Per tutta la sua permissività in termini di forma, dimensioni ed ornamentazione figurativa, il canone visuale del grattacielo continua a prevedere alcune linee guida formalmente immutabili, in maniera indipendente dal contesto urbanistico di provenienza. Che possono essere istintivamente ricondotte, anche senza una preparazione architettonica particolare, alla cognizione universalmente accettata di quello che può essere istintivamente definito il “decoro”, profondamente radicato alla maniera in cui possono esserlo soltanto le leggi non scritte, a fondamento stesso della convivenza civile in alcuni dei più gremiti agglomerati dell’organizzazione sociale presente, passata e futura. Principe tra questi, come possiamo facilmente osservare da un giro nelle metropoli d’Oriente ed Occidente, può essere definito il colore. Che non viene in genere forzato da alcun tipo di piano regolatore, per il semplice fatto che una deviazione dalle scelte più diffusa risulta totalmente inimmaginabile nella maggior parte delle circostanze. Di luoghi come la principale isola facente parte della grande mela, quella massa di scisto inamovibile che notoriamente i coloni acquistarono a poco prezzo dai nativi del Nuovo Mondo, capace di costituire attraverso almeno l’ultimo paio di secoli un letterale banco di prova per le più ambiziose opere abitabili messe in opera dalle successive correnti di coloro che studiano gli spazi, i materiali e tutto ciò che pone in relazione questi due concetti. Architetti come Raymond Hood, diventato celebre “da un giorno all’altro” nel 1925, con il completamento di quella che sarebbe passata alla storia come Tribune Tower di Boston, avendo vinto il concorso dell’appalto grazie a un progetto neo-gotico dall’aria tanto velatamente minacciosa da poter entrare a pieno titolo in un film di Batman, in qualità di quartier generale per l’antagonista di turno. Per trasferirsi coerentemente, dopo un breve periodo sabbatico, nella città di New York ponendosi al servizio del facoltoso ristoratore di origini italiane Placido Mori, per cui fornì un rinnovamento della sua facciata su Bleecker Street, con colonne doriche ed altri elementi preso in prestito dal canone neoclassico, in cambio di vitto e alloggio fino al conseguimento del suo prossimo lavoro. Occasione che si palesò grazie ai contatti intrattenuti con l’allora definita American Radiator Company, pochi anni prima della fusione con la Standard Sanitary per costituire il rinomato produttore di impianti di riscaldamento (oggi non più in affari) dal nome di American Standards, Inc. In un periodo in cui gli affari andavano decisamente bene, al punto di necessitare della costruzione di nuovi capienti uffici completi di showroom in quella che potremmo definire la capitale ufficiosa dell’intera costa orientale statunitense. Fu perciò un’irripetibile incontro d’intenti, capacità e coraggio, a permettere la posa in opera di quello che sarebbe diventato uno dei grattacieli più atipici, e memorabili, del suo intero contesto di appartenenza.
L’American Radiator Building, come fu chiamato fin da subito, sorse quindi a partire dal 1936 in un prestigioso lotto antistante al Bryant Park della zona di Midtown, con un progetto originale di una torre verticale piuttosto stretta per un’altezza di “appena” 23 piani, in posizione arretrata rispetto all’antistante 40° Strada in osservanza alle indicazioni dell’Ordinanza di Risoluzione Urbanistica del 1916. Questo almeno finché all’autore principale, consultandosi con il collega coinvolto per l’importante progetto J. André Fouilhoux, non venne in mente di aggirare le rigide imposizioni del sindaco tramite l’implementazione di una serie di setbacks o punti di restringimento scalare nella forma complessiva dell’edificio, situati rispettivamente al 12°, 17° e 23° piano. Ma l’aggiunta forse più notevole, nonché coraggiosa effettuata in corso d’opera, fu qualcosa di lungamente teorizzato da Hood, come il sovvertimento delle imposizioni cromatiche ai creatori di edifici fino a quel significativo momento…
Ciò che Raymond Hood aveva più volte dichiarato a fondamento stesso della sua dichiarazione di architetto, era che il grattacielo nella sua forma più diffusa assomigliasse sostanzialmente ad un waffle posto in posizione verticale, per la maniera in cui le singole finestre rettangolare, di colore scuro, risaltavano sulla colorazione chiara dei materiali utilizzati per il resto della sua facciata. Il che naturalmente aveva anche motivazioni di mantenimento di una temperatura ottimale nei mesi estivi, benché tale accorgimento non fosse formalmente al centro delle sue preoccupazioni. Come si può facilmente comprendere dalla sua proposta, positivamente valutata fin da subito dai propri committenti, per la realizzazione dell’involucro esterno dell’American Radiator Building utilizzando copiose quantità di granito nero svedese, lucidato fino all’eccellenza e drasticamente diverso da qualsiasi altra soluzione utilizzata nei lotti vicini. Il che avrebbe ricordato, nelle parole spese a sostegno della proposta, quello stesso carbone all’epoca fondamentale in ogni casa, per poter preservare condizioni termiche coerenti all’abitabilità umana. Ma l’ingegno cromatico dell’architetto non si fermava certamente a questo punto, come esemplificato dalla scelta effettuata, nuovamente con il beneplacito dei suoi datori di lavoro, per finestre sormontante da elementi decorativi (spandrel) in terracotta ricoperta da foglia d’oro, una soluzione usata anche per i cornicioni e le torrette adiacenti al pinnacolo del palazzo, esteriormente associabili agli elementi posti sulla sommità di un castello medievale e finalizzati, nell’intento dichiarato del creatore, a ricordare la fiamma viva delle caldaie vendute dalla compagnia. Con un equilibrio delle forme riconducibile nel suo complesso ai canoni dell’Art déco tanto popolare in quegli anni, l’edificio vantava nel frattempo elementi prettamente gotici fino all’estendersi del secondo piano, come l’imponente porta d’ingresso incorniciata da pilastri e le bifore distribuite nell’estendersi del suo perimetro principale, per non parlare dei bassorilievi con statue rappresentanti “emozioni negative” affini al concetto di veri e propri grotesques o mostruosi gargoyle. Questo in osservanza della maniera in cui tali spazi erano deputati, piuttosto che alla funzione di ufficio, a quella di showroom e negozio, dove la gente di New York veniva a scegliere i propri nuovi termosifoni, caldaie o altri utili elementi per il proprio riscaldamento.
La reazione del mondo architettonico alle scelte di Hood furono, come potrete facilmente immaginare, a dir poco contrastanti. Ci fu chi lo chiamò un letterale cambio di paradigma, che avrebbe dovuto e potuto fare scuola negli anni a venire, chi invece una violazione inaccettabile della necessità di conformarsi al corso principale della città circostante. Tanto che ancora mezzo secolo dopo, la Commissione dei Punti di Riferimento di New York (LPC) avrebbe mancato d’inserirlo tra gli edifici d’importanza storica della metropoli, una scelta comunque preferibile per la American Standards per eventuali progetti di rinnovamento o la cambio d’uso dell’imponente lotto acquistato tanti anni prima. Presso il quale nel frattempo, a partire dall’anno 1937, sorgeva un secondo edificio di appena cinque piani, destinato ad ospitare per molti anni aule universitarie dapprima appartenenti all’università privata Katharine Gibbs e in tempi molto più recenti il Guttman Community College, a partire dall’anno 2012. Diverso invece il destino in epoca contemporanea dell’edificio principale, che iniziato il processo che avrebbe portato al fallimento della American Standards nel 2007, venne preventivamente venduto nel 1988 alla giapponese Clio Company, per poi passare più volte di mano fino all’acquisizione da parte dell’uomo d’affari Philip Pilevsky, che vi avrebbe posto all’interno il Bryant Park Hotel, che vi trova posto tutt’ora.
Magnifico, appariscente, ispirato al punto di catturare famosamente l’attenzione della grande pittrice americana Georgia O’Keeffe, che lo ritrasse in un iconico quadro della corrente Precisionista nell’anno 1927, il Radiator Building poteva beneficiare di un altro tratto estetico d’innovazione: la maniera in cui Hood aveva studiato assieme alla Sterling Bronze Company quello che può essere definito come il primo impianto d’illuminazione allo stato dell’arte per un grattacielo, con riflettori collocati ad arte su basi orientabili a più altezze, capaci di mantenere ben visibile ed accattivante la forma del palazzo per l’intero estendersi delle ore notturne. Agendo, sostanzialmente, come una sorta di pubblicità sempre visibile per la compagnia dei termosifoni, con il valore aggiunto del suo aspetto complessivamente riconducibile, nell’opinione soggettiva di alcuni, proprio a tale immancabile implemento domestico nelle abitazioni di ogni luogo abbastanza distante dall’equatore. Forse per una possibile associazione concettuale, ovvero analogia linguistica, con il più famoso e fotografato Flatiron Building al triangolo tra la 23°, la Fifth Avenue e Broadway, effettivamente simile al ferro da stiro che gli ha dato il nome? Possibile, chi può dirlo.
Ciò che conta ad ogni modo, è che c’è stata un’epoca in cui deviare dalle imposizioni del corso principale non richiedeva un curriculum pregresso di architetto blasonato, al pari di un artista moderno capace di irrompere prepotentemente nella percezione del senso comune. Quando chiunque poteva scegliere di sperimentare, incrementando i presupposti di cambiamento nell’evoluzione architettonica presente e futura. A patto di avere, s’intende, fondi sufficienti e il fluido congruo di un’importante idea.