Cosa vedono i felini nella schiena dei visitatori allo zoo

Big Cats Playful

Paura, pericolo, immagini SHOCKANTI… Il bambino con l’impermeabile giallo dello zoo di Chiba, in Giappone, che poteva LETTERALMENTE “morire”! La belva leonina ha fatto tutto il POSSIBILE per tentare di sbranarlo e divorarlo, oh my! Ogni volta che càpita, è un tripudio d’iperboli e titoli concepiti per massimizzare il clickthrough delle proprie fedelissime pubblicità. Non c’è un singolo giornale, quotidiano o testata pseudo-amatoriale (per non parlare dei blog) che possa resistere alla tentazione di drammatizzare l’evento fortuito di un grande animale selvatico, rigorosamente intrappolato in una gabbia, che per pochi, incredibili secondi, dimentica la propria condizione ed immagina invece un qualcosa di mai vissuto, le vaste praterie, la taiga, la savana… Terre cariche di cibo con gli zoccoli e le corna, assieme ad altrettanto valide opportunità di arricchimento spirituale. Il cui spettro evanescente, completo di baobab e sagome teatrali di giraffe in lontananza, basta per snudare gli artigli e far tremare nelle loro scarpe gli impreparati carcerieri, o ancora meglio, il loro pubblico pagante, con i pargoli innocenti delle aspettative…. E gli avidi spettatori che, da casa, ricevono la storia così così filtrata: un ASSALTO terribile e SCONVOLGENTE condotto dall’efferata BELVA che con IMPRUDENZA è stata trasformata in una vittima ed ora è carica di un giusto RANCORE. Credete che il bambino si sia salvato? Volete fare un’ipotesi? Si però, mi raccomando, prima di passare al meteo di domani sarà meglio che facciate in modo di conoscere lo stato di salute della vittima del brutale ASSALTO. Click, click! cli-click.
Il che non significa, naturalmente, che l’intera questione sia una montatura allestita ad arte: l’altro recente fatto di cronaca in materia di zoo, relativo alla triste fine del gorilla Harambe dello zoo di Cincinnati ucciso per salvare il pargolo caduto nella recinzione, dimostra ampiamente come un animale tenuto in cattività possa essere altrettanto pericoloso, per lo meno in determinate circostanze, di uno che ha trascorso la propria intera vita potendo contare unicamente sulle proprie forze e spirito di sopravvivenza. Il fatto è che i più grandi predatori, o difensori del territorio emerso che l’ecosistema terrestre abbia saputo produrre in milioni di anni di evoluzione, potranno anche essere stati sottoposti ad una sorta di lavaggio del cervello, diventando mansueti in funzione delle alte pareti che si frappongono tra loro e l’orizzonte. Ma la forza dei loro muscoli possenti, le armi che possiedono in artigli e denti, lo spirito indòmito e imponente, resteranno per sempre componenti inseparabili del loro essere leoni, tigri, leopardi. Ed è una questione che molti dei frequentatori di Internet potrebbero conoscere davvero bene, sopratutto in funzione di canali come quello del santuario per animali da riabilitare Big Cat Rescue, di Tampa, Florida USA. Un’istituzione nata verso la metà degli anni ’90 e che adesso, grazie all’opera pluri-decennale della fondatrice e CEO Carole Baskin, è diventata anche un centro divulgativo multimediale con milioni di followers su YouTube e i principali Social Networks. Soprattutto in funzione di segmenti appassionanti come quello qui sopra riportato, che ha per titolo “Mai voltare la schiena ai grandi felini.” Vi siete mai chiesti…Perché?
È una visione quasi comica, tanto appare innocente e spontanea la chiara sete di sangue degli animali che ne diventano i protagonisti secondari, sùbito pronti a far finta di niente una volta che realizzano che è tutto un gioco. Nel breve video, di neanche due minuti, uno dei volontari del parco (purtroppo non ci viene detto il nome) si accovaccia con fare distratto di fronte alle gabbie del leopardo Cheetaro, delle tigri Andre ed Amanda, del leone Cameron e della tigre bianca Zabu, per fare un qualcosa di simile a quanto, nel caso del bambino giapponese, è riuscito gli articolisti di mezzo mondo: girarsi innocentemente dall’altra parte. L’effetto di un simile gesto sulla mente dei carnivori e lampante quanto immediato…

Leggi tutto

Nuove armi contro il ponte più pericoloso degli Stati Uniti

Canopener Bridge

È la morte sibilante che strisciando sopraggiunge sul sentiero, per arrampicarsi delicatamente su per le caviglie di chi transita, senza gettare sguardi cauti in mezzo all’erba. O in alternativa, sopra la sua testa, fra quei rami penduli che vibrano di ostili possibilità fatali. Non è forse vero, che la cose più terribili di questa vita, non le vedi, non potrai riuscire ad aspettartele nell’ora del risveglio? Pensa: cos’è peggio, un grande canyon del deserto largo come un campo da volley, che potrai vedere da chilometri, e se ci cadi dentro per errore, da cui uscire molto presto con la scala; oppure un oscura e sottile crepa nel permafrost del Nord, praticamente invisibile, larga esattamente quanto un corpo umano…Dal claustrofobico, tremendo senso di soffocamento. Incastrato! Come il traffico dell’ora di consegna…Che toglie il fiato ed il piacere al dì lavorativo degli autisti. Di camion. È una spiacevole realtà, questa, ormai davvero molto nota. Del temutissimo viadotto ferroviario di Durham, nel North Carolina, costruito secondo i crismi della tecnica del trestle bridge: concetto semplice, a descriverlo. Giacché anticamente (stiamo parlando della parte maggiore del XIX secolo) prima dell’invenzione della ruspa e del bulldozer, spostare grandi quantità di terra per far transitare un treno in tutta sicurezza se c’erano avvallamenti aveva costi straordinariamente proibitivi. Così succedeva, soprattutto negli Stati Uniti ma anche in Inghilterra e in molti altri luoghi d’Europa, che le compagnie ferroviarie affrontassero in dislivelli disponendo un qualcosa di straordinariamente simile ai tradizionali cavalletti, usati anticamente nei banchetti medievali, ma che in versione assai sovradimensionata, piuttosto che la tavola imbandita, sostenevano il binario stesso, a una distanza dal terreno che spesso variava. Niente di problematico, anche a distanza plurisecolare. Certo, se non fosse che, purtroppo, la gente avesse l’abitudine spiacevole di transitare sotto a quelle cose. Arrivando addirittura, che abitudine davvero preoccupante, a farci colar l’asfalto, seguìto dalle intere moltitudini del traffico gommato col volante! E pensare che non c’erano regolamenti, in origine, per un’altezza minima di sicurezza…
Ah, dannata gravità. Sia punito l’Ente della fisica (in)costante! Che determina come un oggetto lanciato a gran velocità, per la legge dell’inerzia, non possa fermarsi in tempo prima dell’impatto. Con apocalittico fragore, e un disgregarsi delle cose attentamente costruite… Chissà quando, chissà dove. I poveri camion sfortunati, il cui tetto viene srotolato come il tipico involucro del tonno confezionato. Per non parlar dei caravan, letteralmente fatti a pezzi… La maggior parte delle persone che assistono per la prima volta allo spettacolo per il web di quello che viene affettuosamente definito dai locali, e in modo particolare da una singola persona stravagante di cui parleremo fra poco, l’Eleven-Foot-Eight Canopener Bridge – il ponte-apriscatole di tre metri e mezzo – al termine del video chiudono la bocca, poi la riaprono con la più che comprensibile domanda: “Ma non è possibile alzarlo leggermente?” Si, certo che lo è. Al costo di un milione o due di dollari, forse anche di più, senza contare il disagio causato da un arresto prolungato dei treni che lì passano quasi ogni ora. Così la North Carolina Railroad Company, proprietaria del ponte, ha preferito piuttosto installare una trave d’impatto particolarmente spessa e resistente dalla parte del senso di marcia, tale da poter resistere all’impatto di svariati carri armati. Allo stesso tempo. E sarei pronto a scommettere che se avesse potuto, l’avrebbe fatta anche tagliente, per meglio sopravvivere al pericolo dei guidatori disattenti. “Ma allora…” Lo so, anche qeusto è un dubbio ragionevole: “L’amministrazione cittadina non potrebbe, che so, abbassare il tratto di strada che passa sotto al trestle bridge?” Di nuovo si, potrebbe. Se non fosse che lì è situato, fin da tempo immemore, un tratto fondamentale delle fogne cittadine. Apportare delle modifiche, dunque, sarebbe esageratamente dispendioso. Tutto quel che resta, dunque, è una segnaletica perfettamente concepita. E non è che da quel punto di vista, per lo meno, ci sia stato un serio tentativo di risparmio!

Leggi tutto

Come salvarsi dalle sabbie mobili di Morecambe Bay

Morecambe Bay

Il 5 febbraio del 2004, in un freddo giorno d’inverno del Nord-Ovest d’Inghilterra, un gruppo di 38 migranti cinesi stavano per iniziare la propria nuova vita. Assunti illegalmente e senza alcun tipo di permesso, da un duo padre-figlio di commercianti locali per il tramite di un gangmaster, il tradizionale intermediario della loro stessa nazionalità, erano partiti di buon ora da Slyne-with-Hest, sub-contea della città di Lancaster, per inoltrarsi oltre la costa presso la località di Hest Bank. Là dove il cielo era più limpido e l’acqua distante, camminando sulla sabbia color spento, fino al centro di un deserto letteralmente privo di specifici punti di riferimento. Ciascuno di loro, generalmente caratterizzato da un’età che andava dai 20 ai 30 anni, di sesso maschile, volenteroso e in buona forma fisica, iniziò quindi ad eseguire le specifiche istruzioni ricevute dai datori di lavoro: chinarsi, inserire lo strumento di carotaggio, ricavare un buco nel terreno e poi metterci dentro la mano. Una, due, tre volte, finché da quel pertugio non tornava su, miracolosamente, una o più cockles, le particolari vongole native di questo luogo, unico in tutta l’Europa Settentrionale. Un lavoro ingrato, e come spesso capita in simili casi, mal pagato: stiamo parlando, per intenderci, di 5 sterline ogni 25 K. Bene o male, un giorno intero di lavoro. Senza casa, senza famiglia, senza possibilità. Una condizione per uscire dalla quale, si sarebbe disposti a fare qualunque cosa. Praticamente tutto, tranne perdere la vita.
Ad oggi non è totalmente chiaro, nonostante il riuscito recupero di 15 sopravvissuti, che cosa esattamente sia successo per causare il decesso per affogamento dei loro 23 compagni. Né probabilmente, ci fu una sola causa determinante: il fatto è che pianure simili, del tipo quotidianamente ricoperto dall’alta marea, sono sempre infuse di un senso di calma apparente, la stasi più totale. Niente pare disturbare la loro pura essenza, finché la forza gravitazionale della Luna, assistita dalla rotazione terrestre, non causa un lieve innalzamento del livello del vicino mare. E quello, delicatamente, inesorabilmente si propaga fino all’entroterra, ricoprendo tutto e tutti quelli che si trovano sul suo cammino. In particolare nella baia di Morecambe, che in realtà non è affatto un’insenatura costiera ma il vasto delta risultante dalla confluenza tra i fiumi Leven, Lune, Kent, Keer e Wyre, si dice che l’avvenire di questo spaventoso e reiterato fenomeno avvenga “alla rapidità di un cavallo al galoppo”. Potrebbe sembrare un’esagerazione. Forse, dopo tutto, lo è. Ma resta ad ogni modo improbabile, per chi sente una tale storia per la prima volta, il fatto che dei giovani perfettamente abili, sebbene privi di conoscenze approfondite della geografia locale, non siano riusciti in qualche modo a trarsi in salvo dal pericolo, scorgendolo sull’orizzonte da lontano. Ciò perché la vera ragione della loro dipartita, in effetti, è nascosta sotto un velo di apparente sicurezza: la superficie del suolo stesso. E trae l’origine da una sostanza assai temuta, eppure mai abbastanza, uno dei fluidi più comuni al mondo. Il puro fango. Che naturalmente, può trovarsi caratterizzato dalle forme o consistenze più diverse. Ma che nella sua versione maggiormente deleteria, finisce per assumere caratteristiche pseudoplastiche, ovvero diventare un denso fluido non-newtoniano che “si assottiglia al taglio” (espressione tecnica) perdendo la solidità, qualora sottoposto a una sollecitazione improvvisa. Come il passo di un pesante essere umano.
Ciò che succede, allora, è facilmente dimostrabile, come fatto per l’appunto dal nostro Jonny Phillips, l’inviato del National Geographic per la serie I Didn’t Know That, che nell’occasione qui mostrata decise, non senza pentirsene immediatamente, di mettere alla prova le leggende su una delle singole località più pericolose di tutte le isole britanniche. L’avventura risultante, a giudicare dallo stato d’animo dimostrato sul finire del video, sarà destinata a restargli bene impressa nella memoria.

Leggi tutto

Come sopravvivere al pericolo dei pali della luce

This Might Shock You

In questo segmento sulla sicurezza della compagnia energetica dello Stretto di Puget vicino Seattle, che incidentalmente ricorda da vicino lo sketch di una sit-com alquanto dark, viene presentata una situazione possibile, a cui tuttavia nessuno pensa molto spesso. Ci passiamo sotto, oppure vicino, per centinaia di volte l’anno, se non addirittura in ciascun mese; sono una costante delle nostre giornate, appena visibili ai margini del campo visivo, specie per chi vive fuori dal contesto urbano, alternativa stolida e artificiale alla legnosa presenza di un albero, con le sue fronde verdeggianti. E spesso altrettanto pieni di uccelli. Ma va? Eppure sono nondimeno, a ben pensarci, mortalmente pericolosi. La ragione è che in quei cavi, sospesi a quattro, cinque metri da terra, scorre una tensione che si aggira normalmente attorno ai 7500 volt, con un amperaggio tale da risultare sufficiente a cuocere un tacchino nel giro di un paio di minuti al massimo, volendo andarci molto larghi. Inoltre, trattandosi di apparecchiature poste ad ipotetica distanza di salvaguardia dal contatto con qualsivoglia essere parlante e/o pensante (pappagalli esclusi) non sono schermati in alcun modo, costituendo la perfetta frusta castigatrice di chiunque dovesse trovarsi a contatto con la loro crudele essenza, esclusi, per l’appunto, i bipedi volanti. Per una mera questione di conduttività, della quale parleremo più avanti. Ma che cosa potrebbe capitare, ci invita a chiederci il presente video, nel caso in cui un autista molto sfortunato, oppure distratto, dovesse impattare contro la suddetta cosa, causando la caduta della stringa catenaria sul cofano, e da questo fin sull’asfalto che circonda le sue ruote? Egli si troverebbe a due centimetri dalla morte, questo è poco ma sicuro. Avendo, in ultima analisi, soltanto una speranza di salvezza: l’aver visto questo video, o un altro simile, tra i tanti disponibili sul web.
La scenetta inizia in modo già piuttosto preoccupante. Il simpatetico protagonista, alla guida per viali di campagna del suo fuoristrada Toyota, rigorosamente senza usare la cintura di sicurezza (ehi, non è un video dell’autorità STRADALE!) parla animatamente al telefono con la moglie o fidanzata, avendo per lo meno la prudenza di affidarsi a un vivavoce. Senza sapere, tuttavia, come nel frattempo stesse per sopraggiungere in senso contrario una ragazza, il cui concetto di utilizzo dello smartphone al volante di un’altra auto, sull’immediato, ci appare come niente meno che follia totale: lei starebbe infatti a quanto pare, scrivendo un SMS. O un’E-mail? Il che la porta, bellamente, ad invadere la corsia del senso opposto, rischiando un frontale con il tipo del SUV. Che forse, forse l’avrebbe potuta anche evitare, se non fosse che in quel fatidico momento stava riagganciando la chiamata, staccando gli occhi dalla strada per premere un pulsante sul cruscotto. E basta un attimo, per… Dissolvenza in nero. Nella seconda scena, il disastro è già avvenuto. L’uomo, per evitare l’altra macchina (guarda caso anch’essa una Toyota) ha perso il controllo ed è finito contro il palo della luce, ritrovandosi nella letale situazione di cui sopra, una contingenza di cui molti, assai probabilmente, non sarebbero neppure informati, finendo per aprire lo sportello, scendere dall’auto e fare la reale fine di chi tocca il suolo incandescente nel popolare gioco per bambini “Il pavimento è Lava”. Se non che Jim (John?) O qualunque altro sia il suo nome, per sua fortuna ha “prestato attenzione al briefing sulla sicurezza!” E sa perfettamente, quindi, come comportarsi. Ed è questo, fondamentalmente, il colpo di genio del presente video, che senza passare mai dal facéto al serio, mostra tuttavia il metodo migliore per salvarsi a seguito di un simile incidente. Tutto inizia, neanche a dirlo, da una chiamata effettuata al cellulare. Quello stesso, dannato, amato/odiato, strumento che modifica e connota le nostre moderne vite.

Leggi tutto