Il caos della montagna coreana invasa da miliardi di mosche dell’amore

Con contegno inspiegabilmente giovale, l’escursionista si aggira tra i recessi di quello che alcuni tenderebbero senza particolari esitazioni a definire come l’Inferno in Terra. Un tranquillo sito panoramico, con tanto di panchine, area picnic e cannocchiali a gettone per l’osservazione della valle antistante. Ammesso e non concesso che i suoi occhi riescano a staccarsi dalle infinite forme cupe latenti, che in un vortice di vita sregolata sembrerebbero aver messo sotto assedio ogni centimetro residuo dei visibili dintorni. Senza alcun riflesso chiaro di ribrezzo o repulsione, l’individuo si sdraia come niente fosse in corrispondenza di una panchina. Poco prima di essere letteralmente ricoperto dalle amichevoli abitanti del sito.
Sovrappopolazione è un stato delle cose che trascende i limiti delle risorse disponibili, portando alla costante sovrapposizione dei bisogni e conseguente annientamento dello stato di grazia di un particolare ambiente di riferimento. Ciò che tendiamo a immaginare come manifestazione pratica di tale circostanza, delineata nella ricorsività costante di determinate circostanze biologiche e risultanti creature, non è praticamente nulla, rispetto alla situazione che stanno sperimentando gli abitanti ed i visitatori di Gyeyangsan, massiccio boscoso nel comune di Incheon, con vista privilegiata sugli svettanti palazzi della periferia di Seul. Un subitaneo capitolo dell’esistenza, in cui una singola forma vita è stata replicata tante volte quanti sono i granelli di sabbia di una spiaggia, o le gocce di pioggia all’interno di un vasto temporale d’inizio luglio. Insetti, certamente, ma di un tipo pernicioso nonostante l’indole pacifica e l’assenza di strumenti per poter nuocere all’uomo. Se si esclude la condizione psichica che tende a derivare, nel trovarsi in una situazione dove l’aria brulica letteralmente, così come il suolo, i vestiti e la pelle stessa delle persone. Questo il monito e tali le conseguenze, derivanti da condizioni ecologiche vigenti che indicano un fondamentale squilibrio, piuttosto che prosperità latente.
Il suo genere: Plecia della famiglia dei bibionidi, insetti noti per la loro propensione a vivere sul suolo marcescente come larve simili a vermetti, per riemerge d’un tratto tutti assieme dando inizio alle salienti danze riproduttive. In cinque, sette giorni di follia purissima, durante cui i maschi volteggiano con insistenza sopra il punto della loro emersione, attendendo pazientemente la fuoriuscita successiva delle controparti femminili più grandi, con cui procedere all’accoppiamento. Un processo lungo e laborioso in grado di durare anche 50 o più ore, durante cui ciascuna coppia resta saldamente attaccata assieme, creando l’illusione che portava tradizionalmente a definire questi esseri “mosche a due teste”. Da tempo celebri per il corpo nero e affusolato, non più lungo di 8 mm, con l’addome rosso che tende a facilitarne l’immediata identificazione. Così come le antenne corte ma complesse, nonché il fatto che durante l’attimo della loro saliente invasione, a nessun altro è permesso d’ignorarle o distogliere la propria attenzione, poiché sono, semplicemente, ovunque…

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La valle giapponese dove il fiume scorre tra i residui prosperosi di un futuro passato

La verticalità costituisce, tra gli aspetti di un centro cittadino, uno degli elementi di maggior fascino utile a costituire il tipo di scorci che vengono definiti convenzionalmente “da cartolina”. Così luoghi visti da lontano, in bilico su valli attraversate da un profondo torrente, trovano collocazione nella nostra fantasia come l’equivalente contemporaneo di luoghi fiabeschi o fantastici. E non c’è corso d’acqua più conforme a tali crismi visuali, del Kinugawa nella prefettura di Tochigi, non lontano dalla città di Nikkō, il cui nome in kanji (鬼怒川) significa letteralmente “Fiume dell’Orco Rabbioso” con riferimento pratico alle numerose inondazioni, subite dalla popolazione locale in epoca pre-moderna con gravi conseguenze per l’agricoltura e l’abitabilità della zona. Questo almeno finché l’invenzione del cemento armato, delle fondamenta dotate di pali d’acciaio, degli edifici alti e solidi posizionati strategicamente sopra zoccoli pietrosi sopraelevati, non avrebbe permesso attorno agli anni ’80 la superba costruzione di un intero resort, proprio sotto l’occhio distaccato degli antichi Dei delle acque che scorrono. All’ombra di alberi secolari ed inconsapevoli colline erbose. Creando un contrasto… Interessante. E indelicato. Nulla, tuttavia, avrebbe potuto preparare gli scoiattoli e tanuki di zona alla casistica destinata a verificarsi nel giro di appena mezza generazione. La solenne dipartita di ogni accenno visibile d’umana civilizzazione. Con il conseguente sopravvivere di quello che può essere soltanto descritto, da ogni punto di vista rilevante, come il più desolato dei luoghi.
Ecco allora che il convenzionale visitatore, avvicinandosi maggiormente allo scenario, magari dopo aver percorso il caratteristico ponte sospeso all’ingresso di questo ex-polo turistico di grande popolarità, inizia a intravedere qualcosa di profondamente ed innegabilmente Sbagliato. Le facciate derelitte dei titanici ecomostri, con finestre talvolta mancanti e piante d’edera pesantemente abbarbicate all’intonaco esterno. Le porte sbarrate degli edifici, oppure del tutto mancanti, lasciando intravedere all’interno il tipico caos di un luogo abbandonato all’improvviso, dopo il passaggio di ondate successive di ladruncoli ed “esploratori urbani”. Nella peggiore accezione del termine in questo caso, benché non manchino praticanti etici di questa disciplina dei nostri giorni, generalmente responsabili di alcuni dei video-reportage più interessanti reperibili in mezzo alle pieghe periferiche di YouTube. Di cui molti sono passati, come rilevabile nel repertorio degli ultimi anni, in questo sito dalla posizione geografica piuttosto conveniente, lungo un’arteria stradale a poche ore da Tokyo e una distanza ancor più raggiungibile mediante l’uso dei veloci treni locali. Per trovarsi nell’ideale punto di collegamento, tra tutto ciò che avrebbe potuto essere, e l’oscura deriva di un paese storicamente associato ad un’ampia serie di disastri. Tra cui forse il più terribile di tutti, in fin dei conti, resta l’uomo…

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L’intricato filo delle alghe che lega le donne all’eredità delle isole balinesi

Con il progredire dell’attuale situazione climatica e i suoi effetti sulle condizioni meteorologiche vigenti, le conseguenze ad ampio spettro subite dal pianeta continueranno a coinvolgere progressivamente una percentuale maggiore d’interessi ed attività umane, in aggiunta al danneggiamento della macchina ambientale che sostiene fauna & flora delle zone maggiormente colpite. Uno delle principali fonti di sostentamento di una buona parte delle isole Sunda in Indonesia, ma soprattutto Nusa Penida e Nusa Lembongan situate ad est di Bali, è la coltivazione tradizionale di diverse specie di alghe con particolare attenzione nei confronti della grandong o katoni. Appellativi locali riservati al “muschio di mare” della specie Kappaphycus alvarezii, un tipo di rodofita fotosintetico famoso per la sua capacità di ancorarsi saldamente alle barriere coralline, creando meta-strutture proteiche interconnesse che gli permettono di propagarsi con fulminea efficienza. Lo stesso principio impiegato con sapienza, ormai da secoli, come fondamento di un’industria praticata soprattutto dalle donne, consistente nell’applicazione del metodo del lungo filo, che non richiede l’utilizzo di semi. In cui una cima del diametro di 10-15 mm viene sospesa tra boe o galleggianti ad intervalli di 4-5 metri, per legarvi vaste quantità di talli (rametti) del muschio di mare con cadenza regolare, affinché il sole, il vento e il movimento delle onde si occupi di fare il resto. Approccio collaudato in grado di garantire, in condizioni ideali, una crescita di ciascuna pianta per percentuali di un 4-6% giornaliero ed il raggiungimento del giorno raccolto in appena un paio di settimane. Prassi priva di latenti vulnerabilità, giusto? Non proprio, visto il prolungarsi della stagione delle piogge nel corso delle ultime decadi. Con conseguente danneggiamento e necessario intervento di rimozione preventivo di una certa quantità delle fluttuanti inquiline di color verde-marrone dalla cima, portando a un danno economico ed allo stesso tempo aumento dell’energia necessaria a portare a compimento le operazioni. Una deriva che sta portando, soprattutto negli ultimi anni, alla riduzione delle aziende di famiglia attive nel settore e la conseguente invocazioni di norme commerciali più stringenti da parte del governo locale, con il potenziale di arrecare un tipo d’impulso al settore che potrebbe anche rivelarsi nocivo. Mentre una parte significativa del carattere di queste isole, così fortemente radicato nel territorio, rischia per la prima volta di scomparire…

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La complessa verità spagnola del grande spazio bianco che nutre l’Europa

L’annientamento pressoché totale della natura in quanto principio non-umano dell’esistenza può assumere molte guise o colori. Il meno probabile dei quali, nella maggior parte delle circostanze, è il verde. Tonalità considerata maggiormente rappresentativa di vegetazione, foreste, persino i campi coltivati che a loro modo, possono costituire uno spazio sicuro per fauna benefica quali insetti impollinatori, lombrichi, uccelli migratori. Esiste tuttavia un contesto, quello dell’agricoltura intensiva, in cui questa felice comunione cessa totalmente di sussistere. Anche per il semplice fatto, tra molti altri, del tetto che ricopre le coltivazioni create con al centro delle aspettative l’esigenza di riuscire a soddisfare l’economia di scala contemporanea. Che nella comarca andalusa di Poniente Almeriense, in corrispondenza della costa meridionale della Spagna con epicentro presso il comune di El Ejido, un’intera zona di 260 Km quadrati possa essere stata sottoposta a tale trattamento, è d’altra parte una questione raramente discussa o sottoposta ad alcun tipo di osservazione o regolamento da parte dei legislatori europei. Forse perché tale zona dove tutto è bianco, per l’effetto riflettente di un distretto che si estende fino all’orizzonte ed oltre, è ormai da molte decadi una condizione necessaria a rifornire tutto l’anno un’alta e significativa parte dei supermercati europei.
L’idea che molti tipi di frutta non abbiano più una vera stagione, il fatto che mangiare l’insalata d’inverno sia del tutto normale, l’esistenza stessa di concetti come la macedonia fuori da periodi molto particolari o i dolci di Natale al cioccolato ad ogni latitudine sono la diretta risultanza di una serie di processi sviluppati soprattutto nel corso dell’ultimo secolo, grazie all’evoluzione dei trasporti ma anche e soprattutto la creazione di hub produttivi dall’elevato grado di efficienza procedurale. Luoghi dove la crescita vegetale è sostanzialmente cadenzata da gesti del tutto artificiali e l’aspetto meteorologico del clima, fatta eccezione per grandinate o tempeste particolarmente distruttive, non viene semplicemente calcolato all’interno dell’equazione. Dal che nasce il cosiddetto Mar de Plástico, così soprannominato successivamente alla pubblicazione di una foto satellitare da parte della NASA in cui questo paesaggio emerge prepotentemente tra i profili del Vecchio Continente, contrastando in modo netto tra la terra brulla e il blu profondo del Mar Mediterraneo. Come una megalopoli ma interamente dedicata alla coltivazione di cose come pomodori, cetrioli, melanzane, peperoni, meloni, cocomeri ed innumerevoli altri “doni” della terra, sotto un telo di poliestere del tutto o parzialmente trasparente. Distribuito in quello che costituisce la spropositata equivalenza di un vero e proprio labirinto di stabilimenti, costruiti l’uno a ridosso dell’altro. Ed angusti pertugi riservati agli spostamenti umani, dove l’aria circola soltanto in quantità e modalità limitate…

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