Nessun soccorso: ecco un aereo gonfiabile per sfuggire alla cattura in territorio nemico

Puoi atterrare in via precauzionale in un campo; puoi planare sulla spiaggia, toccare terra senza mai tentare d’impiegare un carrello semi-distrutto; puoi tentare di abbassare i flap, calibrando il rollio di un bombardiere dalle superfici di controllo gravemente danneggiate. Puoi semplicemente paracadutarti, quando ormai non resta più alcunché da fare, sperando di passare inosservato per quanto concerne l’artiglieria anti-aerea nemica. Molte sono le maniere tramite cui transitare, pressoché istantaneamente, da uno stato di spostamento motorizzato al di sopra delle nubi, a quello di ritorno graduale alla quiete, nell’assenza sospirata di alcun tipo di pista d’atterraggio, base alleata o altri simili strumenti assistenziali di contesto. E molti di questi, ancor più che in precedenza, furono sperimentati durante il periodo della seconda guerra mondiale, quando la cessazione dello stato di grazia tendeva a palesarsi molto di frequente, causa l’effetto problematico di attacchi o intercettazione nemiche. La classica visione del “Noi o loro” che poi tendeva a diventare, tanto spesso “Noi soltanto” in tutti quei casi, meno rari di quanto si potrebbe pensare, in cui il pilota sopravviveva, dovendo preoccuparsi di tornare vivo e vegeto alla civiltà. Considerate quindi che stiamo parlando, per tutti gli anni ’40 ed almeno fino al concludersi della decade successiva, di un’epoca largamente antecedente allo sdoganamento dell’elicottero in qualità apparecchio utile a più di un volo sperimentale di pochi minuti, rendendo l’effettivo salvataggio per via aerea una strada difficile, se non del tutto impossibile da portare fino al suo felice coronamento. Il che pose in essere una situazione statistica paradossale in cui, nonostante le migliori intenzioni, i piloti abbattuti che potevano ricevere un qualche tipo di assistenza immediata da parte dei loro commilitoni (soprattutto se caduti dietro le linee nemiche) risultavano in quantità inferiore al 10% delle casistiche registrate. Il che aprì a posteriori il dibattito su cosa, esattamente, potesse farsi per permettergli di sopravvivere continuando a servire il suo paese.
Uno dei primi tentativi formalmente approcciati in tal senso giunse, dunque, a partire dal 1956 quando l’Aviazione degli Stati Uniti, disponendo finalmente di un budget spendibile in tal senso, scelse di contattare l’azienda fornitrice di pneumatici della Goodyear con sede centrale ad Akron, Ohio, per costruire la prima versione pienamente pilotabile di quella che potremmo giungere a definire come scialuppa di salvataggio volante. Ma perché scegliere, a tal fine, una compagnia specializzata nella produzione d’implementi veicolari rotanti? La ragione è presto detta e risulta facilmente individuabile nel modo, esattamente, in cui i sovrintendenti al progetto avevano pensato di poter inserire un intero aereo all’interno di un altro velivolo, aspirando al tipo di compressione durante il non utilizzo che può caratterizzare soltanto un qualcosa la cui struttura fondamentale sfrutta il principale rinforzo strutturale dell’aria stessa. In altri termini, il dispositivo in questione avrebbe dovuto costituire la realizzazione improbabile di un aereo gonfiabile, come un gommone. Qualcosa di naturalmente più problematico da gestire, sebbene alquanto incredibilmente, alcuni tentativi fossero stati effettuati in precedenza. A partire da quello ragionevolmente riuscito dell’aviatore veterano della grande guerra Taylor McDaniel, che avendo assistito in prima persona allo schianto e conseguente dipartita di un suo amico sopra le giungle inaccessibili del Brasile, aveva iniziato a chiedersi se un sistema migliore non potesse esistere a questo mondo. Portando alla costruzione sperimentale nel 1931 di un vero e proprio aliante costruito unicamente con la gomma, capace d’impattare contro il suolo piegandosi per assorbire buona parte del colpo, una capacità che ebbe l’occasione di dimostrare alla stampa quando poche settimane dopo il suo pilota sperimentale Joseph Bergling perse il controllo e si schiantò verticalmente a terra, riportando soltanto alcune lesioni non gravi contro la morte certa a cui sarebbe andato incontro all’interno di un aereo convenzionale. Questo obiettivo di rendere le cose alate “indistruttibili” tuttavia non fu mai al centro del resuscitato progetto della Goodyear, pensato per entrare in gioco più che altro DOPO che l’aereo era già precipitato a terra. Previo un breve corso per l’assemblaggio non propriamente intuitivo, sebbene potesse giungere a compimento nel giro di appena 5-10 minuti in condizioni ideali. Abbastanza per sfuggire, auspicabilmente, alla pattuglia di terra già diretta verso la posizione del pilota rimasto senza un velivolo, nella speranza di portarlo presto ed ancora una volta lassù, da dove era recentemente precipitato…

Come nel caso del precedente aliante McDaniel, le prime prove tecniche dell’aereo Goodyear furono effettuate attraverso l’impiego di un veicolo di terra utile a raggiungere la velocità di decollo. Soltanto successivamente, il prototipo venne dotato di un carrello.

Cruciale nella progettazione di quello che sarebbe stato nominato per l’occasione Inflatoplane (dalla congiunzione delle due parole indicanti rispettivamente “gonfiaggio” ed “aeroplano”) sarebbe quindi stata la capacità di essere immagazzinato all’interno di volume di appena 1,25 metri cubi, potendo trovare posto facilmente, ad esempio, nel compartimento per le bombe di un tipico aereo di attacco al suolo. Questo grazie alla particolare struttura di rinforzo della fusoliera e le stesse ali, costituite da uno doppio strato esterno di gomma riempito di fibre tessili, che all’aumento della pressione si sarebbero irrigidite, agendo in maniera fisicamente analoga a quella delle tipiche travi a T. La propulsione, nel frattempo, sarebbe stata fornita da un singolo motore Nelson a due tempi capace di erogare circa 40 cavalli, per un’autonomia prevista di fino a 630 Km nel caso del primo prototipo completo in ogni sua parte, a una velocità massima di 116 Km/h e fino all’altezza di 10.000. Non propriamente una scheggia dalle prestazioni formidabili quindi, ma comunque sufficiente, a meno di subire attacchi lungo il tragitto, a ripercorre a ritroso il tragitto prima del disastro aereo, nell’auspicabile speranza di fare ritorno all’interno del territorio alleato. Ulteriori accorgimenti erano stati previsti, quindi, a questo fine, a partire dalla capacità del motore stesso, posizionato per sicurezza in alto sopra la carlinga, d’immettere aria mediante l’impiego di un semplice compressore, che non doveva quindi superare i 544 millibar (sensibilmente inferiori alla pressione di uno pneumatico) per mantenere la solidità strutturale dell’aereo. Il che significava, in altri termini, che non soltanto l’utile implemento poteva contribuire al montaggio iniziale dopo il primo ispessimento perseguito mediante l’utilizzo di una pompa manuale, ma si sarebbe dimostrato in grado di continuare a mantenere la pressione interna del velivolo anche a fronte della perforazione avvenuta per un massimo di fino a 5-6 proiettili sparati da eventuali sentinelle nemiche. Non altrettanto facile, del resto, gli sarebbe risultato contrastare il tipo di squarcio provocato da una freccia scagliata mediante l’impiego di un arco o persino balestra, rendendo l’aereo particolarmente vulnerabile ad eventuali soldati imprevedibilmente dotati di simili strumenti medievali.
Attraverso una serie di test effettuati presso la struttura sperimentale della Goodyear a Wingfoot Lake, in Ohio, vennero ben presto realizzati una serie successiva di prototipi, attraverso un periodo destinato ad estendersi per 11 anni fino al 1962, che videro la successiva aggiunta di una cabina di pilotaggio chiusa agli elementi (GA-447) un carrello monoruota più leggero e facile da far entrare nel contenitore (GA-468) e persino una versione a due posti dotata di motore più potente a 60 cavalli, la cui autonomia risultava tuttavia necessariamente ridotta a 443 Km di raggio (GA-466). Comunque superiori a quelli che avremmo potuto ritenere probabili, viste le premesse!
I dati raccolti confermarono ben presto quanto il progetto potesse considerarsi preventivamente come un’idea piuttosto valida. Ma poiché nulla si ottiene, senza sacrificare un qualcosa di pari valore, nel 1958 venne il giorno prevedibile di un tragico incidente. Durante il volo di prova condotto dal pilota soprannominato “Pug” Wallace un cavo di controllo si spezzò finendo per bloccare il meccanismo incaricato di articolare la parte mobile delle ali, il che portò il velivolo a condurre una virata eccessivamente stretta che continuò inevitabilmente, fino al piegamento irrimediabile di un’ala. La quale, sotto gli occhi degli spettatori atterriti, finì immediatamente all’interno dell’elica del motore venendo fatta a pezzi, ma non prima di colpire alla testa il pilota stordendolo. Il che gli avrebbe impedito, purtroppo, di aprire il paracadute, facendo di lui l’ennesima vittima dell’aspirazione e passione umana per il volo.
Il problema principale, tuttavia, restava un altro. Nonostante il peso a vuoto relativamente contenuto di 102 Kg del modello monoposto, quest’ultimo richiedeva comunque un minimo di 100 metri pianeggianti per tentare anche soltanto di alzarsi in aria. Non propriamente facili da garantire, nel caso di un pilota precipitato in posizione totalmente imprevedibile, che inoltre doveva preoccuparsi di non attirare eccessivamente l’attenzione nemica. Forse per questo, il concetto di aerei gonfiabile perseguito già negli anni ’30 dai Russi prevedeva un impiego di tipo per lo più logistico, con una serie di alianti che sarebbero stati trainati da un velivolo convenzionale, per essere quindi rilasciati con rifornimenti a bordo e a una distanza trascurabile dai propri obiettivi, senza nessun presupposto di ritornare tanto presto in aria. Poco più di un paracadute pilotato quindi, sebbene basato sugli stessi principi aerodinamici del volo a motore.

Uno dei passaggi più inusuali della preparazione al decollo era l’impiego di una corda per legare il velivolo ad un albero vicino, data l’assenza di freni ed il conseguente rischio che potesse mettersi in moto durante il riscaldamento del motore. Soltanto una volta pronto ed in posizione, il pilota l’avrebbe tagliata.

A questo punto l’intero progetto fu sottoposto nuovamente a valutazione, giungendo a conclusioni decisamente poco incoraggianti. Considerati infatti i progressi compiuti nel frattempo con il volo elicotteristico, nonché la maniera improbabile in cui un pilota avrebbe dovuto superare la linea del fronte a bordo di un dispositivo straordinariamente lento e vulnerabile, i capi di stato maggiore decisero di dare il benservito alla Goodyear, la quale d’altra parte si era rivelata in grado di fornire il singolo aereo gonfiabile più efficiente della storia. Il che sembrava sottintendere, cionondimeno, una certa persistente inutilizzabilità di fondo.
La maggior parte dei 12 Inflatoplane costruiti fino a quel momento sarebbero andati purtroppo perduti, fatta eccezione per i tre esemplari ancora oggi custoditi rispettivamente presso il Franklin Institute a Philadelphia la Smithsonian Institution di Washington, D.C. e lo Stonehenge Air Museum in Fortine, Montana. A perenne ricordo di un’ulteriore binario morto, percorso con un comprensibile entusiasmo da quegli ingegneri aeronautici che, per qualche anno almeno, ci avevano davvero creduto. Percorrendo, forse, un sentiero che potremmo definire il più difficile: quello dell’utilizzo militare. Chi può veramente dire, in effetti, se l’aereo gonfiabile avrebbe potuto dimostrarsi capace di catturare l’attenzione del pubblico in un ambito civile? E forse, la vera rivoluzione del volo portatile che ci porterà tutti ad avere una macchina volante nel portabagagli delle nostre automobili, deve ancora venire. Per far tornare i nostri mezzi volanti allo stato di grazia di un’involucro ricolmo d’aria…. Come all’epoca, mai realmente dimenticata, delle mongolfiere.

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