Cambiarsi la vita dormendo in un uovo

Ecocapsule

Una casa non deve necessariamente essere dotata di due bagni, un salotto, tre camere da letto; non deve avere dodici finestre, quattro armadi, un grande tavolo da pranzo. Considera: una persona è un essere vivente che misura in media 1,80 m di altezza e circa mezzo di larghezza, se s’intende come tale lo spazio necessario per la luce netta di una porta. Entità che, salvo rarissime eccezioni, trascorre una buona metà della propria vita sdraiata in orizzontale, intenta in quell’imprescindibile attività fisiologica che è il dormire. Mentre per un approssimativo 75% del tempo residuo da ciò e il lavoro, benché in una percentuale variabile in base all’individuo, siede perfettamente immobile di fronte ad uno schermo, sia questo televisivo, del computer oppure della mente, creato grazie all’immaginazione ed un buon libro. Verrebbe da chiedersi, allora se, per chi vive da solo (o al massimo, fa parte di una coppia assai affiatata) e non ha in progetto di aggiungere ulteriori membri al proprio nucleo familiare, non fosse ipoteticamente il caso di ritornare alla forma abitativa primordiale, quella che si trova, assai letteralmente, alla base ed all’origine di buona parte della vita sulla Terra. Un uovo, coccodé. Un uovo, perché no? Ma che sia costruito con i crismi più moderni, al fine di garantire un’esperienza abitativa che si possa definire propriamente uovo-osa, ovverosia fornita di quegli specifici vantaggi che appartengono al piccolo di uccello, di rettile o di pesce, per lo meno fino al momento traumatico della venuta nel grigio e gravoso mondo. Incorporando, dunque, tutto il necessario per sopravvivere in totale autosufficienza, custodito dietro un guscio che potrà anche essere sottile, ma che assiste perfettamente nella logica di frapporre una parete tra chi deve riposare Vs. tutto quanto il resto. Incorporando, proprio in conseguenza di ciò, il concetto fondamentale alla base di una qualunque vera Casa.
Si chiama Ecocapsule, ed è stata teorizzata, progettata e infine gloriosamente costruita nel corso dell’anno 2015 appena concluso dai capaci membri di una startup slovacca, la Nice Architects di Bratislava. Ed è presto chiaro, dal materiale di supporto e il breve spezzone pubblicato presso il canale aziendale di YouTube, quale sia il target elettivo di un simile prodotto, presentato come una meraviglia della tecnica applicata ad un concetto antico quanto il mondo urbano: vivere off-the-grid, come dicono gli americani, o in parole povere, scollegati dalla triade dei servizi ormai ritenuti essenziali di acqua, luce e gas. Senza privarsi, tuttavia, di quelle comodità che noi associamo ormai da tempo, a torto o a ragione, al pagamento delle conseguenti bollette, con cadenza ritmica ed inesorabile; perché i contesti situazionali cambiano, per non parlare di ciò che può essere assemblato in una fabbrica con tolleranze valide allo scopo, e con essi dovrebbe mutare la nostra capacità di vivere in determinati spazi, chiari e definiti, senza dipendere da spropositate macchine che bruciano risorse tra le fiamme della metamorfosi & disgregazione. Ecosostenibilità significa, al giorno d’oggi, soprattutto risparmiare. E non soltanto il vil denaro ma la stessa impronta carbonifera lasciata da coloro che s’industriano per dare luogo ad uno stile di vita il quale, nonostante le apparenze di prosperità, sta ormai andando incontro all’autodistruzione pressoché completa. Così trovando una via attinente al tema della pratica modernità, senza scendere a patti con le implicazioni più gravose ed incipienti di una simile esistenza. E questa mini-casa, senza ombra di dubbio, incorpora alcune soluzioni che potrebbero considerarsi l’ideale a questo scopo;

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Aeroplani come spazi abitativi: l’ultima frontiera del volo

747 Wing house

È strano notare come il senso di responsabilità che dovrebbe condurre ad un pianeta più pulito, e dunque un futuro migliore, tenda a concentrare l’attenzione collettiva verso i dettagli e le minuzie più insignificanti, trascurando ciò che avrebbe un vero impatto sul presente. Sarebbe certamente difficile giustificare il gesto di buttare carte o confezioni di caramelle per la strada, mentre appare molto più logico, persino conveniente, abbattere un edificio pienamente funzionale, per spazio ad un progetto d’espansione urbana. Eppure non c’è nulla che conduca a conseguenze maggiormente durature sull’ambiente, tra i diversi campi operativi della società moderna, che la letterale distruzione di un qualcosa fatto e finito, con lo scopo imperfetto di recuperarne i materiali. Quando in effetti gli utilizzatori umani di una tale cosa, nel futuro prossimo o remoto, non saranno nulla, tranne che adattabili; sopratutto e come loro prerogativa, naturalmente propensi ad apprezzare il gesto non del tutto allineato, assieme a ciò che ne deriva sul finale. Perché non è forse questo, lo scopo dell’architettura, come forma d’arte? Creare un filo ininterrotto, a partire dal mondo degli sterili calcoli matematici e delle ragioni della convenienza, che si estenda con slancio fino al pregio di un qualcosa che sia, innegabilmente, concettualmente significativo.
Un esempio? Si trova nel presente spezzone della CBS, realizzato per cantare le lodi di un particolare punto di riferimento statunitense. Questa è la 747 Wing House, costruita dall’architetto David Randall Hertz sui colli di Ventura County, ad alcuni chilometri da Malibu. Una casa edificata sul terreno che un tempo era stato occupato dalla residenza del famoso scenografo di Hollywood Tony Duquette, finché uno dei molti incendi boschivi dell’arida Costa Ovest non l’aveva incenerita, assieme ai preziosi ricordi cinematografici integrati nella sua struttura. Ma in alcun modo, i suoi sogni e la visione originaria, di una residenza costruita a partire da un qualcosa di recuperato, splendido ed insolito, proprio perché concepito in origine con finalità speciali. C’è una differenza fondamentale, tuttavia, che aleggia in quel nome di chiara provenienza aeronautica, a cui corrisponde una realtà comunque sorprendente: i due piani della nuova struttura, di proprietà di una signora indubbiamente facoltosa dal nome di Francie Rehwald, fanno sfoggio di altrettanti tetti ricavati, rispettivamente, dall’ala sinistra e quella destra di un jet di linea Boeing 747-100, acquistato, fatto a pezzi e trasportato nel suo luogo finale dall’aeroporto di Victorville, uno dei maggiori cimiteri per aeromobili della California, sito a ben 200 Km di distanza. Altri componenti dell’aereo, quindi, sono stati integrati all’interno di varie strutture e dependance. Il problema logistico di far muovere questi complessivi 60 metri di alluminio difficilmente divisibile per un tratto tanto significativo, vi sarà facile immaginarlo, non può essere stato da poco. E le notizie associate al progetto, portato gloriosamente a termine nel 2011, parlano in effetti di una spesa di “appena” 30.000 dollari per l’acquisto dell’aereo al prezzo da rottame, inevitabilmente seguìta dalla necessità di chiudere al traffico intere sezioni delle strade statali conducenti all’obiettivo, per favorire l’impiego di grossi camion e addirittura, per l’ultimo tratto accidentato di avvicinamento al terreno della proprietà, di un elicottero da trasporto, il cui costo operativo stimato dev’esserci aggirato sui 18.000 dollari l’ora. Il senso comune, dunque, farebbe pensare ad un approccio edilizio di assoluta decadenza, in cui il vezzo apparente illogico di avere una casa con le ali ha portato ad una spesa ingente quanto poco significativa. Ed è indubbio che esistano, questo va da se, soluzioni più economiche per proteggere la sommità di un edificio dalla pioggia. Ma farlo con stile, rispondendo all’esigenza architettonica di un ampio spazio, curvilineo e aggraziato come da richiesta della committente, ma che fosse al tempo stesso strutturalmente leggiadro, con la finalità di aprirsi verso i colli e il distante Oceano Pacifico? Il sito di Hertz parla di come la costruzione di un tetto simile, mediante metodi convenzionali, avrebbe richiesto una spesa probabilmente molto superiore. Per non parlare, poi, dell’impatto ambientale di una simile lavorazione realizzata a partire da zero. Ma che dire di chi invece di accontentarsi delle ali, preferirebbe vivere dentro l’intero aereo? Il caso vuole che anche questo caso si sia già verificato, in almeno altri due episodi edilizi, neanche a dirlo, anch’essi americani.

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Come costruire una vera iglù

Igloo build

Più che una semplice abitazione, lo stereotipo che nasce da una soluzione architettonica tutt’altro che scontata e fatta corrispondere, nel senso comune, a uno stile di vita rustico e rinunciatario, privo delle più basilari risorse o pratiche comodità. Quando in effetti la tipica abitazione delle popolazioni Inuit del nord del Canada, particolarmente utilizzata nell’Artico centrale e presso la regione di Thule della gigantesca isola di Greenland, è un concentrato straordinario di sapienza ingegneristica pratica, precisione costruttiva e mistica sapienza proveniente dagli spiriti degli antenati. E per rendersene conto, in questo preciso istante, non c’è niente di meglio che guardare il presente video prodotto nel 1949 dall’ente nazionale cinematografico canadese, in cui viene mostrata l’opera di due nativi di ritorno da un’escursione di ricerca del cibo tra le nevi eterne, che prima di dirigersi verso territori più accoglienti decidono di fare sosta presto un punto di scambio, a poca distanza da alcuni edifici costruiti con i metodi convenzionali. “I nativi ammirano ed invidiano le costruzioni dell’uomo bianco.” Si preoccupa di specificare la voce fuori campo del narratore Doug Wilkinson, alimentando una narrativa più che largamente data per scontata all’epoca, come del resto per alcuni lo è anche adesso. Quindi prosegue, con tono enfatico e convinto: “Tuttavia, essi sono anche nomadi e amano spostarsi. Se la caccia si rivela insoddisfacente, quando la casa appare vecchia e consunta…Allora non esiteranno a costruirne una completamente nuova.” E a giudicare dall’efficienza e rapidità con cui i protagonisti giungono al prodotto completo, nel giro di appena un’ora e mezza, non è difficile credere a una simile affermazione: tra di noi, c’è chi impiega un tempo superiore per montare la sua tenda!
Dopo un breve scorcio del prodotto completo, offerto dalla regia con finalità di dichiarazione d’intenti, si passa subito a uno schema disegnato, che rappresenta l’ordine in cui vengono effettivamente posti i blocchi l’uno sopra l’altro, che diversamente da quanto si potrebbe forse pesare, segue lo schema specifico di una spirale inclinata. Le pareti dell’iglù, in effetti, non derivano da una serie di strati sovrapposti l’uno all’altro come dei mattoni, ma da un’unica rampa che ritorna su se stessa, a partire da un prima serie ascendente di elementi, appositamente tagliati tramite l’impiego di un grosso coltello in avorio di tricheco (o più semplice acciaio) incidentalmente, l’unico attrezzo necessario per la costruzione. Questa linea edificata girerà normalmente in senso orario, ma talvolta all’opposto, nel caso in cui il suo costruttore sia in effetti mancino. Wilkinson a questo punto spiega come possano esistere diversi tipi di iglù, sostanzialmente suddivisi in base all’utilizzo ritenuto più probabile: un rifugio temporaneo, come questo, potrà vedere l’impiego di blocchi tagliati in modo relativamente impreciso, al fine di velocizzare l’implementazione. Mentre per un’abitazione familiare, facente parte di un villaggio che dovrà restare abitato per l’intero inverno, ciascuno di essi viene ponderato molto a lungo, misurato e qualche volta accantonato, onde ricercare una maggiore perfezione. In entrambi i casi, tuttavia, sarà essenziale scegliere il punto giusto per dare l’inizio all’impresa, soprattutto visto come il materiale usato per la struttura sia normalmente proveniente dal suo stesso spazio interno, che proprio in funzione di ciò si troverà più in basso del livello del terreno. Ciò è considerato particolarmente desiderabile, perché permette, assicurandosi che rimanga una zona per dormire sopraelevata, di intrappolare tutto il calore all’interno dell’abitazione, rendendola in massima parte ciò che veramente è: un luogo vivibile nel territorio maggiormente inospitale del pianeta. Da -40° a fino a +15 gradi Celsius, grazie a uno strato di appena una trentina di cm di neve compattata, divisa dall’esterno grazie ad una o più pelli d’animali. Non è incredibile? Ed a questo punto potreste chiedervi, alquanto giustamente, che cosa in effetti garantisca una simile escursione termica. La risposta, naturalmente, può essere soltanto una: il fuoco. Ma persino questo semplice elemento, affinché possa esistere in un luogo simile, necessità di particolari approcci alla necessità di fondo…

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A caccia di fantasmi nella vecchia villa vittoriana

Creepy Mansion

Un tetto aguzzo in mezzo alla campagna, con finestre alle mansarde ed un comignolo merlato. Se c’è un luogo che possa ricordare maggiormente il tipico ambiente di avventure spaventose, come il fantastico ed orribile viaggio del primo Resident Evil, o l’iconica bicocca degli Addams, non saprei descriverlo così, su due piedi. L’esplorazione urbana è quella pratica, ultimamente sempre più di moda, per cui si cerca su Internet o dalle conoscenze sul campo un luogo derelitto e in qualche modo decaduto. Edifici abbandonati, luoghi pubblici dismessi, abitazioni rovinate dall’effetto degli ambienti atmosferici o il semplice passar del tempo. Per poi varcare quella soglia, telecamera alla mano, e documentarne il contenuto a beneficio di…Chicchessia. Attività questa, talvolta pericolosa e quasi sempre abusiva, che conduce a un ricco ventaglio di scoperte, sul chi fossero i nostri antenati più recenti, come vivessero, qual’erano le loro preferenze in materia di tappezzeria. C’è ben poco che la muffa, o qualche morso di topo, possano nascondere a chi ha voglia di creare un corpus documentaristico sulle risorse storiche di un luogo. O a tutti gli altri che, come parrebbe qui configurarsi l’opera del noto filmmaker Dan Bell, desiderano più che altro dare il proprio contributo a un’aura di leggenda latente, che permea tali e tante trasandate mura. Già, metterci paura. Una missione non facile, considerato il modo in cui veniamo bombardati quotidianamente da racconti horror nei formati più diversi, oltre al taglio dei moderni reality ed altri programmi, inclusi taluni telegiornali. Preoccupati che “non cogliessimo le implicazioni del messaggio” i produttori mediatici più diversi hanno ormai sviluppato metodi per trasferire i sentimenti lungo le onde elettromagnetiche, inducendoci all’immedesimazione in personaggi che dovrebbero rappresentare le nostre pulsioni maggiormente basiche, scevre di cognizioni precedentemente apprese. Così, il terrore che si riceve a distanza, che sia reale o meno, non è mai silenzioso né interiorizzato, ma fatto di una cascata di descrizioni, parole enfatiche, improbabili montature. È andato perso il gusto della sobrietà.
Ed è in ciò che colpisce, soprattutto, il nuovo video di questo YouTuber da quasi 20.000 sottoscrizioni in continua crescita, che pur scegliendo la strada del sensazionalismo e qualche forzato espediente narrativo, riesce a creare 15 minuti di scoperte preoccupanti, nel contesto di un viaggio esplorativo tra i residui di un’epoca ormai (per fortuna?) trascorsa. Di sicuro, molto del fascino della sequenza deriva dalla location scelta per l’operazione, lasciata rigorosamente segreta, come si confà nell’opera di chi, come lui, s’introduce in luoghi non propriamente aperti al pubblico. La grande casa, perché di ciò si tratta in questo caso, viene descritta dal protagonista/cameraman come “Un ex-manicomio per bambini affittato ad una qualche altra organizzazione negli anni ’90, poi abbandonato almeno a partire dal 2000”. E inevitabilmente viene posta l’enfasi su quel primo capitolo della sua storia, descritta unicamente in questi sommi capi, benché nel corso dell’intero sopralluogo non vengano mostrati altri oggetti o suppellettili rimasti da quel triste impiego, tranne che una singola sedia con cinghie arancioni. Mentre la qualità delle rifiniture architettoniche, la grande scala in legno, i camini decorati con maioliche e le variopinte vetrate fanno piuttosto pensare ad un luogo molto amato, come la seconda casa di una famiglia dalle alte disponibilità economiche, soltanto poi adibita a un qualche tipo di uso pubblico, capitolo comunque dimostrato dalla presenza di segnaletica di divieto e indicazioni varie a parete. La scritta sopra la porta d’ingresso principale, in particolare, che recita in lettere dallo stile latino: “God’s Providence Is Mine Inheritance” (La Divina Provvidenza è la mia eredità) era la firma dell’architetto londinese Ewan Christian (1814–95) che non fu mai operativo negli Stati Uniti, ma la cui residenza personale di Hampstead, costruita nel 1882 e nota con il nome di Thwaitehead, presentava più di un punto di contatto con la misteriosa villa qui rappresentata. L’architettura Vittoriana, dopo tutto, ancora prima che uno stile attentamente definita fu una moda, portata in auge dalla crescente disponibilità ed economia di certi materiali e metodi, un tempo appannaggio esclusivo di chi avesse pure 20 o 30 servitori. Nel Nuovo Continente, in particolare, se ne diffuse tra il 1870 e il 1910 una versione più pragmatica, definita Folk Victorian, in cui le torrette erano meno pronunciate, gli abbaìni non del tutto esuberanti e il complessivo equilibrio delle forme, concepito per assomigliare meno ad un mini-castello o cattedrale. Ciononostante, qui permangono determinati elementi che avvicinano la struttura alla variante più estrema dello stile Queen Anne, influenzato dal Barocco rivisitato dell’architetto Richard Norman Shaw (1837–1901). Ma quanti luoghi magnifici da conoscere, si nascondono dietro una facciata di altre epoche, sporca e cadente? E allo stesso modo, innumerevoli sono i video che vanno perduti sul web, per la mancanza di un titolo o uno stile dialettico in grado di suscitare l’interesse collettivo. Ritorniamo, dunque, alla questione delle strane presenze…

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