Nell’arena del monaco meccanico

David Bynoe

Quattro torri, con altrettanti cavi, tengono sospesa una testina di metallo. Fluttuando da un lato all’altro del quadrato, questa fa comparire figure geometriche nella sabbia. È la macchina computerizzata costruita da David Bynoe, per un progetto del Telus Spark Science Centre di Calgary, nello stato americano dell’Alberta. Costruendo quei mandala insostanziali, l’interessante invenzione contribuirà, per mesi ad anni, a suscitare nei visitatori un senso florido della curiosità. Cerchi concentrici, quadrati, modelli bidimensionali dell’atomo di Bohr, sequenze molteplici e complesse… L’atto creativo trasformerà quei granuli monocromatici in strumenti di bassorilievi tridimensionali, attraverso la semplice pressione ripetuta di un pulsante. Niente più rastrelli, per cortili giapponesi di eleganti templi Zen. Solo se qualche ragazzo, studiando questo meccanismo, sceglierà di prenderlo a modello, imboccando l’ardua strada dell’ingegneria e della programmazione, potremo dirci veramente soddisfatti. Tutti gli obiettivi sono virtualmente perseguibili. Persino l’Illuminazione.
La mente è alla continua ricerca delle immagini più affascinanti. E c’è un’imprescindibile dualismo, nella tendenza all’astrazione pura, che può portare ad utili fraintendimenti; proprio così, rinasce quest’oggi il giardino delle rocce o karesansui (acqua, piante, pietre) fra le più celebri metafore culturali dell’Estremo Oriente. Un tempo strumento di prestigio, l’ornamento per le vaste residenze dei guerrieri. Poi presunto ausilio alla meditazione, centro disadorno dei più sacri luoghi. E infine, inevitabilmente, gadget.
Trascinato ad Occidente assieme ad altre schegge prive di contesto, negli anni del benessere economico, quando le aziende inseguivano il mito dell’efficace industria giapponese, quello stile paesaggistico è spesso ricomparso negli uffici e sulle scrivanie, attraverso la sua accezione più ridotta: il bonseki. Magari con l’aggiunta di lucette a LED e una piccola fontana. Anche il Natale vuole la sua parte.

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Cane gioca a palla contro il fiume

River Dog

Fra tutte le doti dell’intelletto la più saliente è l’empatia. Leggendo, giocando, studiando ci si proietta oltre i limiti di un solo luogo, verso mondi e situazioni diverse dall’ordinario. Prendi, ad esempio, questo grazioso cane giapponese. Siamo a Kobe, prefettura di Hyogo-ken, grande isola centrale dello Honshu. Con certi animali domestici non sei mai, davvero, una persona ferma e distaccata. Gli parli con voce infantile, ti metti a terra per stargli più vicino e partecipi di un entusiasmo particolare, che si origina fuori dal tuo ragionevole contesto umano. E la tua palla lascia la mano insieme all’anima, che sorveglia impalpabile l’amico a quattro zampe, divertito. Lanciando quell’oggetto diventi come il cane, liberamente in corsa e senza preconcetti. Comprendere a tal punto l’animale libera e schiarisce le menti subissate da mille o più problemi: resti soltanto tu, padrone e lui, beniamino con la sfera rotolante. Pienamente coinvolti, l’uno rispetto all’altro. La vostra sinergia crea un insieme di feedback interconnessi, che si accrescono a vicenda verso qualcosa di più grande. Si medita sereni, senza neanche farci caso.

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L’artista che imbriglia il vento nelle sue sculture

Antony Howe

L’arte di Anthony Howe nasce da una serie di competenze meccaniche straordinariamente personali, che gli permettono d’incanalare il respiro della Terra all’interno di svettanti installazioni metalliche, basate sul principio stesso dell’infinito dinamismo. Nei centri urbani, in prossimità dei luoghi di passaggio e delle piazze, le sue sculture ci ricordano della fluidità del contesto umano, tutt’altro che immanente: un breve attimo nel giardino dei Venti, terreno fertile per la relativa Rosa. Sospeso nel vuoto cosmico, appoggiato su di un sottile strato roccioso posto fra il magma e il gelo più assoluto, il mondo civilizzato potrebbe dirsi il frutto di uno scontro tra forze che tendono a sfuggire dalla nostra comprensione, con estremo impeto e forza generativa. Siamo circondati da mostri invincibili dai nomi antichi, che si scontrano fra loro in una guerra eterna: la fredda tramontana in opposizione all’ostro, levante e ponente che soffiano dai paesi distanti di civiltà agli antipodi, grecale o libeccio, chi vincerà? Sarà meglio, per noi insignificanti ospiti del pianeta, limitarci ad osservare. Mentre i tifoni, gargantueschi, battono le coste del sud-est asiatico e le brezze ostili si congregano nei terribili tornado del Midwest Nordamericano, questo artista ci mostra il lato più mansueto di tali forze, ovvero come l’aria in movimento possa anche creare e modificare strane forme, con gestualità prevedibile, persino ripetitiva. I petali del fiore, senza le sgradite spine. Simili a meduse, planetari e talvolta quasi accidentalmente figurative, con tanto di volto vagamente antropomorfo, le sue creazioni si nutrono di energia eolica creando negli spettatori un senso ipnotico di assennatezza. Alla fine anche la luce, veicolata da pannelli lucidi o specchietti ultra-leggeri, finisce per fare la sua parte.

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L’abbuffata del famelico vagabondo-uccello

Honk

Felix Colgrave è il disegnatore di alcuni fantastici cartoni animati, degni di occupare a pieno merito la “parte strana di YouTube”. I suoi concisi lavori, dallo stile buffo e inconfondibile, dimostrano il modo in cui persino tale favoleggiato luogo digitale, sede di astruse visioni e inspiegabili video-vicende, possa ospitare spunti di approfondimento e ricche considerazioni esistenziali. Il titolo del corto, questa volta, è semplicemente HONK, onomatopea che dovrebbe rappresentare il tipico verso del gabbiano. Perché qui, di gabbiani, ce ne sono di ben due tipi: quello classico e un altro, assai più particolare. Gli esseri umani amano ogni tipo di classificazione e suddivisione tra i regni naturali, tanto che un tempo erano soliti applicarne di simili anche a se stessi. Non a caso diverse antiche civiltá, da Oriente ad Occidente, avevano la caratteristica di essere organizzate in caste, con una netta separazione tra nobili, gente comune e tutti coloro che venivano considerati, per le ragioni più diverse, indegni. Ci sono molti nomi, nel mondo, per questi individui sfortunati: i paria indiani, ovvero gli intoccabili, l’etnia discriminata per eccellenza. I burakumin giapponesi, coloro che si occupavano di compiti considerati impuri, i cui discendenti ancora oggi faticano ad integrarsi. Le popolazioni medievali delle regioni basche, al confine tra Francia e Spagna, costrette ad indossare sgradevoli distintivi di riconoscimento. Oggi si cerca costantemente di muoversi oltre simili pregiudizi. Eppure basta guardarsi intorno per rendersi conto che, nonostante tutto, i fuori casta esistono ancora. Sono i disoccupati senza prospettive, i mendicanti, i senzatetto, i vagabondi… Tutti coloro che sopravvivono ai margini del mondo cosiddetto civile, dimenticati dalla società. Avete mai visto qualcuno dare da mangiare agli animali randagi, mentre poco più in là un povero soffriva la fame? Questa potrebbe dirsi, attraverso la fantasia di un giovane artista australiano, la giusta rivincita del karma.

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