L’unico gioiello che può diventare una falena

Jewel Catie

Strisciando delicatamente sulla foglia, questo bruco non ha i piedi. Si affida piuttosto ad un sistema di locomozione basato su una serie di contrazioni ritmiche del suo addome, naturalmente in grado di aderire ad ogni superficie. Per agevolare il compito di spingersi innanzi, l’insetto secerne addirittura un fine muco scivoloso, non dissimile da quello di una lumaca, alla quale viene spesso paragonato. Ma a colpire l’occhio dello spettatore non è tanto questa sua caratteristica, quanto l’aspetto generale della piccola creatura: semi-trasparente e bitorzoluta, con la capacità di riflettere la luce in molte direzioni, come la categoria di oggetti da cui prende il suo nome comune. Bruco gioiello, usano chiamarlo. E osservando di sfuggita il qui presente video, credo vi sarà facile comprenderne il motivo. Ma non sarebbe a questo punto lecito chiedersi da dove viene costui…Verso quale lido, in effetti, se ne va.
Tutti i lepidotteri sono monofiletici, ovvero discendono da un antenato comune. Ed è per questo che l’umana distinzione tra farfalla e falena, benché netta e imprescindibile nel senso comune, deriva in realtà da una serie di osservazioni coincidenti tra di loro solo in parte, che per di più sono spesso tutt’altro che assolute e qualche volta, persino, soggettive. Punto primo: l’ora del giorno. Tutte le farfalle amano volarsene in giro durante la mattina e il pomeriggio, mentre le loro controparti preferiscono la luce tenue della Luna? Non proprio, esistono eccezioni. Punto secondo: la struttura delle ali. La tipica falena presenta un filamento che accoppia le due ali di ciascun lato (in totale, tutti gli appartenenti all’ordine ne hanno quattro) per assisterle nel battito sincronizzato. Molte farfalle invece no. Salvo eccezioni. Poi, la metamorfosi: la falena forma un bozzolo di seta, ricoprendosi con tale sostanza appiccicosa per proteggersi nel corso del periodo più delicato della propria vita. La farfalla, guarda caso, la impiega solamente per assicurarsi ad una foglia o ramo, poco prima di diventare crisalide, una situazione statica in cui soltanto una dura e spessa pelle dovrà frapporsi tra gli agenti atmosferici ed il brodo delle cellule, che andando incontro alla liquefazione si riformeranno nella sua versione fisica capace grado di volare. Ma di nuovo, ci sono falene che diventano crisalidi, e farfalle, invece, che fanno l’opposto. Lo stesso vale per le antenne ed il resto del corpo, ali escluse: le falene sono spesse e le farfalle sottili, ma non sempre.
Il che ci lascia un singolo tratto distintivo che possa dirsi non soggetto a contraddizione, per il semplice fatto che rientra nel reame dell’estetica, in cui la mente comanda ed è possibile scegliere di aver ragione. Se soltanto lo desideriamo, per così dire, sufficientemente a fondo: le farfalle, da un punto di vista meramente tradizionale, ci appaiono come più “belle”. L’insieme delle caratteristiche citate, tra cui soprattutto la predilezione a spiccare il volo durante il giorno, puntando su un tipo di camuffamento che confonda la propria sagoma tra i fiori e la vegetazione, porta le farfalle ad avere una livrea straordinariamente variopinta e geometricamente imprevedibile, mentre la maggior parte delle loro cugine che escono di sera, per passare inosservate agli uccelli, devono limitarsi a una livrea molto scura e/o uniforme. Sia chiaro che un simile dato, come del resto tutti i precedenti citati, non è per niente assoluto. Benché si presti ad utili generalizzazioni. Ed un’osservazione: se le sfarfallanti creature della notte sono davvero costrette ad essere marroni, nere e poco altro, che dire allora della loro forma larvale, quel duraturo stadio della vita in cui esistono in forma di striscianti folìvori e devono affrontare un’ampia serie di predatori dalle propensioni totalmente differenti, quali formiche, ragni ed altri agili camminatori… I cui occhi difficilmente potrebbero tralasciare ciò che giace semi-immobile di fronte a loro. Siamo dunque sicuri che non sarebbe meglio, per loro, adottare una diversa strategia di difesa? Ebbene, la risposta delle Dalceridae, una famiglia tutt’altro che numerosa di falene (appena 84 specie all’attivo) appartenenti all’ecozona neartica (America settentrionale e centrale) sembrerebbe configurarsi come un roboante, catartico ed altisonante: “Hell Yeah!”

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I bruchi carnivori, pericolosi predatori delle Hawaii

Eupithecia

Per un paragrafo, sarò la vespa parassita. Bzz, piacere mio: “Chrysidoidea, per gli amici, Apocrita” un lavorìo pressante, un compito davvero faticoso. In volo. È una vita difficile, quella di colei che deve far la predatrice. Occasionale. Alla ricerca di… Voi bruchi non avete idea. Perché siete soltanto lo stato larvale di quell’altra classe di creature, dalle ali grandi e variopinte, sempre allegre sopra il fiore. Amatissime…Farfalle o falene, bah. Cos’hanno fatto quelle lì, per tutti noi? Certo, qualche volta, impollinano; ma se fanno nascere una pianta che gli sopravviva, a dir tanto, è unicamente dopo che hanno consumato una decina, un centinaio di foglie in ottima salute. Così, Zzb. Vendetta. A beneficio dell’ambiente. Per il popolo degli imenotteri, che ben conoscono l’impegno quotidiano. Punizione per colui che striscia consumando e non produce: gli venga dunque inflitta, l’incubazione. È una splendida prassi operativa della nostra ronzante e saggia e furba genìa: perché deporre uova dentro a un nido duramente costruito e fragile come la carta, o ancora peggio, nel substrato marcescente dell’ombroso sottobosco? Dove abbondano, di certo, le sostanze nutritive, ma con esse, pesci e cimici, scorpioni d’acqua…Che non chiederebbero null’altro dall’inizio di giornata, che far colazione con i figli della Chrysidoidea. Tanto meglio, se possibile, trovare l’equivalente mobile di una divina cassaforte, l’inerme bruco che striscia, zampettante, per corrodere abusivamente la vegetazione. Eccolo, eccolo. Ne vedo uno. Bzb. Già mi avvicino lieve, posando le sottili zampe sulla sua verde dimora. Quasi non lo noti: ha il colore uguale a quello della pianta, probabilmente per non essere visto, da me. Ingenuo! Sono secoli, oramai, che noi vespe abbiamo sviluppato dei migliori organi di senso, fino al punto di essere, per qualche tempo almeno, in vantaggio sulla concorrenza. Dunque, aprile. Tempo di figliare. Già ho preso attentamente le misure. La vittima si è voltata dall’altra parte, restando quasi totalmente immota. Aspetto qualche secondo, per avere la conferma che non sia già morta; quella si, che sarebbe una pessima sorpresa, per l’affamata nuova generazione. Ma la bestia è ancora viva. Estraggo e preparo l’ovopositore, già grondante del simbionte polydnavirus, fiero alleato biologico che bloccherà il sistema immunitario del lepidottero, rendendo la sua carne pronta alla consumazione. Ora, nell’avvicinarmi quattamente, qualche vibrazione è inevitabile. Ed io già so che…Ecco, doveva succedere! Il bruco si è accorto di me. Proprio adesso, in equilibrio sul suo patetico gruppetto di zampe posteriori, sta cercando la minaccia percepita, oscillando lievemente a destra, poi a sinistra. Mmmh. Tanto, che può fare… Lanciarsi verso il suolo? Io lo seguirò. Mordermi con le sue minuscole mascelle? Io lo pungerò. E poi che potrebbe fare con quelle minuscole ganasce, appena sufficienti a consumare la materia vegetale? Non scherziamo. Una altro passo, le ali che sui tendono pronte a fuggire. “Ci vorrà solo un’attimo, non farà male (per i prossimi due-tre giorni, ah ah, poi morirai in maniera orribile…)”. Oooh, ma guarda. Oooh, il bruchino si è… Voltato? Guardalo, che spalanca le sei zampe anteriori, in un probabile tentativo di spaventare, spaventare me. Ma non farmi ridere. Però, che strano. Al termine di ciascun arto, la vittima selezionata sembra presentare rostri acuminati, come altrettanti affilatissimi coltelli. Chiaramente, dev’essere un’illusione ottica. E poi sembra…Sembra felice? Lo scruto molto attentamente, quindi quel…quel…Parte all’improvviso. Prima lo vedevo, adesso non lo vedo più. Morta, sono. Z.
Hawaii. A circa 4.000 chilometri dalla maggiore terra emersa, sulle isole boscose del Pacifico, nascono e muoiono creature totalmente inusuali. Trascinate dai venti e dalle correnti marittime, assieme a quei detriti che per qualche generazione avevano chiamato casa, gli insetti approdano, poi scoprono il diverso senso della vita. Là, dove l’unica costante è l’uomo, e non esistono, ad esempio, mantidi religiose. E i ragni, benché presenti, tendono a restare nella tela, senza andare in cerca di preziosi pasti tra le piante abitative. Creando la sussistenza, intramontabile e continuativa, di quella che potrebbe definirsi la testuale “nicchia evolutiva”. Tutte quelle mosche, vespe, grilli, scarafaggi e falene, che svolazzano senza preoccupazioni al mondo! Tanto cibo potenziale, troppo, per lasciarlo lì a sfuggire al suo destino. E chi poteva rispondere a una simile chiamata se non lei, la larva tipica degli appartenenti al genere Eupithecia, tipici chirotteri notturni nello stadio adulto, che tra l’altro sono attestati in moltissimi paesi del mondo. Ma che qui, nel mezzo dell’assoluto nulla isolano, indisturbati e liberi di crescere nei loro presupposti ed abitudini, hanno appreso un metodo per avvantaggiarsi in mezzo al flusso impietoso dell’ecologia. Questo metodo: il mangiare carne. È stato calcolato che le 19 specie di larve assuefatte a un simile stile di vita nel territorio hawaiano, in media, raggiungano lo stadio di pupa tre volte più velocemente dei loro cugini continentali. E che al momento di farlo, i bruchi siano notevolmente più grossi, in salute e desiderosi di dispiegare le ali dell’età adulta. Persino una crudele vespa, di fronte a tutto ciò, non potrebbe far altro che emettere un ronzio d’ammirazione.

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Il pesciolino dalla bocca a serramanico

Sarcastic Fringehead

Un’infinita serie di disegni tutti uguali e pressapoco azzurri, ciascuno con tre pinne di profilo, un occhio tondo laterale, qualche accenno di scaglia ed una coda idrodinamica, l’arto di un fondamentale movimento. Tranne gli anticonformisti. Va intesa come una continua fuga, questa figura composita, di pesci tutti uguali e gradualmente maggiorati nelle dimensioni. Sarebbe a dire, la catena alimentare degli abissi. Gli uccelli rapaci mangiano conigli. Le faine rubano le uova. Ci sono gli erbivori di terra, creature benevole e incruente. Ma per un pesce della nostra fantasia, l’unico cibo può essere un altro pinnuto, praticamente uguale a lui. Soltanto: un po’ più piccolo. Nel profondo, per campare, devi masticare (i tuoi simili). La vita diventa, dunque, una continua lotta di mascelle contrapposte. O della loro semplice apparenza, un’illusione! Come tra di noi, civili ma pur sempre predatori umani, che una volta messi alle strette, dalle situazioni o le persone troppo formidabili, ricorriamo ad armi sofisticate, che non richiedono preparazione fisica, ma psicologica. Parole dure: sto parlando di una crudele forma di ironia, il diffusissimo sarcasmo. Mettere qualcuno alla berlina, non in funzione di quello che realmente è, ma esasperando i suoi difetti, nel dialogo, dando per scontate cose niente affatto tali. C’è un pesce che sa farlo pure lui, a suo modo. Gli riesce molto bene. Eccolo qui. È tremendo. È bellissimo.
Il sarcastic fringehead, o “pesce sarcastico con la cresta sulla testa”, passa le sue giornate facendo l’inquilino di magnifiche conchiglie. Se l’avete mai visto, eravate probabilmente nel tiepido Pacifico a latitudini tropicali, presso la penisola della Baja California e più in particolare, se vogliamo, in corrispondenza delle otto isole di Santa Barbara, patria, oltre che di molte basi militari, di una delle biosfere marine più ricche del pianeta. Creature fluttuanti e ballerine variopinte, simili a farfalle degli abissi. Meduse terribili e diafane, in grado di lasciar passare i raggi della luna. Paguri laboriosi e sapienti, le cui case mobili, a un primo sguardo, ricordano le gemme luminose di leggende ormai dimenticate. E poi c’è lui: 30 cm ca. di draghetto sghembo. Quasi del tutto privo di scaglie, vi sembrerà piuttosto bitorzoluto, con la sua pelle verde petrolio e le labbra vagamente rossicce, scolorite.  Gli occhi bulbosi di una rana, le sopracciglia spinose, la perenne smorfia spazientita.
Il pesce sarcastico dorme semi-nascosto, con la testa che placidamente emerge dal suo guscio trafugato. Qualche volta, pigramente, addenta un bocconcino di passaggio, qualche mollusco ed altre piccole delizie. Finché qualcuno non adocchia la sua amata casa…

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Florilegio di una mantide spinosa

Spiny Flower Mantis

Due milioni di abitanti, eppure, ai miei occhi di disincantato viaggiatore, c’era solamente lei. Conobbi Pseudocreobotra tra le assolate spiagge di Tanzania, presso il quartiere di Kurasini a Dar es Salaam, uno dei principali centri urbani dell’Africa Orientale. Sono questi, luoghi di feroci giustapposizioni: da una parte gli altri grattacieli dell’economia globale, frutto degli investimenti poderosi delle aziende d’Occidente. In cerca di nuovi trampolini verso le inesauribili sorgenti della manodopera dei nostri tempi: la Cina e l’India e… Dall’altra, ostinatamente in controluce, le piccole canoe di legno dei pescatori, che dall’ombra della disumanizzante bestia grigia di cemento, l’irrespirabile città, pindarici decollano verso la penisola azzurra di Kigamboni, percependo alla lontana l’aria limpida delle foreste del Madagascar.
Lei era lì, coraggiosa come un fiore in mezzo ad una strada trafficata. Anzi, ne aveva proprio preso il posto: in cima ad una rametto, posto dietro ad un cartello, sulla banchina del tragitto verso le periferie poco raccomandabili, si dondolava lievemente, assecondando il dolce vento della tarda primavera. Era giovane e spinosa, lunga due centimetri soltanto. Senza occhi sulle ali. Di certo, il fato aveva predeterminato il nostro incontro: neanche una mosca della frutta, con il suo senso dilatato dei secondi, avrebbe mai potuto percepire quel suo sguardo attento, salvandosi dall’abbraccio più definitivo della vita; l’ultimo sarebbe stato, per quell’imenottero sbadato. Ero davvero stanco, quel giorno, forse per l’effetto del jet-lag. O magari solamente senza fiato, a causa della mia tenuta, più inadatta del costume da bagno a Capodanno, vista l’aria tanto equatoriale: il peso della giacca sottobraccio, i calzoni neri e lunghi, la camicia con cravatta nel taschino, ormai rimossa, eppure non dimenticata. Pronta come il calcio di un fucile, da estrarre innanzi ai miei supervisori. Per non parlare di quei piedi chiusi nelle scarpe lucide, praticamente cementate ai miei calcagni, per l’effetto di cinque riunioni, due incontri, una supervisione in fabbrica e la cena con i manager del business district nel più celebrato ristorante giapponese di Kivukoni. Sushi e sashimi: Africa, che calor! Dunque passeggiavo per un tale lungomare, circondato dai turisti e dai locali, cercando svago prima dell’ennesima Giornata. Quando, oibò. All’improvviso si slacciò la scarpa destra. Dapprima, non feci nulla di affrettato. Non è saggio, in tali luoghi sincretistici, fermarsi in mezzo al flusso della folla brulicante. Troppi vivono in un costante stato di fretta, quel senso di anélito spietato. Non si fermano a guardare i fiori. Lentamente, un passo dopo l’altro, raggiunsi un’oasi calma tra la folla, sotto ad un cartello in arabo che sembrava, all’apparenza, proprio come gli altri: “Benvenuti a Mzizima, la Casa della Pace” E sotto a quello, la trovai…

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