“Onorevole funzionario dell’Ufficio di Collegamento del Giappone Meridionale!” Esclamò il sindaco di Takaoka inchinandosi profondamente, nel caldo tropicale di inizio estate sulle isole Ryūkyū. I suoni tipici dell’isola di Okinawa penetravano dalle sottili pareti di carta: il traffico di poche automobili, il vociare dei bambini, il richiamo distante del rallo zampeardesia, alla ricerca di una compagna con cui trascorrere il periodo più importante della sua breve vita. Il tutto incorniciato da un sommesso, eppure stranamente vicino miagolio. Dalla finestra circondata da opere calligrafiche con le parole “rispetto” e “zelo” era possibile scorgere la stele eretta per commemorare la fondazione di questo ufficio indicativo di un ritrovato senso d’unità nazionale, per la prima volta dalla fine della seconda guerra mondiale. L’uomo di mezza età dai capelli corti eppure non perfettamente in ordine, vestito con un kimono giallo e il cappello tradizionale stretto nella mano sinistra, alzò timidamente lo sguardo per osservare il buroctrate che si era insediato a partire dalla terra centrale dello Honshū. In giovane giacca e cravatta, lo sguardo serio, pienamente proiettato nel futuro di questo 1966 economicamente fulgido e pieno di speranza: “Voglia gentilmente ascoltare la mia petizione.” Esclamò rigido, facendo un uso fiorito del keitai, il linguaggio onorifico mirato non soltanto ad elevare il proprio interlocutore, bensì anche a rendere oltremodo umile la sua stessa insignificante persona. Dopo tutto, ciò che stava per dire poteva essere interpretato come drammaticamente fuori dagli schemi. Il rappresentante del governo centrale fece segno di proseguire, restando severamente in silenzio. “Fuori da questa stanza, ci aspetta il mio assistente. Egli ha con se un contenitore per animali, con all’interno due esemplari della creatura misteriosa dell’isola di Iriomote. La mia proposta, a voi piacendo, sarebbe di offrirla alla Somma Eminenza del Palazzo Imperiale…” In quel momento, gli occhi dell’ambasciatore si spalancarono, come se non riuscisse assolutamente a credere a quello che aveva appena sentito. Il leggendario yamapikaryaa, colui che risplende nella montagna? L’essere ricercato negli ultimi quattro anni, con grande dispendio di energie e risorse, da alcuni dei naturalisti più importanti dell’intera Università di Waseda? Non c’era quasi nessuno in Giappone, oramai, che non fosse al corrente della questione. Pensierosamente, l’uomo si alzò in piedi. Quindi pronuncio le solenni parole, esitando soltanto un secondo: “Fate…Fate entrare i gatti!”
È difficile comprendere effettivamente quanti rari animali, creature mai classificate dalla scienza, trascorrano le loro giornate a pochi chilometri, persino metri da popolose comunità umane. Esseri antichissimi provenienti da un ramo distinto dell’evoluzione, che per la convergenza dei fattori validi al raggiungimento della prosperità in Terra, finiscono per assomigliare a creature per noi del tutto familiari, camminando tra loro per intere generazioni. Invisibili a tutti, tranne che al passaggio impassibile della storia. Fu così che per lunghi anni il felino oggi noto come Prionailurus bengalensis iriomotensis, sottospecie attestata unicamente su un’unica terra emersa dell’arcipelago Giapponese, fu considerato dagli abitanti dell’isola di Iriomote come nulla più di un gatto domestico tornato alla stato brado, da catturare e cuocere nella zuppa assieme agli altri piccoli mammiferi della foresta. Finché Tetsuo Koura, rinomato professore, non riuscì a registrare l’osservazione ravvicinata di un cucciolo, che morì poco dopo essere stato prelevato e trasportato in mezzo alla civiltà. Come spesso capitava per i piccoli di animali selvatici, esso non possedeva probabilmente gli anticorpi adeguati a trascorrere una vita in città. Tre anni dopo quindi, il suo collega Yukio Togawa si recò anch’egli nel territorio selvaggio, spronato da un articolo del giornale locale che parlava di “strani gatti selvatici nell’entroterra.” Giunto nel piccolo villaggio di Amitori, nella parte occidentale dell’isola, si confrontò quindi con un insegnante di scuola media, che aveva preso accidentalmente uno di questi animali nella sua trappola per cinghiali, prima di seppellirne i resti e preservarne l’insolita pelle maculata, che mostrò orgogliosamente allo scienziato. Su sue precise istruzioni, Togawa si mise a scavare nel giardino di casa, rinvenendo in breve tempo il teschio di un gatto adulto. Ma dalle proporzioni notevolmente insolite, con una forma allungata e quasi aerodinamica, indicativa di un cervello più piccolo e primitivo di qualsiasi altro felino moderno. A quel punto, il segreto era stato rivelato… Iniziò così la ricerca di ulteriori reperti, tramite l’offerta di ricompense in denaro, descrizioni sommarie sulle bacheche dei luoghi d’incontro isolani, volantini nei ristoranti e nelle case da tè. L’università, per il tramite di Togawa, offrì l’equivalente di 100 dollari per il ritrovamento di resti più completi, e 200 per chi fosse stato in grado di procurargli un esemplare vivo. La campagna ottenne un discreto successo, permettendo di completare un vero e proprio ossario della misteriosa creatura. Finché il 15 gennaio del 1966, due cacciatori riuscirono a catturare altrettanti Prionailurus, facendosi avanti per chiedere la ricompensa al Museo Nazionale di Naha. Ma nel frattempo, la ricerca sull’isola di Iriomote aveva raggiunto un assoluto grado di frenesia collettiva, inducendoli a chiedere un minimo di 3.000 dollari per ciascun gatto. Così mentre il direttore ponderava l’ipotesi di spendere i fondi che erano stati messi da parte per il restauro dei giardini, l’ufficio del sindaco si fece avanti con irruenza, facendo sequestrare gli animali con la scusa di sottoporli al governo centrale delle isole Ryūkyū, per determinare se fosse possibile custodirli nella loro terra di appartenenza, o dovessero essere inviati presso l’Università di Waseda. Ma i piani che albergavano nella sua mente piena d’idee, come ormai sappiamo, erano decisamente diversi…
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La strana assenza dei comignoli sui grattacieli di New York
Non è del tutto insolita la linea di pensiero che ci porta a definire l’innata “personalità” di un luogo. Come per l’inclinazione a individuare volti nelle nubi, nelle pietre, nelle forme del paesaggio, ogni agglomerato abitativo superiore agli otto milioni milioni di persone, ovvero una metropoli o persino megalopoli, può essere accostata ai suoi abitanti, come se costituisse la somma ultima delle loro aspirazioni, desideri, piccoli difetti quotidiani. Ma se questo è vero dal punto figurativo, qual’è allora l’effettiva “voce” di una simile entità? Dipende dai punti di vista. Secondo alcuni, il chiasso della gente per le strade, che si sovrappone in un unico suono disarticolato. Secondo altri, il suono che continua nella notte dai vecchi termosifoni. È questa un’esperienza che è stata sperimentata da più di un affittuario, trasferitosi per studio o per lavoro nella Grande Mela, soltanto per esserne svegliato nella notte, di un inverno cupo e sotto zero. Trovarsi così ad ascoltare il ritmo irregolare di una serie di colpi, come dispettose martellate, portate sul bersaglio da uno gnomo dispettoso che abita nei tubi del riscaldamento. Inframezzato dai suoi sibili fischianti, di una rabbia animalesca e primordiale, mentre tenta di attirare la nostra attenzione. Il che, in un certo senso, è esattamente quello che sta succedendo. Se interpretiamo l’umanoide dal cappello a punta come una metafora del primo segno del progresso, e il suo martello una protesta verso chi l’ha ormai dimenticato. Anche il fumo che esce dei tombini, un’altra nota prerogativa locale, è un frutto del suo costante lavorìo.
Un fastidio non indifferente, che tuttavia parla di un preciso attimo nel corso della storia. Sussurando, tramite quest’arcana versione del codice Morse, di un singolo momento noto come Grande Tempesta di Neve del 1888, che nel giro della singola notte tra l’11 e il 12 marzo, paralizzò e devastò l’intera città di New York, il Massachusetts, Rhode Island e il Connecticut come pochi altri fenomeni sarebbero riusciti a fare nel corso della loro storia. Qualificata come uno dei fenomeni atmosferici più grave mai verificatosi negli interi Stati Uniti, con oltre 150 cm di coltre candida e venti fino 72 Km/h, sufficienti a spazzare via, letteralmente, ogni cavo elettrico che fosse stato collocato al di sopra del livello stradale. 200 navi andarono distrutte e l’intero sistema dei telegrafi restò isolato, mentre gli stessi pompieri non riuscivano a montare una campagna di soccorsi dalle loro caserme, ormai irraggiungibili con mezzi a motore. Quando oltre una settimana dopo, quindi, il servizio ferroviario ricominciò a funzionare, e le persone poterono uscire dalle loro case per azzardare una stima dei danni (l’equivalente odierno di 670 milioni di dollari) si diede inizio al laborioso processo di ricostruzione. Una strada dopo l’altra, i tecnici civili scavarono le tracce necessarie per passare ad un metodo di distribuzione dell’energia elettrica che non fosse più soggetto ai capricci occasionali del vento. Ma mentre si trovavano lì, con lo schema della nuova rete chiaramente evidenziato dal passaggio dei loro strumenti di scavo, ricevettero una nuova direttiva dall’amministrazione centrale: disporre, già che c’erano, dei tubi del vapore. Il tutto per una presa di coscienza ormai largamente assodata: già sull’isola di Manhattan, stavano venendo gettate le fondamenta di un nuovo tipo di edifici. Luoghi come il World Building dell’omonimo giornale, dotati non di 5 o 6 piani, bensì 20, per un’altezza di 94 metri antenna esclusa. O la sede della Manhattan Life Insurance Company, che avrebbe potuto vantare un tetto all’altezza di ben 106. La gente iniziava a cogliere, in quei giorni, la direzione urbanistica che stava venendo intrapresa dalla classe al potere dei capitalisti, ed iniziava preoccupata ad interrogarsi sull’indomani: “Che cosa succederà sopra le nostre teste…” si chiedevano Joe & Stacy, uomo e donna della strada: “…Quando di edifici simili ce ne saranno dozzine, magari abitati da molte migliaia di famiglie, ciascuna dotato della sua cucina e caldaia per il riscaldamento?” L’esempio della Londra industrializzata, in quegli anni, era fin troppo noto a livello internazionale, un luogo perennemente avvolto dalla foschia, i cui cittadini non vedevano il cielo limpido ormai da almeno un paio di generazioni.
Ma questo particolare dramma della troppo rapida modernizzazione, qui, non avrebbe mai avuto modo di raggiungere il suo culmine più drammatico e soffocante. Grazie a una risorsa particolarmente trasformativa: la più grande infrastruttura al mondo di riscaldamento cittadino centralizzato, a partire da grandi impianti di cogenerazione dell’energia. Con un piccolo problema: i termosifoni a vapore, in assenza di manutenzione, tendono a intrappolare piccole quantità d’acqua che inizierà a rimbalzare tra i tubi, producendo un bel po’ di rumore…
Ciò che non vi hanno mai detto sul fucile M1 Garand
La leggendaria arma in grado di vincere la seconda guerra mondiale, che sta agli Stati Uniti d’America come Excalibur all’Inghilterra Medievale. Con una singola, insignificante differenza: di questi ne furono prodotti approssimativamente 5,4 milioni. Tutto merito della catena di montaggio, derivazione pratica delle moderne soluzioni industriali. Chi non conosce un simile arnese, alla fine? L’abbiamo visto più volte al cinema, e non soltanto nei film bellici che andavano di moda 30, 40 anni fa. Le nuove generazioni lo hanno sperimentato, in effetti, grazie alla pletora di videgiochi immessi sul mercato sull’onda del successo stratosferico del primo Medal of Honor, uscito esattamente un anno dopo il successo ai botteghini di Salvate il Soldato Ryan di Spielberg. Ed è difficile dimenticarla, anche soltanto in forza del suo funzionamento così evidentemente DIVERSO da tutto quello contro cui veniva utilizzata: ecco un fucile dal fuoco completamente semi-automatico, negli anni ’40 dello scorso secolo, perfettamente solida, affidabile, pur essendo antecedente al concetto di caricatore. Per usare la quale, ci si aspettava che il soldato inserisse direttamente la clip dei proiettili facendo arretrare l’otturatore nella parte superiore, ragione per cui, una volta inseriti gli 8 proiettili calibro .30, non ci si aspettava di aggiungerne degli altri fino al caratteristico suono “DING” emesso dal meccanismo a gas rotativo al termine della raffica, durante l’espulsione automatica della graffetta che teneva assieme le munizioni. Un suono tanto riconoscibile,p che si diceva costituisse un pericolo per i soldati, poiché informava il nemico che per i prossimi due o tre secondi non sarebbero stati in grado di rispondere al fuoco. Ma la realtà è che in guerra, raramente ci si trova a combattere uno contro uno. E i tedeschi o i giapponesi, durante i conflitti a fuoco, sapevano bene che il nemico aveva sempre almeno un compagno di squadra, il quale si era ben guardato da esaurire le sue risorse in contemporanea con chi gli avrebbe protetto a sua volta le spalle. E tutti e due, così facendo, avanzavano verso l’obiettivo. No, il problema dell’M1 Garand, definito dal generale Patton “Il più grande implemento bellico mai costruito” era semmai un altro. Di natura certamente più triviale, eppure così dannatamente, sgradevolmente doloroso…
Hickok45 è uno di quei produttori di contenuti su YouTube i quali, nonostante la delicatezza degli argomenti che tratta occasionalmente in nello scenario geopolitico vigente, non vedranno mai calare sulla loro opera il temuto martello della demonetizzazione. Semplicemente troppa fiducia ispira il suo pacato modo di fare, la voce tranquilla, i continui riferimenti al fatto che lui spara soltanto per “divertimento, sport e divulgazione storica”. Più volte criticato per la maniera irregolare in cui gestisce l’otturatore girevole-scorrevole di certi fucili della seconda guerra mondiale, ha ad esempio risposto: “Altrimenti diventa faticoso. Quando saprò che sto per andare in battaglia con uno di questi, mi preoccuperò di usarli nel modo che voi definite giusto.” Chi l’avrebbe mai detto? Creatività nell’uso delle armi da fuoco. E una naturale simpatia, che traspare da molti degli approcci esplicativi, come nel qui presente nuovo segmento creato attorno ad uno dei pezzi più amati della sua collezione, l’M1 Garand di ordinanza prodotto ad ottobre del 1943 (“Forse vi ricorderete…” minimizza da sotto il gran paio di baffi “…di un qualche piccolo conflitto in quegli anni.”) Video che si preoccupa di mostrarci, forse per la prima volta, un problema con cui dovevano avere a che fare quotidianamente tutti i membri della fanteria degli Stati Uniti d’America: il cosiddetto pollice Garand. È una questione che nasce, se vogliamo, dalla stessa poca fiducia che il progettista omonimo canadese, su precise istruzioni del comando centrale, aveva avuto nel soldato di linea medio, al quale era stato deciso di non assegnare un caricatore estraibile, che egli avrebbe potuto smarrire in battaglia. Così che ci si aspettava da lui, come già accennato, che inserisse i proiettili direttamente con le dita, facendo affidamento sul blocco automatico dell’otturatore. Peccato che, soprattutto dopo un lungo utilizzo, tale meccanismo finisse per avere un’affidabilità dubbia. Così che, una volta spinte a fondo le clips, capitava che a volte la molla lo spingesse improvvisamente in avanti. Con una forza sufficiente a spezzare nettamente in due una matita!
La terra delle chiese scavate nelle montagne
Uno degli aspetti più singolari dell’Etiopia, vista la sua collocazione geografica nel bel mezzo dell’Africa orientale, è l’alta fascia della popolazione che pratica la religione cristiana: oltre il 60% del totale, aderente alla Chiesa di Tewahedo, una parola Ge’ez che significa “essere una cosa sola”. Questo perché, contrariamente al Cattolicesimo romano e all’Ortodossia, fin dai tempi antichi qui vige la credenza, detta monofisismo, secondo cui Cristo non avrebbe mai avuto una duplice e contrastante natura, al tempo stesso divina ed umana, poiché la seconda sarebbe stata completamente assorbita dalla prima. Con una popolazione che oggi crede, in maniera compatta, in questa ipotesi redatta per la prima volta da San Cirillo di Alessandria nel V secolo a.C. Ma non fu sempre così; nell’epoca in cui il re Ezana dell’antica dinastia di Axum (320 – c. 360 d.C.) si convertì per primo al culto cristiano copto importato dall’area di Costantinopoli, e soprattutto nell’epoca seguente al concilio di Calcedonia del 451 che le rese eretiche, simili posizioni erano ancora viste come un crimine punibile assai duramente. Il mutamento iniziò alle soglie dell’anno 500, per quella che potrebbe essere vista come una semplice coincidenza, i cosiddetti Nove Santi non varcarono i confini del regno. Erano uomini di chiesa, teologi ed eremiti, provenienti dall’Europa e dall’Asia, che concordavano nella definizione stilata da Cirillo della natura del figlio di Dio. I quali ben presto, grazie all’implicito carisma e le capacità di fare proselitismo, si ritrovarono seguìti da una nutrita schiera di fedeli. Ed un problema: dove avrebbero mai potuto costruire, costoro, le loro chiese, affinché rimanessero distanti dagli occhi scrutatori dell’ordine costituito? Per loro fortuna, le genti della regione del Tigrè, parlanti di un’antica lingua semitica e storicamente allineati all’ebraismo, vennero ben presto in loro aiuto. Applicando, all’accrescimento della nuova dottrina, le loro capacità architettoniche coltivate attraverso i lunghi secoli di guerre e conflitti tra i popoli africani, che li avevano portati a costruire in alto, sempre più in alto sui rilievi che bloccavano lo sguardo verso la curvatura dell’orizzonte. Ovvero le scoscese colline e montagne, per non parlare delle caratteristiche amba (termine in lingua Ge’ez riferito delle mesa isolate, ovvero secondo la terminologia internazionale dei butte) che punteggiano il territorio, come altrettante placche sporgenti dalla schiena di un dinosauro dormiente. E se a questo punto, dovesse venirvi spontanea la domanda di come sia possibile costruire una chiesa al di sopra di un sentiero pressoché verticale, percorribile soltanto utilizzando nel contempo mani e piedi, vi invito a programmare un viaggio, anche virtuale, nella regione. Per prendere conoscenza con gli straordinari 120 istituti religiosi, talvolta trasformati in trappole per turisti, altre abbandonate, più raramente, ancora in uso da parte del clero, che si trovano al cospetto di alcune delle viste più straordinarie del Tigrè. Letteralmente scavati nel fianco delle più alte rocce, mediante una tecnica oggi per lo più dimenticata, prima di essere ricoperte di strabilianti affreschi, e riempiti dei tesori iconici, letterari e figurativi di innumerevoli generazioni d’artisti ed autori.
È un’esperienza che assai raramente viene dimenticata dal viaggiatore. Generalmente s’inizia il giro da uno dei siti più antichi e famosi, il monastero di Debre Damo, non troppo distante dall’antica capitale di Axum, luogo di provenienza dell’obelisco sottratto dagli italiani come bottino di guerra, poi donato dall’imperatore Hailé Selassié e quindi restituito cionondimeno, a partire dall’ottobre del 2002. Ma molto difficilmente, i soldati stranieri avrebbero mai potuto trovare e saccheggiare un simile luogo, nascosto sulla sommità della più alta tra le amba locali e raggiungibile unicamente da una singola corda di peli di capra. Gettata tradizionalmente a tutti gli amici (maschi) dei monaci che intendono salire, secondo un rituale che si richiama alla leggendaria origine di questo luogo di culto, che sarebbe stato edificato dal santo Abuna Aregawi dopo che l’arcangelo Michele in persona aveva evocato per lui un miracoloso serpente, che l’aveva avvolto tra le sue spire e condotto fin quassù. Su una cima piatta, destinata ad essere coltivata dai religiosi raccolti in preghiera, mentre costruivano i secolari edifici destinati a conservare alcune reliquie ed i sacri manoscritti del santo. Tra cui la singola chiesa più antica del paese. Creazioni architettoniche per lo più ordinarie, ovvero composte di mattoni e calce, laddove in zone assai più isolate i seguaci degli altri otto santi si misero alla prova in maniera decisamente più severa. Vedi ad esempio, lo straordinario eremo di Abune Yemata Guh.


