E se davvero questo mondo ed epoca faranno parte, nell’opinione degli storici, della cosiddetta “società delle immagini” spiegate questo: la fenomenologia virale di una circostanza principalmente auditiva, così strana e memorabile, da essere riuscita a cavalcare il flusso digitale delle informazioni fino ai margini della coscienza collettiva. Come il sogno di un surreale palcoscenico, profondamente infuso di un colore verde smeraldino, prelevato dal profondo di un’irraggiungibile miniera. Quella umida, olivastra, ingombra della vasta giungla del meridione asiatico, con particolare riferimento alla penisola malese. Ove può capitare, a esploratori particolarmente (s)fortunati, di trovarsi accompagnati dalla più insistente delle colonne sonore. Il rombo sincopato di un singolo strumento, replicato fino a un multiplo di 10 o 120 volte, che riecheggia tra gli alti alberi dai frutti alati, le cui fronde si combinano creando l’equivalenza naturale di un affresco risalente al Rinascimento. Una sorta di versione più potente, più spontanea, di quel ritmo che da sempre siamo rassegnati ad associare, a una tipica giornata di meditazione o studio verso il culmine della stagione primaverile, quando i grilli delle circostanze calorose si riconfigurano nella loro forma riproduttiva. Fin dall’epoca della distante Preistoria, quando l’effettiva differenza tra le proporzioni di un “insetto” e un “porcellino d’India” erano ancora molto simili tra loro. Benché sia diversa la questione, ancora oggi, di quello che risulti essere Comune, piuttosto che Possibile, lasciando persistere la strana possibilità che tale contingenza si ritrovi a consentire, in certi ambienti, al tipico suino di riuscire a svolazzare tra un tronco e l’altro.
Certo, si fa per dire: in primo luogo perché la cavia domestica non è propriamente imparentata coi grugnenti frequentatori della porcilaia, se non molto, MOLTO alla lontana. E secondariamente perché la cavalletta gigante della Malesia o Arachnacris corporalis (alias in base ad una terminologia desueta, Macrolyristes c.) con la sua apertura alare ponderosa in grado di raggiungere e superare i 25 cm, non è propriamente in grado di spiccare il volo, né un simile gesto può essere descritto come particolarmente vantaggioso per il suo stile di vita. Che la porta a rimanere ragionevolmente immobile per il completo volgere delle ore diurne, tra le foglie in mezzo a cui ama mimetizzarsi grazie ad un aspetto quasi indistinguibile in tal contesto, completo di parte marroncina sul retro per imitare l’imperfezione vegetale più diffusa. Balzando giù soltanto al sopraggiungere di un affamato predatore, in una sorta di ultima risorsa prima di perire, dopo aver tentato per quanto possibile di affidarsi a due contromisure preventive: la proiezione delle proprie feci il più lontano possibile, in modo da non richiamare l’attenzione dei carnivori dal naso fino. E l’emissione relativamente spaventosa, all’indirizzo del nemico, di quella che costituisce la singola più impressionante proiezione canora del mondo artropode contemporaneo. Un’esplosiva nota, infinitamente ripetuta, che taluni hanno paragonato al fuoco martellante di una mitragliatrice. O la marmitta di uno scooter gravemente consumata dai molti anni d’impiego. Qualcosa che non t’aspetteresti di sentire, in altri termini, all’interno di recessi geografici tanto lontani dal contesto propriamente urbano di questo pianeta…
suono
Lettera d’あmore dal Giappone
Come abbaìno, abbruciacchiato, allofono ed affranto. Chi ha avuto, ha avuto, aha, voluto. Mai dato, solo ricevuto. AAAaah come Arduino d’Ivrea, coraggioso Re d’Italia verso il primo volgere di un’era millenaria. Che rivive casualmente nell’idea, oltremodo interessante, di un’artista d’altre terre, d’altromondo: Kenta Watashima, programmatore. Vuoi scoprire la ragione? Sarà un lungo viaggio. Per prima cosa, traccia il segno della croce sopra un foglio, però inclina il tratto verticale verso destra. Quindi, muovi il tuo pennello in una virgola parecchio generosa, che giunga lietamente fino alle sue estreme conseguenze. Tonda come il sole, vasta quanto il mare. Possa ricordare un’alfa col cimiero, questo simbolo che viene dal Giappone. Ma non è un grecismo, nossignore: così comincia una scrittura fatta dalle foglie. Metti che un popolo guerriero proveniente dalle steppe della grande Asia, avesse costruito dei tumuli sull’arcipelago del regno di Yamato. Pieni di tesori nazionali. E diciamo pure che costoro, stanchi di dover tracciare gli ardui simboli di un alfabeto troppo arcano, per ipotesi, avessero deciso di semplificarli. Quando questo avvenne, non è chiaro: forse intorno al quinto secolo, oppure poco dopo. La risposta è tutta nella datazione di una spada. L’arma del guerriero Wowake, che gli amici usavano chiamare, per far prima: Ōhatsuse-wakatakeru-no-mikoto. Altro che: “d’Ivrea”.
Costui ebbe a ricevere un bellissimo sepolcro presso l’odierna prefettura di Saitama, con il beneplacito del gran signore Waka Takiru, uno dei protagonisti degli annali mitici del Nihon Shoki. Sia chiaro come fossero, tali testi coévi, tutti scritti nella lingua classica importata dalla Cina. Così era l’usanza, nulla più. Finché proprio quel guerriero, giusto sul volgere di un grande giorno, ricevette in dono un’arma in ferro e magnetite meteoritica, la spada che oggi chiamano col nome del suo tumulo: Inaryama. Che fu scavato solamente nel recente ’68, scoprendo, con somma meraviglia, come sulla lama fosse inciso un lungo testo descrittivo. Scritto in lingua puramente giapponese (infine!) Con un metodo che viene detto: man’yōgana. Tale sistema corsivo, basato sempre sui caratteri del continente, li allegeriva però dal significato originario. Dunque, alla dicotomia di un carattere=una parola, a partire da quel giorno, se ne affiancò un’altra; in cui una lettera, da sola, poteva voler richiamare: una sillaba soltanto. Ah! Ah!