. E non abbiamo alcun esempio, tra i ritrovamenti parietali sotterranei o le altre pitture miracolosamente giunte fino a noi, di arte astratta totalmente scollegata dall’espressione quotidiana dell’esistenza. Eppure questo non significa che i nostri remotissimi antenati fossero del tutti privi di talento: guardate, ad esempio, i ritratti di animali che ricoprono la celebre grotta di Lascaux, raffiguranti tra gli altri tori giganteschi, uri ed altri animali oggi estinti. O il colossale cavallo realizzato ad Uffington, nella contea dell’Oxfordshire, della lunghezza di 110 metri dal muso alla punta della sua lunghissima coda arcuata. Secondo un canone estetico che sembra concepito più che altro per esprimere l’idea del dinamismo, di questa creatura nobile e scattante, attraverso il numero minore di linee, con una concisione che in altre circostanze o località geografiche, si potrebbe quasi definire Zen. Chi ha tracciato tutto questo? Non si sa. Per quale ragione l’avrebbe fatto? Anche questo, a voler essere pignoli, non è chiaro. Benché le teorie naturalmente abbondino, compresa quella più probabile secondo cui si tratterebbe di un’insegna territoriale, tracciata all’epoca per indicare che l’intera zona era sotto il controllo di un’autorità, oggi convenzionalmente definita “il clan del Cavallo”. Non per niente, nel corso dell’ultimo secolo sono state ritrovate alcune monete risalenti alle origini della civiltà britannica, sopra le quali figura la rappresentazione dello stesso cavallo, facendone un probabile sigillo ricorrente dell’organizzazione sociale di allora. Ma proprio simili ritrovamenti, incidentalmente, si trovano alla base dell’assai difficile datazione, facendo di questo cavallo l’unico geoglifo inglese la cui autenticità è ritenuta pressoché certa. Diversamente dalle molte imitazioni presenti nel Sussex, nello Wiltshire e nell’Aberdeenshire, generalmente più simili alla sagoma di quello che potremmo definire un “cavalllo” eppure tutte risalenti al periodo che va dal 1700 alla seconda metà del XIX secolo. Tutt’altra questione invece per un paio di figure antropomorfe, in merito alle quali sussiste per lo meno un certo grado di sospetto d’autenticità.
Esse sono: l’Uomo Lungo (72 metri) di Wilmington, silhouette con strette nelle mani due lunghi bastoni sui quali, in base ad alcuni disegni d’epoca, un tempo trovavano posto gli accessori necessari a farne un rastrello e una falce, simboli universali dell’agricoltura; e l’assai più famoso, nonché scurrile, gigante di Cerne Abbas. Scavato per 55 metri in Dorset sull’omonima collina, con il possibile scopo di rappresentare una divinità pagana legata al culto della fertilità, vista la totale assenza di vestiti nonché l’evidente erezione, posta in giustapposizione con una grossa clava tenuta sopra la testa. Che potrebbe anche rappresentare, secondo alcuni,  il dettaglio (si fa per dire: è lunga già da sola 37 metri) concepito la fine d’identificare il personaggio, che in tal caso dovrebbe essere niente meno che Ercole, la versione latina dell’eroe figlio di Zeus, Eracle il fortissimo guerriero e cacciatore. Oppure, nell’interpretazione meno antica del geoglifo, semplicemente il dittatore militare del XVII secolo Oliver Cromwell, così raffigurato per mettere in ridicolo la sua dura lex, esercitata nella punizione sistematica di chiunque auspicasse alla restaurazione della monarchia inglese. Senza mai essere sconfitto in battaglia, almeno fino a che contrasse la malaria e un brutto caso di calcoli renali, lasciando le sue truppe impreparate a cedere sotto l’assalto di re Carlo II, che riuscì a riconquistare la capitale. Di certo, ad ogni modo, una simile interpretazione non spiega l’evidente stato di eccitazione sessuale del gigante…

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Incredibile animazione dimostra il funzionamento del DNA umano

In questo preciso istante all’interno del nostro corpo, letterali miliardi di minuscole macchine stanno compiendo il loro lavoro quotidiano, assolvendo alla miriade di compiti richiesti per garantire la nostra sopravvivenza. E nessuno, tra questi, è basilare e importante quanto quello dell’auto-replicazione delle cellule superstiti, allo scopo di sostituire tutta la materia biologica che continuamente muore, si disgrega e finisce per essere riassorbita dalla circolazione sanguigna. Ma cosa fa di un globulo rosso, un globulo rosso? E in quali aspetti differiscono i mattoni componenti l’endotelio dei vasi sanguigni, ad esempio, da quelli usati all’interno del fegato, della milza o dell’intestino? Sono molti anni che cerchiamo di comprenderlo, attraverso osservazioni che vanno ben al di la del microscopio elettronico. Il che è per certi versi sorprendente, quando si considera che ogni cellula viene fornita completa di istruzioni straordinariamente precise. Quelle prodotte dall’interazione del proprio codice unico coi ribosomi e le relative proteine, ovvero la lunga e sottile stringa nel nucleo (circa due metri per ciascuna cellula per due nanometri di larghezza) continuamente replicata, che prende il nome di acido desossiribonucleico, comunemente abbreviata con l’acronimo di DNA. Come gli altri campi di studio che trattano l’infinitamente piccolo, tuttavia, il nostro proposito non specialistico di comprendere ciò di cui stiamo parlando resta condizionato da un fondamentale problema: l’impossibilità di visualizzare attraverso la semplice immaginazione qualcosa di tanto piccolo e complesso. A meno di fare ricorso ad artifici non proprio credibili, per non dire del tutto irreali. Pensate al modello dell’atomo di Bohr, che rappresenta l’unita più nota della materia come una sorta di planetoide, circondato da satelliti/elettroni in continua rotazione…Un’immagine che potrà risultare utile per l’analisi teorica dei fatti. Nessuno, tuttavia, pensa davvero che ogni singolo oggetto nell’universo possa essere composto da un agglomerato plurimo di tali cosmici componenti. E la stessa cosa vale per la visualizzazione convenzionale dei processi alla base della vita, in cui si mostrano, generalmente, maestosi corpi fluttuanti nel vuoto, che si spostano sulla base di un intento preciso e proiettano sapienti appendici, ciascuna delle quali appare deputata a una mansione dall’alto grado di specificità. Quando invece, parlando di strutture tanto minuscole, è letteralmente impossibile immaginare che un qualsiasi processo possa riuscire a compiersi, a meno che sia letteralmente impossibile il contrario.
Ecco allora l’intento dell’autore di questo fenomenale video, l’animatore e grafico Drew Berry dell’Istituto di Ricerca Walter and Eliza Hall di Melbourne, Australia: mostrare, per una volta, le cose come potrebbero effettivamente essere e non come vorremmo che fossero, per questioni di mera chiarezza. Il che sorprendentemente richiede, persino all’attuale stato avanzato della ricerca scientifica, un notevole grado d’immaginazione. Il fatto è che tutto ciò che avviene all’interno delle cellule è l’esatto contrario della precisa catena di montaggio mostrata in tutti i libri di biologia, i documentari televisivi e alcuni cartoni animati didattici come Esplorando il Corpo Umano (1989) o l’attuale anime giapponese Hataraku saibou! (はたらく細胞 – Cellule al lavoro) ma un letterale marasma di particelle infinitesimali, che interagiscono scontrandosi tra loro e molto spesso, si distruggono spietatamente a vicenda. Il montaggio di poco più di 7 minuti, pubblicato online in occasione della nuova mostra del Victoria & Albert di Londra, contiene alcune delle sequenze più famose dell’autore, chiamato nel 2010 dal New York Times niente meno che “Lo Steven Spielberg dell’animazione molecolare” anche in forza dei numerosi premi conseguiti nel corso della sua lunga ed insolita carriera. Poco celebrata al di fuori degli ambienti divulgativi eppure, non meno importante anche per la ricerca, vista la maniera in cui permette agli scienziati di visualizzare la risultanza somatica delle proprie ipotesi, potendo così contare su una valutazione istintiva di quanto queste ultime siano probabili, oppure soltanto un passo falso verso la risoluzione del più grande mistero alla base della nostra stessa esistenza. Il risultato è un susseguirsi fantastico di visioni al limite del surreale…

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È quasi pronto il vaso più grande della città di New York

La prima domanda che molti si pongono, in materia d’architettura, è quale sia esattamente la funzione. Quasi come se l’assenza di una risposta immediata e sufficientemente chiara, nella maggior parte dei casi, condanni l’oggetto dell’analisi ad essere relegato nel mondo collaterale dell’arte. Quel regno privo di sostanza, ma non di valore, in cui tutto esiste per il solo scopo di esistere, o suscitare nell’osservatore un senso di comprensione ulteriore, funzionale a comprendere il perché debba continuare a farlo. E c’è un budget, secondo la morale comune, che dovrebbe essere destinato alla costruzione di cose “utili”. Ed un altro per lo svago, ovvero tutto ciò che esula da una mera logica di convenienza. Il che tende inevitabilmente a generare problemi, in un paese come gli Stati Uniti in cui molti di coloro che realizzano opere pubbliche sono dei privati, come parte dello sviluppo per nuovi quartieri dai grossi propositi di guadagno o per semplice esenzione dalla morsa costante e spietata delle tasse. Situazioni che permettono, un giorno, di svegliarsi sapendo che una vasta area dismessa sarà presto trasformata in un punto di riferimento importante. E non c’è niente che i suoi vicini abitativi possano dire o fare, per tentare d’influenzare la marcia inarrestabile della modernità.
The Vessel: come Stonehenge, come una piccola piramide o per essere più moderni, un qualcosa di concettualmente simile alla Tour Eiffel. Con un’altezza comparabilmente inferiore benché niente affatto indifferente: 45 metri esatti. Pur non avendo nulla da invidiare, in materia di piani: esattamente 16, rappresentati da 80 spazi aperti liberamente percorribili e interconnessi da 2.500 scalini. Già, perché in effetti è di questo che stiamo parlando: una gigantesca struttura modulare traforata, completamente aperta agli elementi, concepita per permettere alla gente di salirci sopra e… The Vessel, eccolo qua. Non c’è (quasi) nient’altro da dire. Esso aveva fatto la sua comparsa, nella mente del suo architetto londinese di 44 anni Thomas Heatherwick, almeno dall’epoca in cui frequentava il Politecnico di Machester, quando ebbe modo di sperimentare, tra gli edifici del campus, la naturale funzione di una grande scalinata dismessa. Chiunque abbia vissuto intensamente un luogo ad alta percorrenza per lunghi periodi, incluse le tempistiche prolungate d’attesa tra una lezione e l’altra, sa perfettamente di cosa sto parlando: simili luoghi ad estensione ascendente, in cui la gente tene a sedersi e sostare, per conversare, studiare o fare merenda… “Compresi a quei tempi che un simile contesto poteva assumere una funzione primaria anche senza rispondere a comuni esigenze di utilizzo. Da un punto di passaggio, a un vero e proprio arredo sociale…”
Il che ci lascia intendere, in maniera tutt’altro che velata, ciò a cui ci troviamo di fronte: non il progettista che studia l’ergonomia di un luogo, rispondendo ad effettive esigenze poste di fronte a lui dalla moltitudine o i suoi interpreti e committenti. Bensì la realizzazione materiale di una visione in se stessa pura, finalizzata a modificare la visione stessa di cosa sia accettabile, funzionale e soprattutto, in che modo. Tanto che i lavori per l’inusitata struttura, iniziati nel settembre del 2016 con un annuncio del sindaco Di Blasio, nel contesto del vasto progetto di recupero dell’ex-area ferroviaria degli Hudson Yards, non hanno mancato di attirare una vasta sequela di proteste per lo più organizzate spontaneamente, da un popolo, quello dei newyorkesi, che ha fatto del pragmatismo uno stile di vita e il simbolo stesso della propria beneamata città. Ruotando sempre attorno, essenzialmente, alla stessa tesi: “Tra tutti i modi per spendere 150-200 milioni di dollari, possibile che l’1% non fosse in grado di trovarne uno meno… [prego completare la frase, rispettando il caratteristico idioma nordamericano]” Critiche a cui del resto, il Heatherwick non era affatto nuovo, sopratutto tra i confini di questa stessa megalopoli, dove da anni deve smistare le proteste preventive per il suo Pier 99, un avveniristico giardinetto galleggiante che dovrebbe essere costruito, prima o poi, presso i molti antistanti questa stessa concentrazione di astio, opulenza e conflitti sociali che prende il nome celebre di Manhattan… Ma ormai a poche settimane dall’inaugurazione, diamo adesso uno sguardo più approfondito a The Vessel, forse la sua creazione di maggior impatto visivo tra gli ultimi anni di lavoro.

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