La grande diga che ferma il fiume ma NON le navi

Krasnoyarsk HPP

Oggi è relativamente raro, ma si usa ancora. Un pezzo di carta con la filigrana color marroncino tendente al giallo, piccolo e rettangolare, dal valore trascurabile di 10 rubli. Nient’altro che una banconota, risalente all’epoca distante (poco meno di vent’anni) in cui aveva ancora senso stampare il contante di una tale denominazione. Oggi a causa dell’inflazione a cui è andato incontro il suo paese vale, all’incirca, un centesimo di euro. Ciò da un punto di vista meramente materiale. Ma se dovessi scegliere il mio pezzo preferito all’interno di un’ipotetica collezione di carta moneta proveniente dai cinque continenti, molto probabilmente la collocherei tra i primi 10. Perché, voglio dire, guardatela! Da una parte raffigura la svettante cappella Ortodossa di Paraskeva, che dalla cima del monte Karaulnaya domina la vasta Krasnoyarsk, terza città più grande della Siberia. E dall’altra, c’è quello che costituisce essenzialmente, un muro. Ma non un muro come tutti gli altri. Bensì quello costruito, a partire dal 1956 e fino al ’72 (simili tempistiche non sono tanto rare in tali ambienti) per porre un ostacolo invalicabile alle acque vorticanti del possente fiume Yenisey, al fine di sfruttarne la potenza per alimentare la fiorente industria metallurgica locale, responsabile per una significativa percentuale di tutto l’alluminio che si trova, oggi, nel mondo. Ed ecco, quindi, il problema: l’elettricità è importante. Ma altrettanto fondamentale, in una zona dall’alto grado d’industrializzazione come questa, dovrà necessariamente essere la principale via acquatica che collega questa verdeggiante regione, graziata dal microclima che si crea grazie alla presenza del grande lago Baikal, alle propaggini settentrionali della Mongolia. La soluzione per mantenere entrambi gli interessi allo stesso tempo, dunque, non era facile da concepire. La soluzione scelta in questo caso, è stata un…Ascensore.
O per usare la definizione tecnica, un “piano inclinato per imbarcazioni” e nello specifico, il più grande che sia mai esistito al mondo. Per apprezzare a pieno le dimensioni ciclopiche di cui stiamo parlando, sarà dunque opportuno prendere coscienza delle misure di questa diga. Con i suoi 124 metri di altezza ed 1 Km di lunghezza, la Krasnoyarsk HPP (Hydro Power Plant) è la decima centrale idroelettrica più vasta al mondo, nonché la seconda in tutta la Russia. La sua presenza, imposta sul corso del grande fiume per specifico decreto del governo centrale dell’epoca sovietica, ha creato un lago artificiale di 2.000 chilometri quadrati, chiamato informalmente il mare di Krasnoyarsk. L’elemento del paesaggio, che ha una forma allungata che si estende per 388 Km, dall’epoca della sua costituzione ha trasformato in insediamenti costieri le cittadine di Abakan, Krasnoturansk e Novoselovo, mentre molto meno fortunata è stata la comunità di Abakan, abitata da alcuni degli ultimi esponenti delle tribù dei Khakassky. Che fu trasferita poco prima di inondare i pascoli dei loro armenti, senza un eccessivo occhio di riguardo all’importanza della della Storia. Oggi, questa diga ferma un tale volume d’acqua, che quindi rilascia gradualmente tutto l’anno, da impedire la naturale glaciazione invernale del fiume Yenisey, creando un’importante discrepanza di temperatura tra quest’ultimo ed il clima circostante. Con il risultato di formare una nebbia dovuta alla condensa, tale da ricoprire completamente la città che da il nome alla diga, immergendo i suoi abitanti in un perenne stato di foschia e scarsa visibilità. Ma giammai, privarli del piacere d’imbarcarsi in piccole crociere fluviali fino alle piacenti dacie di famiglia, o i numerosi resort turistici disseminati in questa regione insolitamente temperata…

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I sette addetti alla Marina Militare della Mongolia

Mongolian navy

Una singola nave, un lago ghiacciato per metà dell’anno, due marinai che sopravanzano le cinque dita di una singola mano. Soltanto quello corrispondente al pollice, che sa nuotare. Ovvero Batbayan, l’uomo che dichiara in discorsivo sottotitolo: “Vorrei un giorno riuscire a vedere il vero mare.” Perché: “Le acque dell’Hôvsgôl Nuur sono fredde e inospitali.” E conclude la comparazione: “Mentre il vasto Oceano…Io me lo immagino caldo, sereno ed accogliente.” Ehm, più o meno… Chi siamo noi per contraddire, dopo tutto, la singola risorsa umana più importante di un’intera forza nazionale, responsabile di innumerevoli salvataggi dei colleghi più distratti negli anni, ciascuno a sua volta costituente, se vogliamo, un settimo della Mongolia per mare. Dotata di… Un supporto a terra per gli aerei? Una nave da battaglia. Un trasporto per le truppe. Tutti ruoli, rigorosamente potenziali, rivestiti dalla loro poderosa Sukhbaatar III, un vascello di rifornimento d’epoca sovietica, a suo tempo orgogliosamente iscritto nei registri del governo locale come prima rappresentante di una lunga serie di navi sorelle, che in ultima analisi non ebbero mai occasione di concretizzarsi. E che oggi continua la sua antica missione, parzialmente dimenticata.
Si potrebbe definire l’insieme delle forze militari di un paese come una piramide invertita di colore verde oliva, in cui più si sale, maggiore diventa la quantità di uomini al comando di un solo ufficiale: squadra, sezione, plotone. Seguiti da: Compagnia, battaglione, reggimento. E poi brigata, divisione, corpo d’armata… Finché non si scorge sopra a tutto il resto, come un vessillo identificativo d’eccezione, quel termine mirato a definire tutti gli altri: l’Arma. L’Esercito Italiano, ad esempio, ne possiede tre: terrestra, navale ed aeronautica. Negli Stati Uniti d’America, a queste si aggiungono la guardia costiera e i marines. Ma detta stratificata suddivisione va ben oltre una semplice attribuzione delle responsabilità, giungendo a regolare anche la logistica in tempi di guerra, determinando chi debba ricevere i rifornimenti, quando, come e perché. Un sistema certamente antico, che in molti sarebbero più che mai pronti a far risalire fino ai tempi dell’esercito romano, per il semplice fatto che chi altro, prima o dopo di allora, poté mai vantare un simile curriculum di conquiste, guadagnate presso i campi di battaglia dell’intero mondo conosciuto? L’unica risposta possibile, nonché del tutto ovvia: loro, gli arcieri a cavallo d’innumerevoli tribù, instradati ad una singola missione dall’eternamente celebrato Gengis Khan. Indubbiamente uno dei maggiori capi dell’intera vicenda storica umana, almeno fino alla prime propaggini della modernità. Che seppe sfruttare, con il massimo profitto, un sistema per certi versi primordiale, eppure chiaramente efficiente, almeno quanto le coorti e le legioni di coloro che erano venuti prima: l’orda, singola e indivisibile, semplice, diretta, numericamente priva di limitazioni. Ovvero uno stuolo d’armigeri, che poteva raggiungere il milione di unità, nei periodi delle grandi migrazioni, come altrettanto facilmente suddividersi in innumerevoli gruppi e clan familiari, ciascuno totalmente in grado di sopravvivere per proprio conto. Ciò perché quando un’armata non ha frazionamenti numerici a condizionarla, tenderà naturalmente a contare sul suo naturale spirito di coesione. Ed è così che appena sette uomini, riescono a formare una Marina.

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La leggenda dei tremendi ponti siberiani

Siberian Bridges

Sarebbe particolarmente difficile, ritengo, negare il fascino estemporaneo che possiede per la nostra natura umana, il tema del viaggio. Quello spostarsi talvolta alla ricerca di un qualcosa, di eterno e imponderabile, che costituisce forse la natura e il senso stesso dell’esistenza. Ed è chiara e impressa nella mente quell’immagine, quasi allegorica nel suo puro ed assoluto simbolismo, della striscia percorribile, che corre a perdersi verso il punto di fuga all’orizzonte: asfalto, aiuole, aria di campagna. Tutto è splendido, nella presunta prefigurazione di una sconfinata pianura, dove esistono soltanto i punti d’interesse. Ma non c’è in effetti niente di più irrealistico, a questo mondo, che dare per scontata la continuativa persistenza di un contesto ideale. Quando il pianeta, frutto di sconvolgimenti vulcanici e derive pressoché spropositate, poggia sopra un mare di magma che frammenta, crepa e spacca il suolo. E sopra un tale susseguirsi di vertiginosi dislivelli, cosa fare…Se non costruire, tra l’alba e il tramonto dell’anélito e il bisogno, una struttura che è fondamentale alla sopravvivenza quanto l’edificio del granaio, il canale d’irrigazione, l’acquedotto della civitas; ovvero quella cosa, il ponte. Ed è lì, che si palesa la fondamentale distinzione della qualità.
Perché se pure tutti i ponti sono simili, almeno in potenza e nello scopo alla base della loro stessa messa in opera, è la condizione di contesto che immancabilmente può variare: e tutto pare accettabile, persino ragionevole, purché basti a continuare quel meraviglioso spostamento lungo l’asse orizzontale. Finché BAM, non giungi qui, per l’appunto, alla BAM – quel tratto di collegamento prevalentemente ferroviario, ma affiancato da una sorta di primitivo servizio per veicoli stradali, che prende il nome esteso di Baikal-Amur, dal nome rispettivamente del lago più profondo del mondo, presso la cui punta superiore il tratto ha la sua origine, e da quello del fiume Amur che sfocia nell’Oceano Pacifico, vicino al confine della Manciuria. 4.324 Km a partire dall’oblast di Irkutsk, confinante con la Mongolia e fino alla remota Sovetskaya Gavan, città portuale posta innanzi alle isole Sakhalin. La doppia strada, alternativamente ferrata, asfaltata o fangosa, misura dunque poco più della metà della mitica Transiberiana, ma con una significativa differenza: quei circa 4.200, tra attraversamenti pseudo-architettonici di fiumi, laghi, dirupi e fosse, in diversi stati di abbandono, principalmente a causa del poco utilizzo e delle condizioni climatiche spesso particolarmente proibitive. Perché quando fa freddo in Siberia, come probabilmente è cosa molto nota, non fanno “appena” zero o -10 gradi Celsius, ma un qualcosa di variabile tra i -20 e -30, sufficienti a mantenere uno strato quasi perenne di permafrost ghiacciato estremamente spesso, che nei suoi occasionali eventi di disgelo si spacca triturando, letteralmente, tutto quanto ciò che è stato costruito dalla mano degli umani. A ciò va pure aggiunto come la BAM, nonostante i grandi piani del premier Leonid Brezhnev (controllo del paese: 1964-1982) che l’aveva definito “il progetto d’ingegneria del secolo”, non venne completata nei tempi e modalità previste, con una progressiva quanto inesorabile caduta nel disuso, scivolando dalle 180 milioni di tonnellate annuali di merci previste in origine a solamente 8 per il binario occidentale, 5,5 per quello orientale. Per non parlare poi della rete stradale ombra, quel percorso parallelo costruito all’epoca per l’impiego da parte della forza lavoro e successivamente riconvertito ad arteria permanente, usata per collegare tra loro gli innumerevoli villaggi, paesi e cittadine sorte quasi spontaneamente lungo il suo tracciato a partire dal 1972, l’anno in cui circa 50.000 entusiastici giovani russi, definiti “gli eroici BAMovcy” partirono per le regioni più remote della taiga siberiana, convinti dalla propaganda di partito a legare il proprio nome e la propria opera alla costruzione di quella che sarebbe diventata un’importante risorsa strategica per i commerci verso il grande Oriente. Forse non sapendo, e come avrebbero potuto? Che molti di loro si sarebbero poi stabiliti in questi luoghi, per non farne ritorno mai più.

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Non è un pipistrello, è Taro lo scoiattolo volante siberiano

Pteromys Volans

Soffice batuffolo biancastro con la striscia sulla schiena, gli occhi vasti e neri come biglie della notte. Tra i primi mammiferi che vissero l’estasi di camminare fino in fondo al ramo dell’albero, per fare quindi un altro passo e…Ritrovarsi in mezzo al nulla che precede l’attimo finale dell’apprendimento: cadi, cadi verso il suolo, oppure via, verso i remoti orizzonti della gloria. I roditori vivono ad un ritmo differente. Per molti ottimi motivi. La bocca spalancata di un serpente russo oppure gufo dei granai, la distante essenza di una fascinosa femmina sulla corteccia di altre circostanze, la fame delle ghiande sulla quercia più vicina. Il bisogno, insomma, di spostarsi senza perdere del tempo, cosa che immancabilmente può implicare un ottimo significato. Non è sufficiente un’ottima ragione, per volare! Però aiuta, soprattutto tutti quei piccoli roditori che non amano attardarsi sulle strade della vita, siano queste disegnate virtualmente su di un essenziale sottobosco, oppure vivide nella mente dell’esploratore, colui/lei che ragiona tanto spesso in termini di rotte, ma soltanto verso il desiderio. Corridoi del tutto affini a quelli di un velivolo di linea, sulla pista d’aeroporto, benché sia difficile giungere a definire la corrispondenza arborea del piccino in questione con il termine “decollo”. Ciascuna delle specie animali rientranti nella sotto-famiglia degli Sciurini e che sia in effetti anche dotata della tipica membrana del patagium, o paracadute naturale (ovvero non tutte) più che altro plana, verso l’obiettivo. Benché il più delle volte, osservandone un rappresentante da lontano, sia molto difficile rendersene conto, visto come uno di questi esseri possa facilmente raggiungere anche i 100 metri per un solo lungo balzo, con ratei del rapporto tra la conservazione della planata e la distanza percorsa anche al di sopra di un corposo 3.31. Ah, scoiattolo volante: tutti lo desiderano, vorrebbero poterlo amare, lievemente accarezzare. Soprattutto nel caso, particolarmente grazioso ed attraente, delle uniche due specie diffuse nel Vecchio Continente, gli appartententi alla famiglia degli Pteromys: splendido Volans ed ottimo Momonga.
Sono animali tanto simili tra loro che in effetti, almeno in un paese, vengono definiti collettivamente con lo stesso nome: scoiattoli di Ezo, ovvero di quelle terre innevate che vanno dall’Hokkaido giapponese fino alla media Siberia, antico punto d’incontro tra culture tanto differenti. E fa una certa impressione pensare a simili graziosi esserini così sperduti tra le nevi senza tempo, nascosti nel cavo di alberi semi-ghiacciati. Sono infatti abituati a climi così impervi e terre talmente remote, tali ispiratori di almeno un Pokémon o due, che la maggior parte delle persone li ha potuti conoscere soltanto all’interno di un luogo come questo: lo zoo per bambini di Maruyama, dove viene ospitata, ormai da anni, un’intera famigliola della genìa fluttuante, i cui membri più cresciuti sono assurti ormai da tempo al rango di celebrità. Il protagonista del video in questione, guarda caso, vanta un tipico nome da eroe da romanzo: quel Taro o Tarō che significa letteralmente “primo figlio” (della foresta? Del cielo e della terra?) Ma che può anche essere scritto, liberamente, con i caratteri usati per i termini: forte, coraggioso, infuso del principio ultimo della virilità (太郎) Melodioso e prolifico, armonioso (多朗) oppure alto (quanto) una cascata. Il che naturalmente, poco si addice a una creatura che misura appena una ventina di centimetri, dalla punta del suo naso fino alla sua folta, piumosa e lunga coda.

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