L’antico richiamo dello hutia, grande topo cavernicolo delle Bahamas

Una delle tattiche tradizionali degli esploratori oceanici europei ha notoriamente consistito nel portare a bordo un certo numero di commestibili suini. Non per divorarli tutti nel corso della traversata, bensì rilasciarne alcune coppie, in base ad un progetto ben pianificato, in isole disseminate all’altro capo dei loro viaggi, affinché potessero moltiplicarsi e prosperare nell’ecosistema nativo. La tipica natura onnivora di tali animali, la loro capacità di adattamento e voracità innata facevano il resto, garantendo alla venuta successiva in tali lidi, anche ad anni o decadi di distanza, una valida dispensa cui ricorrere per mantenere abile e satollo l’equipaggio. Secondo il recente (2020) studio genetico statunitense di Jessica A. Oswald e colleghi, d’altra parte, qualcosa di molto simile fu fatto 1.000 anni a questa parte dai pregressi popoli navigatori del contesto caraibico, tra cui possibilmente Taino, Ciguayo e Kalinago, con una presenza dai valori nutrizionali, ma la dimensione e discendenza tassonomica molto diversi. Non a caso definita scientificamente come appartenente al genere Capromys, dalle parole greche κάπρος (maiale) e μῦς (topo) la hutia è un grosso roditore della lunghezza di fino 60 cm coda esclusa ed un massimo di 8,5 Kg di peso, nel caso della varietà studiata per la prima volta da Pallas che la definì erroneamente come Mys pilorides, prima che Tate provvedesse a ri-classificarla tramite l’impiego del binomio C. pilorides e nome comune di hutia di Desmarest diffusa primariamente a Cuba, dal nome del francese che l’aveva descritta approfonditamente nel 1822. Andando oltre la breve menzione, in cui veniva paragonata ad un bizzarro gatto, dell’esploratore Francis Drake oltre due secoli prima, che l’aveva incontrata più volte durante i propri viaggi tra gli arcipelaghi del Nuovo Mondo. Creature placide, erbivore, tendenzialmente poco reattive ai pericoli con una remota parentela, oggi acclarata, ai topi spinosi centro e sud-americani (gen. Echimyidae) benché assomiglino esteriormente più che altro alle nutrie nostrane, con le quali condividono anche le abitudini possibilmente anfibie e la natura per lo più erbivora. Agevolata, in questo caso, dal possesso di un complesso stomaco in tre camere distinte, come quello dei capybara, che gli permette di digerire praticamente qualsiasi tipo di materia vegetale, oltre all’occasionale lucertola o anfibio catturati grazie alla sveltezza nei movimenti. Di una preda dell’occasionale serpente o rapace dalle zampe corte e poco agile, la quale può d’altronde muoversi a sobbalzi con velocità del tutto sorprendente, quando lo ritiene assolutamente necessario. Un’altra abitudine che condivide in modo largamente accidentale, se vogliamo, con i nostri cari vecchi amici maiali…

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