La lucertola ad anello che pensava di essere un drago

Tra le figure mitologiche capaci di comparire a più riprese attraverso i corsi e ricorsi della storia, il serpente Uroboro resta una di quelle dotate dal maggior senso di continuità: talvolta inteso come un reale essere gigantesco affine al mondo degli Dei, certe altre un mero simbolo alchemico o stregonesco, eternamente intento a mordersi la coda nel formare un cerchio dal significato che allude all’infinita ricorrenza dei cicli dell’Universo, per custodire gelosamente tra le sue spire il potere che perpetra, eppur rigenera se stesso. Mentre il drago come essere, può avere molti ruoli differenti. Guardiano, tiranno, esecutore di un destino apocalittico o di rivalsa, simbolo di un popolo o l’agente sulla Terra del demonio in persona… Difficilmente, dunque, ad un filologo o un artista umano, sarebbe venuto in mente di combinare due bestie mitologiche di così alta caratura, se non in quest’epoca del post-moderno, ovvero combinando per un esperimento o per gioco le loro principali caratteristiche esteriori. Il che, del resto, non è certo un passatempo originale: potreste crederci che fin da un tempo immemore, ci avesse già pensato la Natura?
Incredibile discrepanza tra l’aspetto leggendario e la mondanità di piccoli e benevoli predatori, senza nessun presupposto problematico per la catena alimentare. La famiglia tassonomica identificata con il termine latino Cordylidae, originaria unicamente dell’Africa Meridionale ed il Madagascar, contiene un certo numero di lucertole per lo più insettivore dalle dimensioni che si aggirano tra i 9 ed i 40 cm, il cui alterno percorso evolutivo sembrerebbe aver anticipato, in modo spontaneo, la fervida immaginazione di un illustratore fantasy dei nostri giorni. In modo particolare quando si scende dal fedele fuoristrada per un breve giro nelle aride distese del Karoo, il semi-deserto noto come “terra della sete” nella lingua dei nativi khoisan, e ci s’imbatte in un’agitata colonia di questi rettili intenti a prendere il sole tra le rocce, ciascuno ricoperto da una complessa armatura piena d’aculei e scudi interconnessi tra di loro, che li fanno assomigliare piuttosto da vicino a dei minuscoli armadilli o mostriciattoli vagamente preistorici o dragoneschi. Finché non iniziano a muoversi serpeggiando, a una velocità comunque relativamente bassa per quelle che si presentano, al secondo e terzo sguardo, come delle vere e proprie lucertole (qualsiasi protezione comporta anche un peso) tanto che una o più di esse, magari spaventata dalla nostra ombra, sceglie di fermarsi e assumere un diverso assetto difensivo. Ed è allora che la trama, per così dire, s’infittisce: perché è sotto gli occhi potenzialmente spalancati dell’osservatore, che l’animaletto si ripiega su se stesso, stringendo saldamente i propri denti acuminati sull’ultimo segmento della propria coda. La funzione di un simile comportamento appare piuttosto chiara, vista la scorza dura e le numerose escrescenze puntute che coronano la sua piccola forma, trasformata istantaneamente in qualcosa d’indigeribile per chiunque, tranne i più determinati e coraggiosi tra i predatori. Tuttavia è impossibile non ritrovarsi ad associare quest’insolita creatura al nume tutelare d’innumerevoli culti, religioni e discipline create attraverso i lunghi secoli dell’umanità.

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Il topo nato senza la pazienza di restare congelato

Ci sono individui che, piuttosto di sentire il peso della variabile miriade degli impegni quotidiani, danzano a una tale musica e in qualche proficua maniera, riescono a trarre giovamento da quel senso di essere “importanti” o “utili” a uno scopo superiore. Già, il ritmo. Un principio secondo cui, attraverso una delle più trasversali e rare leggi trasversali della fisica, la giusta vibrazione può riuscire a demolire le montagne. Così vibrano, costoro, e raggiungono uno stato che in qualche maniera definisce i limiti delle proficue circostanze. Senza più fermarsi, baffi coda e tutto il resto, fino all’ultimo dei loro giorni su questa Terra. O acqua che dir si voglia: vi siete mai chiesti, a tal proposito, cosa può permettere di dare un senso a quel sottile spazio, gelido e intangibile, che costituisce la barriera tra i due unici elementi che tendono ad accumularsi sul fondo? Non è solo, o necessariamente, quello stato concesso dall’alto di “esseri anfibi”. Poiché dove manca di assisterci la biologia, può giungere, talvolta, il supremo potere del desiderio.
Ciò hanno visto con i propri stessi occhi, e questo potrebbero riconfermare in modo enfatico, i due pescatori sul ghiaccio russi che, dopo aver scavato un profondo buco sull’involucro non-molto-trasparente di un non meglio definito specchio d’acqua, hanno visto a un tratto fuoriuscire la creatura non più lunga di 7-8 centimetri, più altrettanto per la coda. Ovverosia una palla, con un folto pelo, quattro zampe zig-zaganti, il naso lungo e arcuato come quello di un coboldo in cerca di… Qualcosa. L’unica cosa possibile, per chi possiede un’organismo che vive letteralmente al volgere dei singoli minuti, rischiando ogni giorno di morire se non mangia l’equivalente del proprio peso. Neomys fodiens, toporagno d’acqua eurasiatico, potremmo a questo punto definirlo, se soltanto stesse fermo quel momento necessario per scattargli la foto della patente. Non che abbia bisogno di nessun veicolo, al fine di raggiungere la meta. Perché tutto quello che succede nel corso della vita, dal suo punto di vista, avviene al rallentatore. Siamo onesti: questa è una creatura che può arrivare a contare, nel migliore dei casi, un massimo di tre anni (se non viene divorata prima da uno dei suoi molti predatori) e se in un tale periodo si prendesse anche il tempo necessario per andare in letargo, dormendo tutto il tempo, difficilmente avremmo basi logiche per definire la sua vita… Interessante. Ecco, quindi, la sua soluzione a un simile problema: restringere se stesso ed abbassare le sue aspettative di alimentazione, con il cervello e gli organi che in autunno, perdono almeno un terzo della loro massa complessiva. Nella vaga speranza che la Provvidenza dei topi ed altri piccoli mammiferi, in un frangente particolarmente lieto, gli offra l’occasione di provare il gusto e la felicità dell’abbondanza…

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La creatura invisibile mimetizzata sui rami dell’Amazzonia

Tentai d’ignorare il ronzio di una zanzara grossa (all’apparenza) come un passero, mentre il battito di una falena minacciava di offuscare il mio equilibrio, facendomi cadere dall’altezza di circa 15 metri. Nel gettare momentaneamente uno sguardo di sfuggita all’orologio sotto il pallido lucore della luna, scorsi un paio di lancette che indicavano all’incirca le 3 di notte. “Come, come ho fatto a ritrovarmi in questa situazione?” Mi chiesi allora, il braccio destro saldamente avvolto attorno al ramo biforcuto dell’albero di Paraiba, l’altro a stringere la telecamera con luce incorporata, impugnata per il bene della scienza e la maggiore gloria del mio cognome, tra tutti gli altri pubblicisti dei diari scientifici attinenti all’ambito degli animali sudamericani. Fu esattamente quello il momento in cui sentii di nuovo il suo richiamo: BO-OU, BO-ou, bo-ou, bo-ou in dissolvenza, come il lamento di un Saci Pererê, la creatura mitologica brasiliana con l’aspetto di un elfo saltellante su una gamba sola, l’eterna pipa in bocca e l’indole notoriamente dispettosa… Eppure non c’era assolutamente niente dinnanzi al mio sguardo attentamente triangolato sulla fonte di quel suono misterioso: “Perfetto, proprio quello che volevo. Ciò conferma al massimo le aspettative di partenza. Click!” Spinsi allora il piccolo pulsante in cima all’apparato di ripresa, confidando nell’effetto riflettente di quegli occhi QUASI totalmente chiusi. Ed infatti, con mio senso estremo di soddisfazione lui/lei era lì. Perfettamente immobile, come una lucertola a mezzogiorno, in posizione ragionevolmente verticale in cima alla diramazione verticale di un ramo spezzato, probabilmente per l’effetto di un fulmine, dell’albero di fico antistante al mio. Molto più in basso di quanto sarebbe stato lecito aspettarsi, forse perché prossimo a lanciarsi a caccia d’insetti, sua forma di sostentamento principale. Le due fessure larghe circa un paio di centimetri ciascuna, come da copione, riflettevano perfettamente quel bagliore artificiale, mentre abbandonata per un attimo la recita, sapendo anche fin troppo bene di essere stato scovato, l’uccello aprì ancora il largo becco, formando il triangolo rosato di un arcano simbolo contro il fondale della notte. Fu allora il suo richiamo, all’apparenza disperato, aumentò all’improvviso di tono ed intensità, mentre l’uccello si apprestava a decollare e diversi tra i suoi simili rispondevano tutto attorno, nell’inizio dell’unico sistema di autodifesa che potessero annoverare nel loro repertorio aviario: l’attacco in massa. “What in tarnation!?Sussurrai allora, in perfetto accento cockney del proletariato londinese…
La questione principale relativa ad un qualsiasi tipo di trattazione del nittibio, comunemente detto in lingua inglese potoo (contrazione di poor-me-ones, povero me) è che il suo intero genere dei caprimulgiformi presenta ancora numerosi aspetti non chiari, come del resto spesso capita per le creature che abitano principalmente la sommità degli alberi di uno dei luoghi più incontaminati ed inaccessibili del pianeta: le grandi foreste pluviali di Brasile, Colombia, Venezuela e dintorni, con piccole popolazioni distaccate nel Centro America e la parte meridionale del Messico. Il che, unito all’assoluta assenza di tratti distintivi tra i due sessi, rende ancora totalmente ignota quale sia il rappresentante della coppia che riceve l’incarico di custodire lo strano “nido”. Se così possiamo definire un semplice incavo scovato nella parte superiore di un arbusto, dove trova collocazione il singolo uovo deposto verso l’inizio della stagione piovosa nel tentativo e la speranza che possa passare inosservato. Perché tutto, nell’uccello che i locali chiamano urutao, è concepito per renderlo effettivamente trasparente allo sguardo di ogni potenziale predatore…

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La spettacolare cresta dell’acchiappamosche incoronato

Sarebbe ragionevole pensare, osservando da vicino per la prima volta questo uccello di 15-17 cm durante un’escursione ai margini della foresta Amazzonica, di trovarsi di fronte a un comune passero boschivo, dal becco largo ideale per afferrare gli insetti in volo, come gli uccelli nostrani, ed un piumaggio marroncino al 100% indistinguibile dalla normalità. Di certo, questo è un piccolo volatile che, come il pappagallo cacatua, dimostra la sua qualità esteriore solamente se raggiunge uno stato di eccitazione. E poiché la cresta erettile, nei pennuti, non è soltanto uno strumento utile a corteggiare la femmina, così come l’abbaio dei cani non serve soltanto a farsi rispettare, potrà capitare, all’improvviso, che la simpatica creatura vada incontro ad un processo di trasformazione. Diventando all’improvviso un qualcosa di paragonabile a un vero e proprio pavone, per lo meno una volta applicate le opportune proporzioni del caso. Ecco, guardatelo: questo è un Onychorhynchus, ovvero il rappresentante di quel genus, secondo alcuni biologi composto di un’unica specie particolarmente eterogenea, ma che nell’opinione di altri ne contiene ben quattro, corrispondenti grossomodo a diversi territori del Sudamerica e almeno in un singolo caso (Acchiappamosche Settentrionale) la nazione messicana, fin quasi al confine con gli Stati Uniti.
Dal punto di vista della classificazione, sempre fondamentale quando ci si avvicina a una creatura tanto caratteristica e poco nota, stiamo ad ogni modo parlando di un Tyrannidae, ovvero quella vasta famiglia di uccelli passerini in grado di contarne ben 400, soprattutto in forza della straordinaria biodiversità di uno degli ultimi luoghi incontaminati della Terra: la foresta più ampia, ed importante del nostro pianeta, sempre più drammaticamente sovrappopolato dall’umanità. In un contesto naturale tanto ricco di risorse, da poter permettere l’evoluzione parallela di tratti diametralmente opposti in determinate nicchie ecologiche, fino alla creazione di tali piccoli, diversificati abitanti. Ma benché l’avvistamento risulti, come dicevamo, comprensibilmente sporadico (stiamo dopo tutto parlando di luoghi tutt’altro che accessibili) sarà possibile riconoscere il tipico Onychorhynchus dal alcuni tratti comuni e imprescindibili della sua genìa: in primo luogo la maniera in cui ama posizionarsi in agguato sui rami più bassi, pronto a balzare verticalmente per afferrare gli artropodi di passaggio, prima di ritornare brevemente sulla stessa rampa di lancio da cui era decollato. La tipica dieta di questi uccelli include: lepidotteri, omotteri, imenotteri, libellule (Odonata) e inutile dirlo, le grosse e succulente mosche (ditteri) da cui prende il nome. L’animale sembrerebbe tuttavia, almeno a giudicare dai numerosi video presenti su YouTube, anche piuttosto socievole e propenso a venire a consumare il becchime dalle mani protese dei turisti, esattamente come alcuni dei più amati/odiati volatili dei più vasti agglomerati urbani. Eventualità seguita, quasi senza esclusioni, dall’immediato agitarsi dell’uccello, facente da apripista, come da copione, all’apertura del fantastico ventaglio facente parte della sua criptica acconciatura. Il che risulta essere particolarmente emozionante, mentre il piccolino farà ruotare la testa prima da una parte e poi dall’altra, raggiungendo i 260 gradi abbondanti d’estensione, nella vana speranza che l’umano, spaventato, inizi ad attribuirgli il rispetto che viene da un senso generalizzato di terrore. Ma è scontato che per lui l’impresa, considerata la situazione, sarebbe come quella di spaventare Godzilla in persona…

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