Cane buffo e gatto sulla cuccia trafugata

Pixel the Bulldog

Ah, tauromachia, taumaturgia – dell’orrenda umiliazione. Se soltanto avesse continuato ininterrotta quella cosa! L’antica e sacra opera delle genti di cultura minoica-micenea, in cui giovani aitanti danzavano la danza della morte potenziale, saltellando tutto attorno allo sbuffante, scuro, dondolante, abnorme, raccapricciante, cornuto e portentoso maschio di bovino. Di certo, simili scene non avrebbero mai avuto luogo. Giacché al di là del mare, sulle coste dell’Epiro in cui vivevano i Molossi, tale pratica assumeva forme differenti. Tra cui quella maggiormente significativa, per lo meno agli occhi di una simile tribù, secoli dopo avrebbe dato il nome ad un intera classe di creature a quattro zampe. Erano cani forti e ben piazzati, i loro, che sotto il sole a mezzogiorno, tra i canti e il rullo di tamburo, venivano introdotti nell’arena per sfidare il mugghiante demone dei prati, in una cruda reinterpretazione di ciò che prima era soltanto immaginato per figure o storie senza tempo, come la scena dell’affresco degli acrobati sul toro di Heraklion. Altro che una semplice corrida… Del resto il cane è nato per aiutarci nelle nostre imprese, feconde o distruttive, fin da quando non si chiama lupo, mentre il gatto, il gatto è molto differente. Sceso fluido e silenzioso giù dal piedistallo posto al centro dei santuari egizi, si è instradato e poi diffuso per l’Europa, come bestia differente, non più semplice uccisore di pericolosi roditori. Bensì l’immane dimostrazione, carezzevole con coda elicoidale, che gli dei camminano talvolta in mezzo ai loro servitori, fattosi pelosi, e quando ti concedono qualcosa, in cambio il pagamento: “Sia sollecito” occhi di brage, artigli acuminati: “Ed ingente, rozzo umano” Felix il fecondo, il futuribile, giammai: felice. Gatto è bello ma vezzoso, pacifico, eppure stòlido nel suo carattere, nei gesti. Così avvenne, per il proseguire di generazioni tanto brevi (domestico, seppur per scelta, vuol dire vivere meno dei tuoi padroni) che il massimo ambasciatore dell’intero genere felino si auto-migliorasse nel suo ruolo, raggiungendo vette di assoluto predominio nel suo ambiente rilevante. Sempre più furbo e attento, rigido e affilato come una katana. Talvolta senza peli, sfinge canadese, ancor più aerodinamico e pur sempre svelto, furbo e forte almeno quanto basta. Il che ovviamente, non bastava per il toro, né l’eterno suo nemico.
Pero ebbene il cane, nel frattempo, si è trovato conseguente dalla diaspora dei geni; tali e tanti incroci para-evolutivi, indotti da quel giorno ormai lontano, che dal quattro zampe molossoide ha dato molti frutti differenti, pomi eclettici e distanti tra di loro. Ricondotto a miti consigli dei cinofili, trasformato in utile assistente per la pastorizia, oppure spirito guardiano, le sue metamorfosi si estesero dalla Corsica all’isola di Terranova, in un tripudio di forme, di colori e dimensioni. Finché un giorno, in terra d’Albione…

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Solidarietà tra gechi e una zuffa di Natale

Gechi solidali

È stato recentemente portato alla mia attenzione, durante un dialogo sofistico tra salottieri, che il serpente simboleggerebbe il male. Diceva l’interlocutore di una simile occasione, addirittura, che un paio di milioni d’anni a questa parte, in una sorta di giardino di Eren, o dell’Enel non ricordo, uno di questi animali si sarebbe arrampicato sopra un albero per prendere…Una mela! Lucida e brillante, parecchio strana, perché infusa in qualche modo della conoscenza. Era tale pomo, a quanto pare, una sorta di pegno simbolico della fiducia, tra due persone e un’altra, per così dire superiore. “Beh” Ho risposto io: “Gli ofidi non mangiano la frutta. Al massimo, se fosse stato un uovo!” Così quello, stranamente innervosito ha ammesso di essersi sbagliato, usando la più strana delle strategie: “Vedi, amico…” (Ti conosco appena) “La creatura verde spiraleggiante del racconto non era proprio un ANIMALE” (Ah, no?) “Ma la manifestazione sibilante dell’Avversario, colui che sussurra sempre le più pessime insinuazioni” (Vade Retro!) Davvero, certe Storie andrebbero aggiornate col passar del tempo. Io capisco che c’è un Libro, stampato in molte copie, addirittura Rivelate, oltre al fatto che sostituirle tutte non è Facile, perché c’è un Costo da affrontare. Ma in quel contesto, sarebbe certamente stato meglio usare un geco.
In particolare l’Eublepharis macularius, lucertola crepuscolare maculata dei deserti dell’Asia e del Pakistan, è molto nota per le sue abitudini frugivore. Al risveglio dal suo letargo invernale, quando dissotterra se stessa al sopraggiungere di un clima temperato, puoi vederla che cammina sui muri delle case di mattoni con l’aria condizionata, costruite dai popoli un tempo nomadi al confine delle oasi sul sentiero della seta. Moderne alternative edificate, queste, all’epoca dell’oro di cui abbiamo tale e tanta nostalgia, noi senza il cervello rettiliano di chi ruba pegni altrui. Mentre quella discendente che non ci pensa, saettando a destra e a manca e usando polpastrelli zigrinati, qualche volta s’introduce nelle stanze con finestre aperte. E la senti, prima di vederla, mentre mastica i tuoi fichi, la papaya, mango e pesca e pure l’uva, che hai lasciato in piena vista sopra il tavolo, sbadato. Non lo sai che c’è il geco leopardo, a queste latitudini? Quindi resta lì e ti guarda. Leccandosi gli occhi senza palpebre, con fare impertinente. Difficile odiarla per quel poco che ti porta via. Mangia tutto! Viene unicamente sconsigliato a chi la prende in casa, come bestiolina da compagnia (si, può capitare) di offrirgli la banana, poiché il potassio gli è nocivo, come ai cani e gatti, la comune cioccolata. Che peccato.
Bella la vita per l’animale che vive fra le mura di un’abitazione, o così si usa pensare. Benché domestico non voglia dire familiare, né garantisca, per natura, una particolare protezione dalle regole del mondo. Soprattutto in Thailandia dove, come è noto, non è insolito trovare molte bestie, anche d’imponenza significativa, ben oltre il sacro uscio dell’abitazione. Chissà poi, perché? Convenzioni sociali differenti, forse, oppure sarà l’effetto imprescindibile di quell’ambiente, così selvatico per predisposizione, ricco d’insetti, uccelli e rettili, con zampe oppure senza, con le scaglie se gli va.
Come questo serpentello verde, che in qualche maniera si è trovato, chissà come e chissà quando, ad elevarsi dal terreno. A sufficienza, per lo meno, da poter ghermire la sua preda di giornata!

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Anziano maestro che sconfigge cinque campioni di judo

Kyuzo Mifune

Ah, Kyuzo Mifune! Quando nasceva quest’uomo i fratelli Lumière stavano ancora perfezionando, nel distante continente d’Europa, le tecniche per mettere la luce su pellicola, il primo prototipo di cinepresa. E adesso eccolo lì, oltre 70 anni dopo tale svolta d’epoca, sul palcoscenico finale del suo dojo di una vita. Spesa bene, molto faticosamente. Guadagnandosi, nonostante le due guerre, una reputazione di sportivo insuperabile. E la cintura nera 10° dan, il massimo grado di quel mondo, eternamente dedito al combattimento. Non per niente tutti lo chiamavano a quel punto, “Il Dio del–“. Questo è uno spezzone di The essence of judo un vecchio e interessante documentario, disponibile su YouTube senza una data esatta o altre specifiche di produzione, probabilmente reperito in origine, nonché sottotitolato, dallo stesso utente Mike Fliss, che ne offre la versione integrale di un’ora di durata.
Qui compare lui, lottatore leggero e apparentemente irrigidito dall’età, rigoroso eppure privo di una massa muscolare rilevante, ormai canuto, spigoloso e invulnerabile quanto uno spietato stelo di bambù. E l’intero gotha tokyoita della scuola Kōdōkan, ove era nato, neanche un secolo prima, il concetto stesso di quest’arte marziale moderna, in cui le tecniche di epoca Muromachi (XVI sec.) venivano adattate e limitate a ciò che fosse giusto, ed utile, al di fuori della furia di una guerra. Niente più intento omicida, dunque. Ma non fraintendete questa scena! Non stiamo certo parlando, qui, dell’incontro tra un anziano istruttore in pensione e i suoi pupilli adoranti, la nuova generazione che lui stesso ha contribuito a plasmare, pronta a ricambiarlo con un gesto di rispetto collettivo, lasciandolo trionfare per bontà… Questa durissima lezione, perché di ciò si tratta, è anche lo scontro tra visioni estremamente differenti. Ciascuno dei giovani guerrieri coinvolti si era già meritato, attraverso innumerevoli tornei ed esami, almeno il quinto o sesto grado oltre il colore nero, tracciando, con gli archi e le proiezioni disegnate dagli avversari sconfitti, una sua via del judo lunga e articolata. Che ebbe a condurlo sopra quel tatami, dandogli l’ultima opportunità. D
i superare chi è venuto prima! Nella visione del combattimento dell’Estremo Oriente, anche contesto del mondo circostante ha un grado primario d’importanza. E finita l’epoca di transizione, dopo la fatica fatta dai predecessori, come mai potrebbero loro dar prova di essere altrettanto validi, e possenti? Se non così, allora…

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Street Fighters delle australi circostanze

Kangaroo Fight

Talvolta prendo i miei canguri, tutti quanti i miei canguri e li dispongo attentamente su due file di otto quadratini l’una. Poi li scelgo col cursore, finché non si ode quella voce, FIGHT! C’è un ordine preciso nell’armata dei macropodidi, potenti marsupiali; schiere di studenti dediti all’apprendimento della boxe, come altrettanti monaci di Shaolin, la piovigginosa; poi giovani virgulti, quadri destinati a realizzare grandi cose; e soprattutto, sopra a tutti, gli spietati e intrepidi Dominatori. Sono pochi, tra gli sballonzolanti sgherri coi piedoni, a poter vantare la corona di conquistatore del torneo. Che ricade solamente sulla testa di chi si è saputo imporre sopra il ring caduceo della sua esistenza.
Due ragioni, soprattutto: l’amore di una don-gura. O l’impiego esclusivo di una pozza d’acqua, se ci si trova ben lontani dall’umidità del mare. È l’usanza, lo stilema. Non è chiara la ragione per cui certe volte, il combattimento tra i canguri si trasformi in un complesso rituale, fatto di pose calibrate, gomiti raccolti e veri e propri haymakers, pugni degni del possente Cassius, detto qualche volta Alì. Piuttosto che cercar di sottomettere il nemico, come usano fare i felini o i nostri amici cani, costoro inscenano l’epica storia degna di uno show televisivo. Inizia così: con un colpetto, dato con la zampa anteriore destra, sul collo del prescelto. A quel punto, possono succedere due cose. 1: la sfida viene rifiutata, perché il ricevente si considera incapace di raccoglierla, o in alternativa, è di gran lunga più imponente di quel presuntuoso. Ebbene si, i canguri hanno una certa considerazione per il prossimo troppo sicuro di se, e se possibile, evitano d’infierire. O per meglio dire, riconoscono i meriti sportivi del fair play, e come pugili ante-litteram, si attengono ai principi di categoria. Ma se il guanto artigliato della sfida viene, metaforicamente, distanziato dal terreno, allora 2…
Non c’è wrestling, lotta greco-romana o taekwondo che tenga. Non c’è neanche l’arbitro, tenetemi. Quello che invece salta facilmente all’occhio della mente, è l’invisibile presenza di sei tasti, due manopole in totale: come negli antichi cabinati, del 2000 d.C, in cui Tekken si faceva grande, oltre i limiti di un singolo paese. C’era il karateka giapponese, ovviamente, come pure il thailandese esperto nel muay thai, vedi copione collaudato. In un trionfo di sterotipi, validi fin dall’epoca immediatamente precedente, il russo era massiccio. L’americano, carismatico. E l’australiano, che ve lo dico a fare. Era Roger, dal manto marroncino chiaro! L’esperimento perfettamente riuscito del Dr. Bosconovitch, con coda lunga, orecchie dritte e un ottimo marsupio. Dentro al quale, qualche volta, figurava il suo secondo (per un gran totale di quattro temibili guantoni, due grandi, due più  piccolini). E un tripudio di complementari combo, da studiare.

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