Nel primo giorno di Vaisakh, antica celebrazione antecedente alla fondazione del Sikhismo corrispondente all’inizio dell’anno solare, risultava semplicemente impossibile contare le centinaia di migliaia di persone che si trovava tra le auguste mura di Sri Harmandir Sahib, il tempio noto corte sacra del Dio Creatore, secondo quanto scritto nell’Adi Granth, il corpus di testimonianze ereditato dai 10 guru fondatori della quinta religione organizzata più grande al mondo. Nonché una delle più giovani, tra tutte quante. Persone di tutte le estrazioni sociali, nazionalità, etnie e provenienze religiose avevano indossato il turbante in segno di rispetto, se uomini, mentre le donne usavano quasi tutte il sari per coprire la testa, secondo l’usanza diffusa nello stato indiano del Punjab, sebbene non si trattasse di un obbligo imposto da uno specifico comandamento di questa religione. E compiuto le abluzioni rituali, poco prima di entrare e sedersi sul pavimento del vasto circumambulatorio (struttura coperta di forma rettangolare) spesso utilizzato dai pellegrini per fare il giro completo dell’Amritsar, la vasta piscina artificiale al centro della città omonima, considerata recipiente del sacro nettare dell’Immortalità. Trascorso qualche minuto, quindi, una voce squillante annunciò con tono quasi militare che l’occasione di rito stava per avere inizio: un letterale esercito di volontari scaturì a quel punto dall’edificio contenente le colossali cucine (langar) del luogo di culto, iniziando a distribuire i caratteristici vassoi di metallo ai presenti, con tre spazi contenenti, normalmente, zuppa di lenticchie, pudding di riso e una generosa porzione di chapati, il classico pane indiano cotto sulla padella piatta (tava). Ma in questo giorno davvero speciale, il pranzo avrebbe seguito un menu davvero fuori dal comune: a tutti i presenti sarebbe stata servita la carne (mahaprasad) un tipo di pietanza che ben poche persone, da queste parti, avevano modo di sperimentare frequentemente. Per questo c’era un’atmosfera elettrica nell’aria, quando la seconda ondata di addetti alla preparazione e distribuzione del cibo fecero il loro ingresso, trasportando le grandi pentole ricolme di spezzatino di montone (kadai gosht) accompagnato da spezie tandoori e un generoso apporto di pepe nero. Un vero e proprio miracolo, considerando che al di là di offerte volontarie di minuta entità, non una delle persone presenti aveva materialmente pagato allo scopo di partecipare ad un così luculliano banchetto.
L’usanza tipica di tutti i templi Sikh, che raggiunge le sue massime proporzioni proprio qui, nel tempio (gurdwara) d’oro che costituisce il sancta sanctorum di questa intera religione, non è esattamente riconducibile al concetto cristiano di carità. Poiché secondo uno dei precetti basilari di tale culto, il dovere di ogni fedele risulta essere, ancor prima di aiutare i bisognosi, semplicemente condividere i propri guadagni, in una proporzione tale da soddisfare i precisi precetti scritti nei testi dell’Adi Granth, custodito come una reliquia ed esposto in specifici orari all’interno dell’edificio noto come Akal Takht, il “Trono di Colui che non avrà fine” da cui si estende il ponte che conduce al centro della piscina, dove si trova lo scintillante Sri Harimandir Sahib, edificio di cinque piani tra cui quattro letteralmente ricoperti di preziose lamine d’oro. E poiché tutto deve essere in proporzione, ne deriva che le risorse impiegate per dare da mangiare a chiunque si presenti alle porte del tempio debbano essere virtualmente spropositate, ovvero bastanti per preparare il cibo in quantità paragonabile a quella di 100, oppure 1.000 mense dell’esercito. Un qualcosa di letteralmente inimmaginabile, per chi non l’ha mai sperimentato in prima persona.
dal mondo
Berezniki, un’intera città che rischia di sprofondare nel sottosuolo
La città si staglia in controluce sull’orizzonte, mostrando agli spettatori il suo volto composto di magazzini, abitazioni e altri edifici. Ma la sua essenza, ovvero il significato di quello che abbiamo davanti, non può essere raggiunto altrettanto semplicemente dagli occhi umani. Poiché si trova, a tutti gli effetti, sotto terra. Stiamo parlando per essere chiari di un grande centro industriale nel territorio di Perm, circondario autonomo della Russia Occidentale, grazie ai suoi 156.000 abitanti il secondo più popoloso dell’intera regione amministrativa d’appartenenza. Almeno, fino all’epoca presente. Per il suo immediato futuro, non sono molti a poter fare ipotesi. E se aveste rivolto la stessa domanda a uno qualsiasi dei suoi residenti, all’epoca della fondazione nel 1873, avreste avuto più o meno la stessa risposta. Questo in funzione di un campo di lavoro d’epoca sovietica, costruito secondo il protocollo vigente nelle immediate vicinanze di una risorsa considerata importante per il paese, che si trovava sul più vasto singolo giacimento di potassio minerale scoperto a memoria d’uomo, talmente ricco da poter rispondere, ancora oggi, al 10% dell’intero fabbisogno mondiale. Ma non tutto è rimasto lo stesso, da queste parti ed il senso d’incertezza, che un tempo veniva considerato in positivo, conserva ormai le gravi implicazioni di un disastro incombente. La possibile fine immediata di tutto quello che è stato costruito dai sognatori e amministratori di un tempo… E la gente non può dormire, senza sognare di precipitare improvvisamente per un’estensione di fino a 50 piani, dentro il baratro della vecchia miniera.
Le prime avvisaglie si presentarono verso la fine degli anni ’80, quando a causa d’infiltrazioni d’acqua intere sezioni della fitte rete di tunnel sotterranei collassarono su loro stesse, permettendo l’apertura di alcune voragini nei boschi circostanti la città. Ma allora nessuno volle affermare, in maniera evidente, che lo stesso potesse verificarsi in maniera esplosiva da un momento all’altro, presso qualsiasi quartiere del centro abitato. Spesso càpita: nessuno vuole pensare al peggio, nel timore che ciò possa precipitare gli avvenimenti. Finché non diventa del tutto impossibile conservare l’ottimismo. Siamo a luglio del 2007 quando al centro esatto di una zona industriale cittadina, d’un tratto, inizia a comparire una crepa sull’asfalto. La gente, elaborando un immediato sospetto su quello che possa rappresentare, inizia rapidamente a lasciargli spazio. E questa è l’unica scelta che potesse salvargli la vita; nel giro di qualche minuto, la fessura diventa di forma perfettamente circolare, poi s’ingrandisce in maniera rapida e devastante. L’intera sezione di un magazzino scompare alla vista, mentre i materiali contenuti all’interno precipitano rapidamente verso il basso. Ma chiunque potesse pensare che il baratro fosse destinato a riempirsi immediatamente di tali detriti, ottenendo il risultato paesaggistico di un nulla di fatto, era destinato a venire ben presto a patti con la realtà. Di un letterale canyon largo 310 metri e lungo 393, con una profondità di 257, abbastanza vasto da giocarci dentro una partita di baseball della Major League.
Tale luogo sarebbe stato chiamato il Nonno, ed avrebbe continuato, un poco alla volta, ad ampliarsi con suoni terribili e roboanti, causati dal gas intrappolato sotto la superficie di questa terra, un tempo carica di promesse e possibilità. Nel 2010, quindi, avrebbe ricevuto un degno erede con il cosiddetto Giovane, una voragine meno imponente presso un deposito ferroviario, in grado di devastare un’intera linea di capannoni, lasciare i binari sospesi nel vuoto e costringere le abitazioni negli immediati dintorni ad una frettolosa evacuazione. Per un periodo di 14 lunghi giorni, quindi, ogni trasporto via treno del prezioso minerale di potassio venne temporaneamente arrestato, dando una spinta significativa all’esportazione dello stesso a partire dalle miniere canadesi, principali concorrenti sul mercato globale di questa importante risorsa mineraria, usata come fertilizzante, lubrificante, isolante e in campo medicinale. A partire da quel momento cominciò ad apparire evidente, più o meno a tutte le persone coinvolte, che nulla sarebbe tornato più come prima…
Uno sguardo al sistema di allerta nazionale giapponese
Dopo il 1855, a seguito del grande terremoto che scosse gravemente la città di Edo (Tokyo dei nostri giorni) costando la vita a una quantità stimata di fino a 10.000 persone, gli abitanti del paese più a Oriente del mondo sembrarono ricordare un fatto di primaria importanza: che sotto il fango divino da cui aveva tratto origine l’arcipelago secondo le antiche cronache, soggiaceva da tempo immemore un mostruoso pesce gatto di nome Namazu. E che persino l’essere celeste Takemikazuchi, incaricato di tenerlo incatenato e bloccato con la sua spada, era prono a distrarsi di tanti in tanto, con la conseguenza che in molti, purtroppo, si ritrovavano a pagare con la vita un tale scivoloso margine di fallibilità. Dovete considerare che il Giappone, in quell’epoca così relativamente recente, era ancora il paese dei samurai, delle feste folkloristico-religiose concepite per acquietare la furia degli dei shintoisti e le misteriose creature sovrannaturali o criptidi, avvistate di tanto in tanto tra le nebbie dei sentieri montani. La modernizzazione di governo e costumi destinata qui a giungere, con la furia comparabile a quella di una catastrofe naturale, nel giro di soli 13 anni a seguito della Restaurazione del potere imperiale, non era ancora attesa da nessuno e indossare giacca e cravatta, per i burocrati, era ancora più raro che presentarsi in parata con l’armatura e le insegne del proprio clan. Di conseguenza, il popolo si affidava a ciò che aveva sempre conosciuto; nella fattispecie, la personificazione e venerazione di varie tipologie di eventi o concetti naturali, mediante il culto delle immagini che da sempre, aveva fatto parte della loro cultura. Nelle xilografie apotropaiche dal nome di Namazu-e (鯰絵) compariva dunque l’eterno nemico delle strutture urbanistiche, spesso mostrato in mezzo a una profusione di figure umane, intente a balzargli addosso ed in qualche modo, tentare di bloccarlo o punirlo per le sue malefatte passate. Mantenendo al centro della percezione pubblica la sua esistenza, si riteneva, la furia del pesce non avrebbe avuto ragione di manifestarsi ancora, né ora, né mai.
Molte guerre, tifoni e terremoti dopo, possiamo affermare con ragionevole certezza che il metodo non funzionava. Eppure ancora adesso, all’interno degli edifici governativi e dentro le centrali di polizia e pompieri, ancora compaiono figure della minacciosa quanto letargica creatura baffuta. Non più rappresentate con lo stile fiorito e accattivante del mondo fluttuante, bensì quello schematico e chiaro dei logotipi contemporanei impressi sui dispositivi elettronici, come una simpatica faccetta piriforme con baffi, labbroni e un’evidente antenna sulla testa. Il chiaro marchio, istantaneamente riconoscibile in patria del sistema noto come Kinkyuujishinsokuhou (緊急地震速報 – Sistema di allarme anticipato dei terremoti) identifica un’importante risorsa a partire dal 2004 nell’avvisare anticipatamente la popolazione dell’arrivo di una grave catastrofe, dando almeno l’opportunità di spostarsi alla ricerca di un luogo per mettersi al riparo. Ma il suo funzionamento, basato sull’intervento umano, è inerentemente fallibile per quanto ciò avvenga raramente. E soprattutto, anche quando tutto funziona nella maniera corretta, sarà comunque ignorato da una quantità stimata di circa il 10-15% dei riceventi. Sul perché ciò tenda a succedere, esistono diverse teorie. E una possibile soluzione; che permette di comprendere, possibilmente, la maniera stessa in cui simili approcci al problema possono garantire la riduzione ai minimi termini delle vittime rimaste impreparate alla catastrofe incipiente.
L’impiego più famoso di questo protocollo d’avviso divenne tristemente famoso in occasione della più recente apocalisse generazionale del paese, il terremoto e maremoto del Tōhoku del 2011, che a causa di una magnitudine impressionate di 9.0, colpì fatalmente fasce di popolazione superiori di una volta e mezzo rispetto all’evento di 153 anni prima. Come più volte dimostrato durante le esercitazioni, e in occasione di almeno un paio di falsi allarmi, un numero di almeno sette addetti specializzati del JMA (Servizio meteorologico giapponese) rilevarono sui loro schermi presso la sedie tokyoita la presenza di un’oscillazione preoccupante, come registrato dalle centinaia di sismografi dislocati attraverso il paese e nelle isole limitrofe in mezzo al Pacifico Settentrionale. In quel preciso momento, raggiunto urgentemente il consenso, premettero il pulsante capace d’inviare un segnale ai satelliti in orbita geostazionaria della serie SUPERBIRD, dai quali avrebbe raggiunto i recipienti pre-determinati. Ovvero, nell’ordine: le speciali ricetrasmittenti col logo del pesce gatto, nel giro di un secondo al massimo, e stazioni radio, televisive, antenne dei telefoni cellulari e altoparlanti strategicamente dislocati entro 4-20 secondi, una velocità stimata come sufficiente a battere sul tempo la naturale propagazione delle onde del sisma, e sopratutto, quelle ancor più pericolose del mare stesso. E benché da un punto di vista tecnico, quella volta, tutto abbia funzionato per il meglio (si stima che molte vite furono salvate grazie all’allerta) non mancò tra i commentatori dell’episodio un serpeggiante scontento. Dovuto al modo stesso in cui i vari commentatori televisivi, trasformati loro malgrado in dei potenziali eroi, trasmisero il messaggio alla popolazione…
Gli ubiqui funghi di cemento che dovevano proteggere l’Albania
L’oggetto strisciante non identificato avanzava accanto alla rocciosa spiaggia dell’Adriatico, un metro alla volta, con un suono stridente di superfici che strofinano l’un l’altra. Un piccolo capannello di persone, provenienti in parte dalla vicina città di Tirana, osservavano con interesse, mentre il simbolo di un defunto regime stava per abbandonare il luogo che gli era appartenuto da almeno un paio di generazioni. Quindi, come per un segnale percepito all’unisono, gli sguardi si spostarono verso l’agente di un simile complesso spostamento: un carro armato Type 59 preso in prestito dalla Cina, la cupola emisferica contrassegnata dalla familiare stella rossa, un lungo cavo di traino legato al suo carico da un alto numero di tonnellate. Lasciata la strada asfaltata, il mostro meccanico s’inoltra sulla sabbia, facendo affidamento sulla notevole capacità di trazione dei suoi cingoli corazzati. Con un’abile manovra del pilota, quindi, si ferma, gira su se stesso e torna indietro. Piuttosto che continuare a tirare l’oggetto prefabbricato, ora lo sta spingendo. Avanti, e innanzi, e fino alla scogliera, dove procedendo nell’operazione in modo lento e inesorabile, scarica l’oggetto oltre il bordo della Nazione. Il piccolo edificio resta in bilico per meno di un secondo, quindi in un attimo si capovolge. Cappello ormai inutile al suo proprietario, precipita verso le onde e con un tonfo sordo, si aggiunge alla collezione derelitta sottratta allo sguardo appassionato degli ultimi nazionalisti albanesi. Era il 2009. Missione finalmente compiuta: questa la zona litorale di Golem, fatta eccezione per alcuni casi storicamente rilevanti , sembrava essere del tutto de-bunkerizzata.
Chiunque abbia visitato, per interesse personale o impegni lavorativi, il paese che si trova al di là del tratto di mare condiviso con la Puglia, li conosce in qualche maniera. Forse già a partire dal negozio di souvenir dell’aeroporto, dove modellini adibiti all’uso di portapenne, posacenere o soprammobili vengono scherzosamente venduti ai turisti, accompagnati da scritte sulla falsariga di “Benvenuti nella terra dei bunker. Pensavamo che non poteste comprarne uno vero”. Ma lo strano problema edilizio di questo paese dal potenziale economico limitato, oggi, costituisce una tangibile nonché costante presenza nelle sue campagne, in mezzo ai campi coltivati, nelle città. Praticamente tutti qui, da bambini o adolescenti, ricordano di aver giocato attorno e all’interno di questi piccoli edifici a forma di cupola, capaci di contenere al massimo tre o quattro soldati armati di fucile o mitragliatrice. Gli agricoltori hanno dovuto manovrare i loro trattori attorno agli ostacoli del tutto inamovibili, mentre i tecnici urbanistici avevano costruito i nuovi edifici e strade seguendo la disposizione a raggiera dei baluardi ormai abbandonati. Con una quantità stimata di almeno 170.000 esemplari (il progetto iniziale ne prevedeva 700.000) l’improbabile sistema di fortificazione avrebbe dovuto, nell’idea del loro committente, costituire la prima ed ultima linea di difesa contro l’imminente invasione dei molti nemici del suo paese, che sarebbe stato protetto secondo la dottrina ipotizzata per la prima volta da Mao Zedong, dalla sua risorsa più preziosa e insostituibile: il popolo stesso.
Non che i suoi discendenti, o quelli degli altri paesi del cosiddetto Blocco Orientale, avrebbero mosso un dito per proteggere il regime quarantennale dell’incontrastato Enver Hoxha, l’ex-partigiano, ex-venditore di libri, perpetuo capo del partito comunista albanese, che dopo aver assunto il potere a seguito della seconda guerra mondiale, si era pubblicamente dichiarato l’ultimo praticante della vera dottrina socialista, rifiutando di allinearsi con qualsiasi coalizione esistente, nella paranoica convinzione che più o meno tutti, nel vasto mondo, avrebbero fatto di tutto pur di controllare la fertile terra dei suoi genitori. Inviso alla Jugoslavia di Tito, successivamente alla loro rottura con Stalin del 1948 e diventato nemico dell’Unione Sovietica stessa a partire dal 1960, a seguito del famoso discorso di Nikita Chruščëv al ventesimo congresso del suo partito, l’amato “zio” Hoxha era convinto che ogni tipo di convivenza pacifica sarebbe stata impossibile, per il semplice fatto che “Fino ad oggi nessun movimento del proletariato è mai riuscito a prendere il potere senza copiosi spargimenti di sangue.” E fu più o meno allora, circondato dall’elite dei suoi sicofanti nell’opulenta fortezza del quartiere Blloku a Tirana, protetto dall’elite della polizia segreta Sigurimi, qualcosa d’inusitato scattò nella mente del potente dittatore, convincendolo istantaneamente che soltanto coloro che aveva protetto, nutrito e guidato fino ad allora, potessero ricevere il sacro mandato di proteggere la sua persona e con essa, l’insostituibile status quo. Dunque in assenza di un vero e proprio esercito coordinato, tutti coloro che sarebbero stati in grado di tenere in mano un fucile al momento dell’inevitabile invasione l’avrebbe fatto, potendo contare per la prima volta su una risorsa priva di precedenti: fortificazioni sufficienti per uno ogni quattro abitanti, capaci di contrastare col ferro e il cemento l’imminente avanzata dell’odiato nemico, indipendentemente dalla sua nazionalità.