I misteri delle brocche sibilanti peruviane

huaco-silbador

Prima della colonizzazione da parte degli spagnoli, prima della problematica scoperta dell’intero continente da parte del Navigatore genovese con l’appoggio dei regnanti di Castiglia, ancora prima dell’impero sconfinato degli Inca, civiltà delle montagne in mezzo alla foschia del tempo, le variegate ed ineguali terre che si estendevano tra il meridione del Messico ed il settentrione del Perù erano abitate da innumerevoli culture indipendenti, ciascuna latrice di una diversa religione, forma di governo e visione del mondo. Genti come i Mochica (I-VII sec. d.C.) costruttori di alte fortificazioni, che seppellivano i potenti assieme ai loro servitori più fedeli. O gli Huari (VI-XII) coi loro terrazzamenti agricoli sulle pendici andine e i raffinati manufatti in legno duro e tessili di vario tipo. Per non parlare degli antichissimi Vicus della regione di Piura, che li precorsero tutti (1000-200 a.C.) abili nel lavorare la ceramica, il rame e l’oro. Popoli estremamente diversi, ma uniti da un singolo suono ricorrente, o per meglio dire, un’armonia di vocalizzazioni estremamente riconoscibili e caratteristiche: quelle dello huaco silbador, un particolare tipo di strumento musicale, oggi concettualmente più affine ad una certa categoria di oggetti mistici e curiose, usato in circostanze oggi largamente ignote, ed in merito al quale gli etnomusicologi hanno collezionato la più vasta serie di teorie. Ma prima di entrare nel merito, sarà meglio mostrare ciò di cui stiamo parlando.
Per fortuna ne abbiamo la perfetta opportunità, grazie a questo video con protagonista l’esperto peruviano Jose Vitancio Umeres, realizzato in occasione dell’inaugurazione di una mostra del 2012 presso il Museo di Machu Picchu a Cusco, evento per il quale gli era stato chiesto di approntare una postazione dimostrativa a vantaggio dei visitatori, da cui divulgare il risultato di tanti anni di studio, collezionismo ed approfondimento: ovvero un’intera collezione di replicas degli antichi fischietti della sua nazione, creati a partire da alcuni dei più celebri esemplari custoditi nei musei, ma anche sulla base delle sue ipotesi di quanto ed in che modo questi avrebbero suonato al tempo stesso della loro costruzione. E ce ne sono di diverso tipo, da quello più antico e semplice, simile a una bottiglia con due cannule contrapposte, concepita per il soffio d’aria diretto da parte dell’utilizzatore, alla versione più caratteristica e famosa di questi luoghi, detta negli ambienti rilevanti il fischietto ad acqua. L’effetto del suo funzionamento, se osservato per la prima volta, può facilmente lasciare basiti: l’archeologo sperimentale solleva dunque uno di questi oggetti, composto da due recipienti in argilla chiusi uniti da un singolo tubo, l’uno dei quali raffigura l’immagine a tre dimensioni di un lupo con la  bocca aperta. Quindi lo inclina in avanti. Del tutto spontaneamente, mentre i presenti trasaliscono visibilmente, dalla testa dell’animale scaturisce un profondo ululato, molto più realistico di quanto si sarebbe potuto ritenere possibile. E questo, senza che sussista la necessita di usare alcuna cannula per introdurre l’aria polmonare. Ma le sorprese non finiscono qui. Perché terminato il primo ascolto, Vitancio Umeres appoggia il cane e prende in mano un altra doppia bottiglia, questa volta con la forma estremamente vivida di un pappagallo. Al primo accenno d’inclinazione, questa suona con un sibilo intenso. Mentre al momento in cui viene piegata nell’altro senso, mentre un dito viene messo presso un’apertura apposita, si sviluppa un suono tremolante, straordinariamente simile al richiamo dell’uccello dalle piume colorate. Cosa mai sta succedendo? Com’è possibile tutto ciò? Che le bottiglie in questione racchiudano davvero, come vorrebbe la diceria popolare, gli spiriti degli animali stessi, richiamati sulla base del bisogno da innumerevoli generazioni di sciamani e guaritori? Ebbene, ciò è indubbiamente possibile, se si sceglie di attenersi a un sistema delle cose che si basa sul sentimento, piuttosto che la puntualità scientifica. Mentre per chi preferisce attenersi alle spiegazioni più prettamente tecniche, tutto appare finalmente chiaro alla visione in trasparenza di uno di questi strani oggetti…

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Il canto armonico dei mongoli dei nostri tempi

Khusugtun Batzorig

Avete mai sentito di un uomo che riuscisse a tenere due note contemporaneamente? Conoscete quel tipo di musica in cui le vocali vengono così potenziate, fino a dimensioni abnormi, da arrivare a pronunciare una media di 0,3 parole al minuto? In certi casi estremi, vedi il pezzo tradizionale Uvgin shuvuu khoyor (Il vecchio e l’uccellino) nel corso di 3 ore vengono pronunciate esattamente 32 brevi strofe, senza neanche l’ombra di un tranquillo ritornello. Non sono queste che due meraviglie fra le innumerevoli, dell’antica tecnica del canto armonico che comunemente definiamo con il termine Khoomei. In realtà null’altro che il nome in lingua di uno degli innumerevoli stili praticati nella regione siberiana di Tuva, nei secoli associato per antonomasia alla versione trasportata insieme ai venti dalle orde dei loro vicini maggiormente bellicosi. E chissà se il grande Chinggis che si è soliti traslitterare con la G e la E, l’uomo più prolifico e spietato della storia, immaginava ciò che avrebbero ascoltato i suoi lontani discendenti, quando momentaneamente stanco di tante conquiste e peregrinazioni, seguito dalla sua ancestrale carovana, decretò che il popolo sostasse per un tempo medio a Ulan Bator, nella valle del fiume Tuul, dove le yurte gradualmente vennero sostituite da alti templi dedicati a Tengri, il dio del cielo e della terra. Perché se pure lui non perse tempo a ripartire, verso i giorni successivi della sua leggenda e fino all’ultimo passato in sella, molti lì rimasero, a fondar le basi di uno stato successivo al nomadismo. Che costituisce, ai giorni nostri, l’eredita dei mongoli, degli archi a cavallo e delle loro narrazioni musicali.
Una scena rock ed heavy metal molto attiva, diverse boy band, come i Camerton, i Motive e i Nomin Talst, gruppi femminili quali le Kiwi, le Emotion, le 3 ohin e le Lipstick (tutto questo cita Wikipedia) e cantanti solisti di fama anche internazionale, vedi Amarkhuu Borkhuu, giovane star del pop mongolo e russo. È presente inoltre ogni possibile variante dell’hip hop. Generi globalizzati, che anche qui trovano una pletora d’esecutori meritevoli, largamente sconosciuti oltre gli erbosi tratti della steppa senza fine; ma l’opera che può colpirci maggiormente, da occidentali quali siamo, resta senz’altro un certo tipo di trasformazione delle tradizioni, quel tipo di pezzo musicato secondo metodi ancestrali ma con canoni e tempistiche decisamente più moderne. Nel Khoomei dei nostri giorni, in effetti, il ritmo aumenta in modo esponenziale. Nulla resta di quei manierismi tribali delle origini, tramite cui il cantante o menestrello di turno, nell’elogio agli antenati o nella lode a un qualche splendido cavallo, trasportava i suoi spettatori in un mondo senza limiti e confini, ove lo sguardo e poi l’orecchio si perdevano a vagare trasognati. Chi ha tempo, non aspetti. Siamo nell’epoca del digitale! Dei panini col salame! Delle informazioni nette e chiare, dei tremendi cellulari! Molto più adatto, al nostro gusto, potrebbe risultare un artista come questo Khusugtun Batzorig, che qui vediamo in bilico sopra l’affascinante formazione rocciosa tra due fiumi e il deserto del Gobi, mentre suona con trasporto un morin khuur, o violino con la testa di cavallo. Impossibile notare come lo strumento, per una qualche strana causa, sia del tutto privo di detta presenza equina intagliata sulla cima dell’impugnatura, elemento che derivava dall’antica verga sciamanica ed aveva sempre costituito il simbolo di questo genere musicale. Forse c’è un qualche tipo di remoto simbolismo… Ma poco importa: perché costui, anche complice il paesaggio, con la sua veste keel di un verde acceso e i capelli raccolti in un lungo codino, ci appare indubbiamente come: l’uomo più mongolico di tutti i tempi. Mentre nel crescendo della sua canzone, che stando al titolo sarebbe guarda caso dedicata al celeberrimo Genghis/Chinggis, si palesa lo stiléma di un tempo remoto, eppur gradevolmente velocizzato per il gusto di chi visita YouTube.

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La musica in bilico sul dorso dell’alligatore

Crocodile Zither

Quel giorno, il vento risuonava delle note di un profondo stato di meditazione. Persino le anatre passavano da un’altra parte. Wei Kao, governatore per mandato imperiale della regione dello Szechuan, sedeva concentrato sulle mura della penultima stazione di scambio, fortezza commerciale sulla lunga Via. Sotto di lui cammelli e splendidi cavalli, carichi di sete variopinte provenienti dalle terre semi-mitiche di Tianzhu “il-centro-del-Sacro” luogo talvolta definito il Bharata o l’Hindustan. Patria di Siddharta, come innumerevoli altri tesori… Dopo oltre 20 anni di missioni diplomatiche per conto della corte Tang, il vecchio politico aveva ormai raggiunto la saggezza: nulla poteva più sorpassare il senso guadagnato in tante spedizioni coraggiose. Aveva portato i suoi forti vessilli in ogni paese di quel vasto mondo, dalle isole del mare orientale fino ai monti sul confine di un diverso continente, oltre il quale, si diceva, sopravvivevano vestigia di legioni vermiglie e bianchi templi millenari, antichi almeno quanto gli ossi di tartaruga usati dagli indovini più stimati di Chang’an, sia reso onore al suo abitante. Ma quest’oggi, il suo sguardo era rivolto verso il nèi lì, lo spirito interiore, la forza necessaria per trovare un senso alle difficoltà del mondo. Profondamente concentrato sulle mura merlate della cittadella, suonava un’ardua melodia del tempo. Il suo unico compagno, il guqin, ovvero “l’antico attrezzo per la musica”, che già Confucio definiva il padre della saggezza cinese, come Egli lo era stato di un intero sistema di valori, bussola dei grandi saggi e letterati. Piatto e lungo, senza traversine, sette corde come le armonie degli archi che nascono nel cielo. Unico, nell’intera sua categoria, per complessità armoniche a disposizione di chi avesse voglia studiarlo. Così lui lo suonava, con gli occhi volti verso Oriente e quella grande Capitale.
Huo Xianming, eunuco dell’enclave fortificato, viaggiava sempre con un certo stile. Il suo carro dalle grande ruote, con fregi a forma di fenici e draghi spiraleggianti, godeva del traino equestre di uno splendido destriero, adatto ad essere cavalcato nelle leggende del periodo delle Sei Dinastie. Alla destra e la sinistra del suo incedere, sedici guardie di palazzo, l’armatura a piastre lamellari con ornamenti in giada, sulle spalle forti spade, balestre meccaniche o i lunghi fusti di alabarde podao, con lame simili a quelle di una spada cerimoniale. Così chiunque avesse sfidato il suo seguito, avrebbe scoperto che persino in quell’epoca di sommosse e continui combattimenti, la forza della corte non incominciava a vacillare.
E sarebbe stato meglio, per quell’ennesimo aspirante signore della guerra, l’ormai riverito e temuto Wei Kao, i cui soldati studiavano le tattiche e i sistemi della grande Asia Centrale per “l’aumento della saldezza spirituale” avesse almeno la decenza di rispondere al richiamo del suo Imperatore.

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L’alto corno celtico da guerra

John Kenny

Niente cementa lo spirito di corpo di un’armata quanto la lunga ombra di un’insegna: stemmi, vessilli, pregni e forti emblemi sopra un palo. Per questo, quando nell’Era Classica, al suono di tamburi e trombe battagliere, i popoli marciavano oltre i propri confini deputati, c’era sempre almeno un attendente, prossimo al supremo generale, che non portava lancia, spada o mazza ed altre cose similmente contundenti. Ma un qualcosa di ben più terribile e meraviglioso, un utile segno di riconoscimento. Lo strumento psicologico del comandante. Che fosse ben visibile dagli alleati e dai nemici al tempo stesso, affinché i primi ne fossero rincuorati, ed i secondi, quanto meno, intimoriti. Il che dava una seconda dimensione ad ogni tipo di battaglia o di tremendo scontro tra diverse civiltà. Quasi come se sopra la mischia dei soldati, fra tanti fendenti e sangue arroventato, ci fosse una guerra tra figure mitiche di belve o di animali, che si agitavano, girando vorticosamente e si scontravano finché alla fine, senza colpo ferire, l’una prevalesse sopra l’altra, ormai priva del suo portatore, mani umane ed insignificanti. Ogni trionfo era passeggero. Col proseguir dei secoli, alla fine, tutto è destinato a scomparire. Così cadeva nella polvere, dimenticato infine, ogni prezioso simbolo, non importa quanto sacro ed involato sopra i mille campi di battaglia.
Considera l’Europa della tarda Età del Ferro, diciamo intorno al 250 a.C. E pensa a tutti quei popoli, distanti e variegati, che si facevano la guerra tra di loro. Tra cui l’unione politica era impossibile, vista l’ottica del vivere tribale. Eppure ancor distante all’orizzonte, decisamente ben lontana, era la venuta di legioni e centurioni, poi acquedotti, templi di mattoni. Allora, già le genti coltivavano le arti e la filosofia, e si riconoscevano in un corpus di gestualità, usanze e costumi che oggi definiamo con un solo termine, benché si estendesse dalle propaggini occidentali della Spagna fino alla Romania, e su in alto, nelle odierne Inghilterra, Scozia e Irlanda: erano costoro i Celti, molti popoli distinti eppure, con molto in comune tra di loro. Il culto rituale della natura, associato ad un particolare pantheon di divinità. L’abilità in campo metallurgico, nella costruzione di gioielli, armi ed altri manufatti. Nonché un certo modo, primitivo ed entusiastico, di far la guerra, quando necessaria. Il che di certo non gli fu d’aiuto, quando giunse presso il settentrione l’ultimo nemico, Roma invicta, la sua disciplina e tutto quello che portava insieme a se. È facile da ammirare: l’aquila romana, in metallo dorato, con il drappo rosso e il numero della legione. Quanto spesso viene trascurato, invece, il gran cinghiale-mostro simbolo dei celti. Che sulla prima, aveva un gran vantaggio: sapeva emettere un potente verso.

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