Lo skyline di New York, vertiginoso susseguirsi d’infinite torri, luci ed ombre sfolgoranti, è una visione che conduce ad un profondo senso di burbanza. Se invero, come in effetti scruta l’occhio di noi tutti, la moderna architettura urbana è riuscita a costruire tutto questo, quali sono i suoi limiti effettivi? Cos’è un disastro epocale, un’eruzione, una tremenda epidemia, dinnanzi alla proliferazione dei nostri ineccepibili alveari… Soltanto un segno a margine, sul fondo della pagina del mondo! Ciò che resta è tutto, tranne quello, ovvero il punto di partenza. La natura. Salvo rari casi, eccezionali ed eccellenti. Perché il miracolo maggiore, all’occhio della civiltà contemporanea, indubbiamente, in tale mistico miraggio cementizio, non sarà mai “L’egoismo industriale che conduce alla potenza della volontà” (Come affermava una certa filosofa, tanto associata a vecchie vicende, quivi consumate) bensì, lo spazio negativo. Il modo in cui, persino giunto a questo punto, l’animale pseudo-quadrumane più sviluppato vi abbia lasciato, con gioia ed entusiasmo, spazi verdi, liberi dalle automobili e la vribrazione della metropolitana. Sono questi, i parchi pubblici, moderne basiliche del mondo.
Ove s’incontrano, come in universi paralleli, strani esseri e creature. Certamente avrete avuto modo di notare, nelle vostre avventure d’intellettuali, una stranezza della pianta cittadina di Manhattan, quell’isola che un tempo fu degli ”indiani” (pellerossa). E adesso, invece, ne ospita di diversa gradazione, provenienti da tutt’altro continente, per guidare i taxi e fare gli anfitrioni dentro a certi ristoranti. Per non parlare dei nostri paisà….Si, l’avrete notato. Forse, ci sarete pure stati! Dentro a quei suggerimenti di quadrati. È il paradosso principe dell’urbanistica statunitense: tutto nasce dall’attenta pianificazione, risultando più geometrico dell’incontro fra un cardo e un decumano. Così è, se ci fate caso. Dozzine di rettangoli verdognoli, ricchi di spunti validi d’approfondimento. Ce ne sono di diversi gradi e dimensioni. Il maggiore, quel Central nato dall’opera di Frederick Law Olmsted e Calvert Vaux, risale al 1856 ed è una vera giungla. Un pozzo in cui si perdono i veleni atmosferici e spariscono dentro ai laboratori delle foglie. Qui ci sono papere, cavalli e caroselli. Ci sono ben tre laghi artificiali. Oltre a molta gente, chiaramente. Eppure, questo non è il luogo della Scena. Quando si parla di spazi negativi, non è la grandezza che fa l’importanza. Ma la tenacia, il senso continuato d’esistenza. E cosa sono, in fondo, 843 acri, dinnanzi ad un incrocio veramente pregno e quella forte tradizione d’elevarsi!
Se New York veramente, come molti dicono, ha la forma di una mela, l’Isola è il suo torsolo. Con ben due semi verdi e rigogliosi, sovrapposti, l’uno in contrapposizione all’altro. Il primo è grande e luminoso e ombroso e assai sabroso. L’altro, posto al suo nadir, è piuttosto, significativo… Lo chiamano Washington Park perché si trova lungo la Fifth Avenue, e confina con la piazza omonima, dal fiero monumento. È stato praticamente circondato, nelle ultime decadi, dagli edifici dell’Università ed è diventato, forse anche in funzione di ciò, un luogo di rinomato anticonformismo. Qui è ancora probabile, rispetto a quell’altro parco ormai troppo frequentato, che si verifichi il miracolo tipicamente americano. Di una persona sola, che dispone un podio, o alza un cartello e inizia a declamare. Con la gente che passa di lì e si ferma, qualche volta, ad ascoltare. O soltanto ad osservare, in altri strani e rari casi.
