La prova di navigazione fruttariana dell’intraprendente scarabeo di mare

Molti di coloro che hanno visitato l’isola Orchidea e l’isola Verde a largo della costa sudorientale di Taiwan hanno avuto modo di fare la loro conoscenza, conservandone un ricordo ben impresso nella memoria. Sono gli scarabei del genus Pachyrhynchus, parte dell’immensa famiglia dei curculionidi, insetti spesso associati ad una lunga bocca a proboscide con le antenne, che disegnano una sorta di tridente parallelo al suolo detto “il rostro”. Ma l’espressione locale di un tanto variegato gruppo di creature, oltre a mancare di questa caratteristica, presenta svariate differenze con i loro parenti più o meno prossimi dei continenti eurasiatico ed americano: la colorazione metallica iridescente, piuttosto che nera, dalle molte strisce, pallini o altre figure dall’aspetto ripetuto. La dura corazza del proprio esoscheletro, tanto resistente da impedire alle lucertole insettivore di penetrare con l’impeto del proprio morso fino alla parte tenera degli esemplari adulti. E soprattutto in conseguenza di quest’ultimo aspetto, un peso eccessivo per spiccare il volo, che ha portato negli anni alla fusione delle due elitre (coperture delle ali) rendendoli delle creature del tutto incapaci di sollevarsi da terra. Il che non sarebbe tanto insolito, né significativo, se svariate specie di Pachyrhynchus non avessero anche l’abitudine di fare la loro imprevista comparsa sulle coste della Cina, in Giappone e in molte piccole nazioni isolane del Pacifico, spesso con variazioni minime se non addirittura aspetto identico ai loro colleghi disseminati nel vasto areale di appartenenza. In quale modo, dunque, dovremmo pensare che una simile creatura ha attraversato le vaste distese oceaniche per approdare su spiagge distanti?
Da lungo tempo è esistita una teoria: poiché infatti l’esemplare adulto di questo genere presenta un’interstizio cavo sotto la sua piastra dorsale, si era dimostrata in modo empirico una sua capacità innata di trattenervi all’interno una bolla d’aria, capace di garantirne il galleggiamento, anche per i 5 o 6 giorni necessari per essere trasportati a circa 400 Km di distanza dalla rapida corrente di Kuroshio, grossomodo corrispondente a quella del Golfo per l’oceano Atlantico dal nostro lato della Terra. A nessuno, fino ad ora, era però venuto in mente di mettere alla prova l’ipotesi, dando per scontato che soltanto poiché il piccolo animale “poteva” farlo, una simile impresa non avrebbe portato conseguenze nocive sulla sua continuativa sopravvivenza. Nessuno finché a Wen-San Huang del Dipartimento di Biologia dell’Università Nazionale di Chung Hsing a Taiwan, lo scorso ottobre, non venne in mente di procurarsi un certo numero di esemplari adulti di Pachyrhynchus (specie: P. jitanasaius), lasciandoli fisicamente immersi nell’acqua di mare in un’apposita vaschetta del proprio laboratorio. Con il risultato, per certi versi inaspettato, di vederli morire annegati nel giro di appena un paio di giorni. Lungi dal perdersi d’animo, a quel punto, l’intuitivo scienziato pensò di ripetere lo stesso esperimento con le larve, seguite dalle uova, dello stesso scarabeo. Scoprendo che più giovane era la creatura sottoposta a una così dura prova, tanto maggiormente poteva estendersi il suo periodo di sopravvivenza in mare. Il che fece germogliare in lui la radice, o ramo che dir si voglia, di un’alquanto rivoluzionaria idea…

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Kiribati, la nazione che rischia di sparire con l’alta marea

In un apocalittico istante sullo stretto istmo di terra che separa Parigi e Londra, il complicato incastro acquatico che separa arbitrariamente il Pacifico Meridionale da quello Settentrionale sembrò contrarsi, quindi espandersi ricoprendo l’unica strada asfaltata di un’intera comunità di 120.000 persone. Non pensiate neanche per un attimo, tuttavia, che tali nomi abbiano lo scopo d’indicare spazi affini a quelli delle omonime grandi capitali europee. Bensì piccole penisole, unite da uno stretto ponte di terra, ai margini di quella che l’esploratore spagnolo Hernando de Grijalva scelse di chiamare nel 1537 Acea. Ma che col tempo, avrebbe visto il proprio appellativo sugli atlanti trasformato in Christmas Island (Isola di Natale) quindi successivamente, secondo le regole fonetiche locali, in Kirimati. La risacca avanza un po’ alla volta, per poi trasformarsi in una vera e propria onda, sufficientemente alta da ignorare la banchina alta appena mezzo metro, attraversando letteralmente la linea tratteggiata che divide trasversalmente il tragitto per le poche automobili locali. Ciò che avviene dopo, quindi, è una vista al tempo stesso surreale e ben collaudata: l’Oceano si apre per accogliere se stesso. Indisturbata dall’aver attraversato una terra emersa dai confini sempre più sfumati, l’onda procede per il suo tragitto verso l’infinito. Assieme ad essa, qualcosa d’insostituibile procede: il corpo in sabbia e terra di un’intero micro-universo, che potrebbe sopravvivere a un simile trattamento per i prossimi… 20, 30, 40 anni? Lapidi silenti a immota testimonianza, come pietre miliari circondate dalle correnti, qui restano le tombe dei soldati caduti in una delle più sanguinose battaglie nel conflitto tra le forze americane e giapponesi. Quando tutto il resto sarà sparito sotto i flutti, chi potrà riuscire a conservarne la memoria?
Il fatto che occorre specificare quando si prende in considerazione il progressivo declino Atlantideo di svariate nazioni-arcipelago sperdute nel più vasto spazio azzurro dei nostri mappamondi, tra cui quella più spesso discussa è anche la più prossima all’annientamento, è che non si tratta di un potenziale disastro nel remoto futuro di un’epoca impossibile da definire; ma un preciso evento, purtroppo non databile, concettualmente già iscritto nell’annuario dell’oltre 85% di giovani sotto i 25 anni che vivono in questo luogo, molti dei quali sono pienamente coscienti di poter arrivare a costituire, un giorno, i primi esuli di un nazione affondata nella storia del pianeta Terra. Ed è particolarmente chiara, nella mente di molti di loro, l’associazione ed ingiustizia fondamentale dell’intera questione: poiché se esiste un centro nero responsabile dell’attuale situazione del mutamento climatico, con conseguente aumento del livello degli oceani, Kiribati è forse il luogo più distante da esso che si possa immaginare. Pur costituendo quello che, a conti fatti, risente maggiormente degli effetti maggiormente problematici della questione. Di documentari per approfondire la questione ne sono stati girati parecchi, molti dei quali liberamente disponibili online (si tratta, dopo tutto, di una “causa giusta”) e parecchie parole sono state spese dai più celebri ed insigni portavoce del movimento ambientalista internazionale. Quest’isola, assieme all’arcipelago che gli fa da corollario, ha più volte accolto ad esempio Leonardo di Caprio, accorato portavoce del suo dramma dinnanzi al vasto pubblico disposto a prestargli orecchio. Ma la più cupa e orribile verità dell’intera questione, come eloquentemente esposto a più riprese dall’ex-presidente di questo paese Anote Tong, è che “…Abbiamo sorpassato l’epoca in cui era possibile fare qualcosa. La sparizione di Kiribati, ormai, è certa. Per tentare di ritardare l’inevitabile, la gente può contare unicamente sulle sue forze.” E proprio questo è diventato una realtà del quotidiano al di là di queste spiagge, perché come è noto, la speranza è l’ultima ad annegare. E qualche volta sopravvive addirittura, gorgogliando, a una così difficile prova…

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Anno 1899: la nave che sfidò le regole dello spazio-tempo

Esiste una tradizione mai ufficialmente discussa che costituisce l’unico caso in cui un’imbarcazione militare toglie temporaneamente la bandiera americana, per sostituirla con la macabra Jolly Roger: il teschio e le ossa incrociate usato dai pirati dei Caraibi, come i loro emuli di altre regioni del vasto mare. O almeno, questo afferma la diceria: che nel preciso momento in cui ci si ritrovi ad attraversare l’equatore per la prima volta (ed è praticamente impossibile, con le oltre 1.000 persone a bordo dei vascelli più imponenti, che almeno un membro dell’equipaggio manchi di una simile esperienza) ci si dimentichi temporaneamente il proprio ruolo istituzionale con il beneplacito del capitano, per dare inizio all’importante cerimonia di nomina dei nuovi shellback: ovverosia letteralmente, quei marinai che accedono finalmente alla corte di Nettuno, diventando degli “onorati crostacei” potendo finalmente porre un tale marchio sulla propria promettente carriera. Anticamente, a quanto pare, l’evento includeva veri e proprie tecniche di hazing tra cui colpire i malcapitati con delle corde bagnate o assi di legno, quando non addirittura gettarli fuori bordo e recuperarli con la massima calma, in mezzo alle onde spaventose dell’oceano esterno. E benché simili spiacevoli o pericolosi rituali siano oggi soltanto un ricordo lontano, un qualche tipo di rituale, con recite ampollose e vari tipi di commenti umoristici viene compiuto tutt’ora, più o meno rilevante a seconda della tolleranza del proprio capitano.
Varcare questa linea immaginaria che divide l’emisfero settentrionale da quello meridionale, è inutile negarlo, costituisce un momento già notevolmente significativo, in cui si passa istantaneamente dall’inverno all’estate o viceversa. Esiste però un tipo particolare di veterano-guscioduro, il cosiddetto shellback dorato, che in un momento compatibile della propria esperienza pregressa si è trovato ad attraversare un’altro fondamentale confine: quello della linea della data internazionale. Immaginate quindi di viaggiare in senso contrario alla rotazione della Terra, presumibilmente in aereo, a una velocità superiore ad essa. Ad ogni fuso orario attraversato, perderete un’ora, viaggiando idealmente indietro nel tempo. Finché, oltrepassato trasversalmente il Passaggio a Nord-Ovest tra l’Alaska e la Siberia Orientale, questo vostro guadagno dovrà essere “compensato” portando avanti di un giorno il vostro calendario. La cerimonia di nomina dei golden shellback, idealmente piuttosto rara, si verifica in realtà a seguire di un particolare tragitto: quello che separa il Canada dall’Australia. Che diagonalmente interseca, la maggior parte delle volte, l’incrocio esatto tra equatore e linea della data, facendo dei suoi veterani non più meri sicofanti, bensì veri e propri compagni onorati della corte del dio dei Mari. Ma se ora vi dicessi che l’attraversamento, maggiormente significativo nella storia, di questo punto saliente sulle mappe non è in realtà stato compiuto dai fieri depositari di tale nomina, bensì da una nave civile a vapore, alla soglia dell’inizio del secolo scorso e come orgogliosamente testimoniato dalla quasi totalità dei suoi passeggeri?
Sto parlando della SS Warrimoo (dal nome di un villaggio nell’Australia meridionale) il cui capitano ricevette, nel giorno esatto del 31 dicembre 1899, una nota strano appunto del suo vice, esperto utilizzatore di cronometro marino e sestante. “Signore, mi ascolti. Anche in assenza di un dispositivo di geolocazione fatto funzionare mediante il segnale di un carro magico nei cieli, sono riuscito a determinare che la nostra posizione in relazione al preciso momento storico ci permetterebbe, volendo, di diventare l’Alfa e l’Omega dei sette mari…” John Phillips, fresco di nomina da parte della neozelandese Union Company, ci pensò soltanto per qualche secondo. Quindi, con un ghigno fanciullesco, diede l’ordine al timoniere di alterare lievemente la rotta, verso l’inseguimento di un sogno.

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Il pesce lucerna, Stregatto letale dei sette mari

La piccola e splendente aringa, momentaneamente rimasta separata dal branco dei suoi simili, osservò la miriade che si allontanava in controluce. Se fossimo degli psichiatri dei pesci, potremmo ipotizzare che voleva passare qualche minuto da sola a pensare. Se fossimo pessimisti, che una qualche specifica condizione clinica le impediva di sostenere il normale ritmo di quelle pinne agitate dall’ansioso bisogno di sopravvivere e migrare. Fu allora, mentre l’impulso elettrico di un semplice sistema nervoso rimbalzava da un lato all’altro del suo piccolo e scaglioso corpo, che il pesciolino scorse qualcosa di potenzialmente interessante: un sinuoso vermicello, intento a contorcersi, in un punto particolarmente pacifico del fondale marino: “Se chiudo la bocca sua quella cosa traendone forza, ritroverò la voglia di proseguire.” Pensò a suo modo questo feroce predatore di tutto ciò che muovendosi, si presentasse caratterizzato da un diametro inferiore a un centimetro e lunghezza in proporzione. Quindi si avvicinò pacatamente… Fino al momento in cui gli sembrò di scorgere qualcosa tra il fondo scuro del suo ambiente d’appartenenza. Una vista familiare, a suo modo: la maschera della Morte coi due occhi bulbosi e una lunga fessura ricolma di aculei, letterale foro d’ingresso per una morte immediata e liberatrice. Mentre meditava su questa spaventosa e impossibile apparizione ricoperta dai granelli di sabbia, scorse nuovamente l’anellide appetitoso che lo chiamava, mentre un movimento appena percettibile tra la sabbia riconfermava la sua appetitosa impressione. Allora l’aringa fece ciò che gli riusciva meglio: dimenticò il pericolo. E si avvicinò ancora. Ci fu una pausa momentanea, come un attimo nel montaggio di un film dell’orrore. Quindi un lampo di elettricità statica, seguìto da un colpo poderoso, paralizzò immediatamente la povera vittima inconsapevole. E fu allora che il pesce lucerna fece il suo atteso ritorno sul palcoscenico del Creato.
Ora, se io vi dicessi che l’Uranoscopidae (nome che viene dal greco Οὐρανός – Firmamento + σκοπείν – guardare) è una creatura predatrice dai denti aguzzi con due aculei velenosi in grado di uccidere potenzialmente l’uomo, che INOLTRE possiede il pericoloso dono evolutivo degli elettrociti, organi in grado di dare la scossa a chiunque tenti di disturbarla, non avreste potenzialmente dubbi sul suo ambiente di provenienza: un simile mostro deve necessariamente provenire dall’Australia. E non avreste formalmente torto, benché in effetti questa famiglia relativamente omogenea di animali, cosmopolita per definizione, sia stata avvistata per l’intera fascia tropicale del Pacifico, dell’Atlantico e dell’Oceano Indiano, per non parlare del nostro Mediterraneo, dove risulta essere a dire il vero piuttosto comune, sebbene poco conosciuto. Considerate a tal proposito, che ogni qual volta vi dicono che nel caciucco (o zuppa di pesce che dir si voglia) è presente un qualche tipo di “rana pescatrice” ci sono ottime probabilità che si tratti in effetti della specie nostrana del cosiddetto stargazer, il cui nome risulta essere nello specifico Uranoscopus scaber, o pesce prete. E questo nonostante l’intera famiglia composta esattamente da 51 specie (di cui una estinta) non risulti effettivamente imparentata in alcun modo col genus Lophius, predatore abissale dall’ecologia sostanzialmente diversa e noto ai pescatori del Nord Europa come pesce monaco, per la forma squadrata della sua testa che ricorda il cappuccio di un ecclesiastico protestante. Per nascondere un volto che neppure Madre Natura riuscirebbe ad amare. Non che il nostro amico in agguato sui bassi fondali risulti essere, in alcun modo, esteticamente più gradevole di una tale remota controparte…

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