Quando nel 1845 l’esploratore poco più che trentenne di origini tedesche Ludwig Leichhardt fece il suo ingresso nel plateau di Arnhem pochi anni prima di sparire misteriosamente, presso i remoti confini dell’Australia settentrionale, non tardò a notare l’apprezzabile diffusione di una certa quantità di macchie rosse e azzurre tra la rigogliosa vegetazione locale. Alcune immobili, altre inclini a rapidi spostamenti diagonali, tali da portarle a collocarsi tra cespugli, sopra i tronchi e in mezzo all’erba più alta di quei luoghi raramente battuti da visitatori umani. Soltanto a un’analisi più approfondita, dunque, gli fu possibile identificare tali anomalie zoologiche come rappresentanti locali del grande ordine degli ortotteri, contenente alcuni dei più riconoscibili, notevoli ed amati/odiati insetti inclini ad interferire con un funzionale sfruttamento agricolo del territorio. Tipologia d’insetti particolarmente diffusa nell’intero continente d’Oceania, con oltre 2.000 specie differenti molte delle quali endemiche di questo solo vicinato del mondo; anche se, risulta opportuno specificarlo, nessuna cromaticamente eccezionale quanto quella destinata da quel giorno a portare il suo nome, così strettamente interconnessa alla cultura aborigena ed il repertorio artistico delle popolazioni locali.
Prima dell’arrivo degli Europei, infatti, questo essere veniva strettamente associato al dio della tempesta Namarrgon, raffigurato con il suo riconoscibile aspetto in mezzo alle pitture parietali risalenti alla Preistoria, mentre con le asce collocate in corrispondenza delle sue antenne colpiva le nubi durante le stagioni primaverili, scatenando i terribili acquazzoni stagionali che fino a tal punto influenzavano la vita delle tribù locali. Stiamo in effetti qui parlando di un artropode della lunghezza media di 11 cm, per di più prolifico a sufficienza da poter idealmente condizionare in modo apprezzabile la natura proprio come annunciato dalla sua colorazione aposematica, per una volta corrispondente all’arma chimica effettivamente esistente di una secrezione dal gusto sgradevole prodotta dalle ghiandole situate sulla schiena. Come apprezzabile dall’assenza di lunghe antenne sulla sua caratteristica testa conica, la cavalletta di Leichhardt appartiene al sottordine delle Caelifera, creature meno inclini rispetto alla tipica locusta africana o asiatica a forma sciami in grado di spostarsi per molti chilometri come tragiche piaghe d’Egitto. Il che ha sempre teso a farne piuttosto il soggetto occasionale di fortuiti avvistamenti, presso luoghi per lo più disabitati ove erano soliti crescere i cespugli del genere Pityrodia, pianta aromatica della famiglia della menta dal caratteristico fiore tubolare. Perfettamente fornita, dal punto di vista ecologico, degli strumenti necessari a sopravvivere all’attacco reiterato di questi famelici erbivori, che dopo essere usciti dalle uova deposte nel terreno effettuano la muta e raddoppiano le proprie dimensioni fino a 7 volte, prima di giungere alla loro variopinta forma finale dell’età adulta. In un processo in grado di richiedere fino a cinque mesi, durante l’estate meridionale tra aprile e dicembre e che ne vede la popolazione inerentemente tenuta sotto controllo per l’insorgere di frequenti incendi stagionali. Facilmente distinguibili diventano, quindi, i maschi dalle femmine a causa di una forma più piccola e snella, causa l’assenza delle uova all’interno del loro corpo, e funzionale all’abitudine frequente di restare attaccati per lungo tempo alla schiena della compagna, facendo per quanto possibile la guardia di quella che dovrà presto diventare la loro prole.
Rimaste a lungo prive di una classificazione tassonomica efficace, soltanto in epoca recente queste cavallette sono state inserite all’interno della famiglia con diffusione pan equatoriale delle Pyrgomorphidae, creature dotate di alcuni aspetti comuni tra cui la conformazione dell’apparato riproduttivo, la scanalatura al centro del pronoto (parte anteriore del corpo) e le abitudini alimentari. Tanto che a molte migliaia di chilometri, presso un diverso segmento di quel puzzle geologico che era stato il supercontinente Gondwana, è possibile trovare un suo letterale fratello separato al momento della nascita, il cui aspetto è definibile, se vogliamo, ancor più sgargiante e memorabile della variante australiana…
tossine
Nervi saldi, sguardo fisso e sulla mano il ragno più pericoloso al mondo
È possibile sentire un freddo che s’insinua dalle punte delle proprie dita, penetrando attraverso il sistema linfatico fino agli organi, le ossa e nel cervello? Chiedetelo al vecchio Albert. Differenza tra temperatura percepita e gradi che segna il termometro sul muro della stanza: 30/40/50 gradi. QUESTA è pura ed assoluta Relatività. Ma piuttosto che il più tipico dei buchi neri, a far piegare l’orizzonte degli eventi qui ci pensa un qualche cosa che a una scala di sicuro personale, riesce non di meno a far cambiare le comuni leggi e norme dell’Universo. Di cunicoli, la letteratura di settore ne ha parlato in più di un caso: le cosiddette porte di Einstein-Rosen o wormhole, scorciatoie gravitazionali ipotizzate da un luogo all’altro dello spaziotempo, dovute alla contrazione delle particelle subatomiche per la forza e la pressione di un’assurda gravità. Ciò che in molti non avremmo mai potuto immaginare, a tal proposito, è che talvolta non soltanto al loro interno potesse trovar posto un ragno (spider) invece che un verme (worm), ma che la zampettante alternativa, a suo modo, potesse avere un tale effetto anche in assenza del cadavere collassato di una stella.
Sto esagerando, forse? Basterebbe, per formarsi un opinione, erigere il complesso ponte di collegamento empatico mediante YouTube, per mettersi in contatto con l’utente dell’Australian Invertebrates Forum che nel qui presente spezzone, sembra aver abbandonato ogni presunto istinto d’autoconservazione personale. Facendo quella cosa che, lo insegnano persino ai bambini del più remoto continente, non si dovrebbe mai neppure iniziare a concepire: raccogliere l’Atrax Robustus o ragno dei cunicoli di Sydney a mani nude. Perché…”Vedete, non è poi così cattivo come si dice” e “…Dopo tutto, a chiunque potrebbe capitare nella vita di trovarsi a doverlo fare” (uhm…) Entrambe affermazioni che, per quanto strano possa sembrarvi, possiedono una base di effettiva verità. La prima perché, è del tutto innegabile nei fatti, c’è stato nell’ultimo anno uno sfrenato passaparola, a partire dall’iscrizione di questa creatura affine alla famiglia delle tarantole che misura un massimo di 5 cm nel Guinness World Record ad ottobre del 2018, sulla terribile natura del più osceno mostro di questa Terra, presumibilmente capace di uccidere con la facilità e la rapidità dello sguardo di Medusa in persona. Il che, per quanto funzionale ad un profittevole senso di prudenza, non può che prescindere dall’effettiva realtà che vede questi ragni come assai comuni nella vasta città da cui prendono il nome dove, tanto per essere chiari, non si sono registrate morti in alcun modo connesse al loro veleno almeno a partire dal 1981, anno in cui i Commonwealth Laboratories di Melbourne riuscirono, finalmente, ad elaborare un siero. Ed anche prima, il loro dolorosissimo e comunque grave morso risultava un pericolo “soltanto” per individui malati o bambini. E poi c’è l’altra questione, esagerazione a parte: poiché per produrre la suddetta sostanza che può salvare vite in quantità rilevante, occorre una quantità enorme di ragni, ciascuno dei quali “munto” fino a 70 volte per iniettare il risultante cocktail, in dosi crescenti, in copiose schiere d’incolpevoli conigli, capaci di sviluppare in tal modo anticorpi che vengono conseguentemente imbottigliati per chiunque dovesse presentarne l’urgente necessità. Il che comporta, nei periodi di scarsità per un eccessivo utilizzo, vere e proprie esortazioni su scala nazionale da parte dei laboratori coinvolti, alla cattura da parte del pubblico e consegna sistematica di esemplari preferibilmente maschi, i quali in maniera piuttosto atipica, costituiscono i più pericolosi della specie e non soltanto per l’abitudine di vagare liberamente in cerca della compagna, che resta invece al sicuro nella sua buca sotterranea aspettando il passaggio di eventuali prede. Ma anche per la maggiore quantità ed a quanto pare potenza del loro veleno.
Senza contare il caso in cui una volta morsi, la procedura preveda cattura e trasporto del ragno colpevole assieme a noi verso il pronto soccorso. Possiamo dunque davvero affermare, con due oceani e infiniti chilometri di terra emersa tra noi e l’Australia, che il tipo di abilità trasmesse da questa sequenza siano del tutto diseducative?
Il ragno violino e i suoi terribili cugini americani
“Ero spaventato ma non troppo. Maneggio ragni ogni giorno. L’acqua li manteneva in uno stato di torpore assoluto sulla mia mano.” Questo diceva l’esperto di entomologia Quaoar Power, e tutti sarebbero stati pronti a dargli ragione vista la quantità di registrazioni eccelse da lui pubblicate su YouTube. Se non fosse che i due piccoli soggetti dell’esperimento, nella fattispecie, appartenevano ad altrettante specie notoriamente pericolose degli Stati Uniti, o persino letali per l’uomo: la vedova nera (gen. Latrodectus) e il recluso marrone (Loxosceles r.) a noi più noto nella sua forma e accezione mediterranea, notoriamente denominata sulla base della figura a forma di strumento musicale in corrispondenza del cefalotorace. Un pericolo più che mai attuale, vista la pubblicazione di ieri presso diverse testate locali e nazionali relativa ad una nuova serie di avvistamenti, localizzati in modo particolare nei quartieri Ardeatina e Laurentina del sud di Roma. Sembra addirittura che si siano verificati anche una serie di ricoveri presso ospedali non meglio definiti. La cosa strana è che la notizia, per lo meno nella sua versione proposta e ripetuta dai quotidiani online, è molto vaga e sembra fare riferimento, in maniera specifica, soltanto a “un uomo di 59 anni che ha rischiato la necrosi del braccio”. Il quale non può che essere, a meno di straordinarie coincidenze, il vigile urbano di Trento che lo scorso aprile, mentre effettuava dei lavori di ripristino in casa, era stato morso in maniera del tutto indolore, riportando a distanza di un paio di giorni conseguenze terribili: un degrado di tessuti tale da far pensare a una possibile amputazione, oltre a un malfunzionamento sistemico di fegato e cuore che in breve tempo l’avrebbe certamente ucciso, se non fosse stato salvato all’ultimo momento dai medici esperti dell’ospedale della sua città. Un simile fraintendimento fa parte di uno specifico copione, spesso ripetuto anche su scala internazionale.
Ora, non sto certo affermando che la notizia sia fondata sul nulla: assai probabilmente, il caldo di questi ultimi giorni ha causato un risveglio di molte delle 1.534 specie di ragni classificate in Italia, inclusi gli esponenti delle due temute famiglie messe in mostra sulla mano dell’imprudente Quaoar: la malmignatta (vedova nera nostrana) e per l’appunto, il ragno violino. Ed è dunque possibile che alcuni malcapitati cittadini romani, incontrandoli all’interno di magazzini polverose o edifici poco percorsi dagli umani, siano rimasti feriti dai loro piccoli cheliceri grondanti una pericolosa necrotossina. Ma le ondate di avvistamenti a seguito di singoli morsi diagnosticati di un ragno tanto difficile da identificare, almeno negli Stati Uniti, sono un’occorrenza straordinariamente comune. Al punto che, secondo uno studio effettuato recentemente, dei 581 avvistamenti registrati in California nel corso dell’ultimo anno soltanto 1 era effettivamente un Loxosceles, per caso trasportato da una famiglia del Missouri assieme ai bagagli del proprio trasloco. In America, dunque, grazie a una pubblicazione dell’università di quest’ultimo stato, posto grosso modo al centro dell’areale del ragno, esiste un sistema mnemonico proposto ai medici del pronto soccorso contro il rischio di falsi positivi, che si basa sull’espressione NOT RECLUSE. Acronimo di quanto segue: Numero (la lesione dovrebbe essere soltanto una) Occorrenza (il paziente racconta una storia credibile) Tempistiche (aprile-ottobre è la stagione) Rosso (il centro della ferita non dovrebbe mai avere quel colore) Elevato (niente gonfiore) Cronico (dura da più di tre mesi) Largo (la necrosi deve essere circoscritta) Ulcerazione (normalmente è assente) Gonfiore (Swollen) e Produzione di pus (Exudative). Tutto questo per dire che, nell’assenza di due o più di queste condizioni, viene considerato altamente improbabile che ci si trovi di fronte a un caso clinico di loxoscelismo, la malattia causata dall’effetto del veleno di questi ragni piccoli, ma pericolosi. Aggiungete a ciò il fatto che il loro morso risulti essere del tutto privo di dolore immediato, rendendo altamente improbabile che il paziente abbia la prontezza e presenza di spirito di uccidere l’artropode, portandolo con se dai dottori, ed avrete chiaro uno scenario particolarmente favorevole per la costituzione di scenari di frenesia collettiva. Come ampiamente veicolati da un certo tipo di giornalismo tipico del web, soprattutto in un contesto operativo anglosassone e statunitense. Mentre l’aspetto preoccupante della nostra ultima notizia è che in effetti, l’Italia presenta una situazione climatica relativamente uniforme, del tutto adatta al diffondersi e prosperare della specie nostrana, il Loxosceles rufescens, che pur essendo stato poco studiato rispetto alle controparti d’Oltreoceano, viene generalmente considerato meno pericoloso, almeno nei soggetti non debilitati o che non presentino predisposizioni particolari. Il che, d’altra parte, poco importa visto che l’unico modo per sapere se si fa parte del circa 37% della popolazione che sviluppa lesioni necrotiche, o il 14% che riporta condizioni cliniche ancor più gravi, è mettere letteralmente a rischio la propria salute o sopravvivenza.
Un importante ostacolo all’identificazione corretta del ragno violino resta, inoltre, l’esistenza di numerose specie simili e non nocive. Il che, considerato una lunghezza complessiva che raramente supera il centimetro ed il fatto che persino il disegno sul dorso che gli da il nome (comunque poco visibile) non sia affatto determinante, rende assai difficile poter affermare con certezza che la creaturina che si ha davanti appartenga alla specie in questione. L’unico modo sicuro, nel frattempo, sarebbe contare gli occhi dell’animale, che sono soltanto sei contrariamente agli otto di tutti gli altri aracnidi, benché sia ragionevolmente difficile immaginare che una persona comune abbia il tempo o l’istinto di farlo. Occhi che, per la cronaca, sono disposti in tre coppie perfettamente equidistanti, contrariamente al recluso americano in cui si trovano distanziati diversamente. Non che questo comprometta, in alcun modo, la loro capacità d’identificare la preda a cui danno la caccia durante le ore notturne…
Il veleno che ferma lo scorrimento del sangue umano
Nel celebre racconto di Edgar Allan Poe “Il pozzo e il pendolo”, un prigioniero dal crimine misterioso viene sottoposto a una particolare forma di tortura dall’Inquisizione Spagnola: chiuso in una stanza completamente buia, legato ad un tavolo di legno, si ritrova a percepire il movimento di una lama oscillante, affilata come un rasoio, che ad ogni passaggio si avvicina al suo corpo, finché ad un certo punto, giungerà per ucciderlo molto, molto lentamente. Quando per una casistica inaspettata, alcuni ratti non rosicchiano le corde che lo tenevano intrappolato, permettendogli di cercare rifugio verso i margini della sua cella. Ma è allora che le pareti diventano incandescenti, ed iniziano a stringersi, costringendolo verso un buco profondissimo nel pavimento che all’interno della sua mente, finirà per corrispondere al più profondo abisso dell’animo umano. L’evoluzione di determinati animali velenosi, in un certo senso, è come la cella orribile immaginata dallo scrittore americano: gradualmente, la selezione naturale dona al serpente uno strumento d’offesa che gli permetta di cacciare, pur essendo un animale relativamente piccolo e privo di zampe, che dispone di un singolo attacco per catturare la sua preda. È questo il momento in cui il pendolo tagliente raggiunge l’estremità di Levante, caricandosi per effettuare la sua prima oscillazione. Dopo che un numero sufficiente di esemplari/preda viene quindi avvelenato e fagocitato, attraverso le generazioni viene tra loro selezionato un gene che permette alle vittime, gradualmente, di sviluppare l’immunità. In questo momento il pendolo si trova a Ponente. Ma è allora che, senza falla, di nuovo i serpenti trovano un modo per rendere il loro veleno ancor più letale, dando inizio ad un ulteriore, e più basso passaggio della lama torturatrice. E così via… Il pozzo all’interno del quale cadere, nel frattempo, rappresenta l’occasione in cui un essere umano dovesse venire morso, per autodifesa o una semplice sfortunata coincidenza. Possibile che a quel punto, un angelo giunga a salvarlo?
Per la legge infinita della Natura, è letteralmente impossibile che un qualcosa resti uguale. Così anche i serpenti, secolo dopo millennio, possono soltanto adeguarsi al moto del pendolo, diventando sempre più letali. O sempre meno. Ma nel primo caso, la questione è più complicata che la mera elaborazione di “un veleno peggiore”. Poiché una sostanza creata per uccidere qualsivoglia forma di vita, è inerentemente affine all’attacco di un hacker: per quanto esso aumenti il grado di sofisticazione del suo cavallo di Troia, esso non potrà passare per sempre dalla stessa backdoor. Così avviene la diversificazione, essenzialmente attraverso tre vie distinte. Nel primo caso (citotossine) il serpente attacca le membrane delle cellule stesse, sostanzialmente i mattoni costitutivi della vita stessa, iniziando un qualcosa di affine al processo di digestione ancor prima di fagocitare la preda. Si tratta della forma di veleno più primitiva, creata a partire dalla saliva e generalmente associata a zanne corte ed arretrate nella bocca dell’animale. Più pericolosa è la seconda alternativa (neurotossine) che attacca i nervi causando una paralisi immediata, generalmente seguìta dalla morte per soffocamento del soggetto colpito. Alcuni dei serpenti più pericolosi del mondo sono dotati di questo strumento d’offesa. Oggi siamo qui a parlare, tuttavia, di un’alternativa più rara, e per certi versi ancora più terrificante: l’emotossina, ovvero il veleno che attacca direttamente il sangue. Periodicamente, su Internet, compaiono questi video in cui una figura di esperto preleva una certa quantità del suo stesso sangue, lo versa all’interno di un recipiente e vi aggiunge una singola goccia di veleno, immancabilmente appartenente ad un qualche spietato essere strisciante. E ed è allora, nel giro di meno che un minuto, che la sostanza rossa perde quasi completamente la sua forma liquida, trasformandosi in un ammasso gelatinoso: il sangue, in parole povere, si è coagulato. Ve lo immaginate l’effetto di un simile evento all’interno dell’organismo… Quasi istantaneamente, si formerà un trombo, bloccando il regolare funzionamento della circolazione nell’estremità colpita. Quel che è peggio, tuttavia, è il suo potenziale trasformarsi in embolo, per viaggiare lungo le autostrade venose fino ad un organo importante, come il cuore, il cervello o i polmoni. Ed a quel punto, quanto credete che possa restarvi da vivere, anche ricevendo assistenza medica pressoché immediata?
Ma quel che è peggio è che tra l’altro, un singolo serpente non ha bisogno di scegliere soltanto una delle tossine possibili, a discapito delle altre. È anzi piuttosto diffuso il caso di specie che dispongono di due, o tutti e tre i tipi allo stesso tempo, causando uno shock su più fronti che nel giro di letterali minuti, non lasciano alcuna via di scampo all’organismo colpito…