Recita un famoso detto americano, utilizzato anche in ambito militare dai Navy Seals “Lento è fluido e fluido, è veloce.” Così come in edilizia, risparmiare sui materiali può significare spendere di più alla fine, per risolvere i problemi in corso d’opera, tamponare i barcollamenti, effettuare l’opportuna manutenzione. Non si tratta di sillogismi bensì conseguenze molto pratiche del cosiddetto triangolo della gestione del progetto: “Veloce, economico, efficace: scegline due” giacché vi sono compiti per cui non è possibile trovare scorciatoie; a meno di riscrivere, sostanzialmente, le palesi regole immanenti della situazione. Eliminando alla radice ostacoli, ancor prima di tentare d’aggirarli. Molti meno potranno essere gli imprevisti, ad esempio, in un lavoro d’importante caratura se le persone coinvolte dovessero essere di meno. Il che suscita l’imprescindibile domanda: chi sarà, a quel punto, ad occuparsi delle mansioni? Automatizzazione, la risposta. Robotizzazione il punto fermo. “Tridimensionale” l’aggettivo attribuito in modo per lo più arbitrario alla necessità di fare bene le cose. Che è poi quel tipo di effettivo termine ad ombrello, come virtuale, artificiale e innumerevoli altri utilizzati in modo comprensivo nei confronti di un’industria. Destinata, come non sempre capita, a lasciar diffondersi cerchi concentrici nell’increspata superficie del commercio contemporaneo. Strutture costruite, neanche a dirlo, con una sorta d’efficace “miscela” cementizia. Gentilmente offerta nel presente caso dalla Heidelberg Materials, compagnia del centro urbano omonimo, situato nello stato del Baden-Württemberg, ove alcun bisogno può sussistere ancor più di questo: l’anelito moderno, a più livelli, per edifici privi di finestre ma efficientemente refrigerati. Ovvero Data Center, l’imprescindibile forziere dei computer, punto di partenza delle informazioni o l’energia di calcolo impiegata per la grande maggioranza di quel mondo parallelo ed online. Ma costruito in modo differente, caso vuole, da qualsiasi altro che sia stato inaugurato nel presente ambito globale. Proprio perché in termini di mero utilizzo, l’unica forma economicamente sensata per simili strutture di un singolo piano è il rettangolo. A meno che per realizzarle ci si trovi a utilizzare lo strumento che costituisce al tempo stesso capocantiere, bassa manovalanza ed architetto intento a supervisionare. Da ogni punto di vista rilevante, un ugello sopra dei binari perforati. La puntina del giradischi, ove un simile strumento sia piuttosto figlio del bisogno di portare a compimento la materialistica sinfonia. Di un palazzo nato dal bisogno di risolvere l’idea…
futuro
La soluzione abitativa dell’intero quartiere costruito sopra un centro commerciale a Jakarta
Spazi paralleli a cui soltanto pochi eletti possono pensare di guadagnarsi l’accesso. Porte periferiche, situate tra i negozi, che conducono ai viali misteriosi di approvvigionamento e gestione dei servizi a supporto della galleria commerciale: spazi simili tendono a beneficiare da un’impostazione labirintica, che a sua volta riesce a dare il senso e il segno di trovarsi in una specie di città, per così dire, particolare. E ciò è implicato dal concetto stesso di questa tipologia di complesso, da Oriente ad Occidente, tra il Meridione e il Settentrione del mondo. Inclusa la capitale e maggiore città d’Indonesia, Jakarta con i suoi 10 milioni di persone ed oltre, abituate a convivere con condizioni meteorologiche non sempre accoglienti, tifoni e l’occasionale tracimazione dei 27 fiumi che ne attraversano i confini. Non c’è perciò niente di strano, nel desiderio temerario della gente di vivere più in alto, ivi incluso un vialetto di accesso alla propria residenza e spazio di parcheggio per l’auto il più possibile lontano dalle strade talvolta eccessivamente gremite. Beneficiando delle vie d’accesso pedonali nascoste, come implicita e necessaria prerogativa, ai normali visitatori del centro.
L’idea è stata messa in pratica, in primissima battuta, attorno all’anno 2009 o almeno questo è ciò che si riesce a desumere, scoprendo il fenomeno a ritroso dal successo avuto negli scorsi mesi sui profili social di appartenenza locale: un approccio consistente nel costruire 78 accoglienti villette a schiera nel luogo esatto dove, tra tutti, meno ti aspetteresti di trovarle. Ordinate abitazioni messe in condizione di gravare sulla solida struttura del centro commerciale Thamrin City, coi suoi numerosi punti vendita dedicati primariamente a stoffe ed artigianato locale. Una sorta di paradiso per persone facoltose chiamato Cosmo Park, organizzato analogamente a quanto teorizzato nel concetto cyberpunk di spazi urbani a strati sovrapposti o l’esperimento teorico dell’arcologia, un singolo edificio capace di assolvere all’intero novero delle necessità dei propri occupanti. Potendo consentire, dietro il pagamento di un prezzo mediano di circa 4 miliardi di rupie indonesiane (corrispondenti a 235.000 euro) l’esperienza serena e rilassante di vivere in periferia, pur essendo circondati dagli alti grattacieli del distretto finanziario più simili a colonne, o futuristici termitai. Anche un simile contrasto, d’altronde, fa parte della cultura dell’Asia del Pacifico. Poiché salvare le apparenze di un rigido piano regolatore non sarebbe stato, in alcun modo, vantaggioso dal punto di vista pratico né in alcun modo apprezzabile, funzionale…
Il battito cardiaco della cipolla che trasforma le onde in energia di mare
C’è un solo modo per risolvere i problemi della Terra ed è l’avanzamento tecnologico: creare, migliorare, inventare cose in grado di aumentare l’efficienza dei processi. O eliminare un certo tipo di paradigma, come quello che comporta l’estrazione e conseguente combustione intenzionale di enormi quantità di carburante fossile. Che oltre a generare indesiderabile anidride carbonica, presenta la questione niente affatto trascurabile di essere una risorsa in quantità finita. Ovvero prossima all’esaurimento, se prendiamo in considerazione soltanto quei giacimenti già largamente noti e commercialmente utilizzabili con profitto; aspetto, quest’ultimo, niente meno che indispensabile all’interno di una società capitalista e basata sui crismi del mercato globale. Ma il mondo di per se non ragiona né funziona in tale modo, anche ammettendo che una mente immutabile governi processi come il flusso dei venti, la danza dei corpi cosmici ed il ritorno delle maree. Tutti processi, nella fattispecie, utilizzabili come fonti d’energia sostitutiva, a patto di trovare un modo che possa definirsi, a pieno titolo, perfettamente realizzato. E nel suo specifico contesto d’utilizzo, ben pochi potrebbero negare che il CorPower C4, primo esemplare di livello commerciale del generatore prodotto dall’omonima compagnia svedese, abbia messo le proprie aspirazioni in un contesto produttivo. Quello immaginato per la prima volta, in modo per lo più collaterale nel 2011 dal cardiologo Stig Lundbäck, già autore nel 1986 di uno studio scientifico mirato a definire il cuore umano come una pompa dinamica adattiva (DAPP). Dal che, l’idea: se le linee di approvvigionamento elettrico di un moderno centro urbano corrispondono al suo sistema di vene ad arterie, perché non immaginare per agevolarne il funzionamento una forma di approvvigionamento elettrico simile al muscolo più importante situato all’interno del torace umano? Un organo situato, con la consueta decentralizzazione dei moderni processi ingegneristici, non all’interno del corpo in questione bensì oltre il bordo della costa, là dove l’impeto selvaggio del pianeta è solito creare un ciclo ininterrotto di spostamenti. La massa ricorsiva del moto ondoso, che impatta ad ogni singolo minuto contro le sabbiose sponde. Ivi piazzare idealmente un qualche tipo di trasformatore, incaricato di ricevere ed incanalare il potenziale frutto di un potente movimento, sopra e sotto, sopra e sotto all’infinito. Di quel bulbo quasi vegetale, vagamente paraboloide, concepito per massimizzarne l’implacabile compimento di quel solerte gesto…
L’esercito dei graffitari di Los Angeles contro le svettanti torri del silenzio californiane
Una macchina perfettamente collaudata in cui ogni persona, ciascuna singola norma, le diverse cognizioni di contesto tendono a collaborare nell’ottenimento di un risultato duraturo e importante. Questo può costituire, in un certo senso, l’amministrazione di un grande centro urbano come la seconda città più popolosa degli Stati Uniti con una popolazione quasi equivalente a quella di Roma, sommata a Milano. Così è quasi sempre con le migliori intenzioni che una di quelle entità tentacolari, spesso multinazionali e in grado di contribuire con un nuovo grattacielo ai mari tempestosi di vetro e cemento aprono i propri cantieri di fronte al pubblico non propriamente interpellato degli abitanti. E se le cose prendono una piega inaspettata, allora cosa? Dinosauri senza una voce giacciono incompleti eternamente, finché il tempo e l’incuria, nel punto di svolta fatale che costituisce un danno per l’immagine e il decoro, non determinano l’esigenza di tornare ad uno stato di grazia? Certo, in periferia. Diverso il caso in cui ciò tenda a concretizzarsi dall’altro lato della strada di una delle arene e palazzetti dello sport più famosi del paese. Tra proprietà immobiliari e terreni dal valore spropositati che rientrano nella particolare sfera del DTLA (il Centro). Un luogo in cui determinati tipi d’ingiustizie, che si tratti d’abusi o soprusi, tendono a venire presi in mano dalla pubblica opinione. Perché possano, se vogliamo, “risolversi” da soli.
La situazione ha cominciato dunque a palesarsi, degenerando progressivamente, con data di partenza nei primi giorni di questo febbraio 2024 sulle alte pareti della Oceanwide Plaza, il cantiere lungamente abbandonato di un gruppo di condomini da 504 unità residenziali + un albergo con 184 stanze. Ormai diventato una vista familiare per la gente di qui, nell’attuale stato derelitto e dolorosamente aperto alle intemperie del mondo. Finché coloro che passavano lungo l’arteria stradale spaziosa e rapida di Figueroa Street, scrutando casualmente verso l’alto, iniziarono a scorgere qualcosa di non totalmente inaspettato. Qualche tag variopinta, le tipiche firme abusivamente prodotte dei cosiddetti artisti di strada, moderni guerriglieri fuorilegge e fuori dall’ordine costituito, latori di proteste de facto nonché considerati con valide ragioni degli avversari della pace laboriosamente acquisita. Quindi altre che continuavano ad aggiungersi, finché quasi ciascuno dei 49 piani della torre più alta, ben presto seguita dalle sue vicine, non hanno continuato la propria rapida ed inusitata trasformazione in un museo verticale all’aperto. Haarko, Shaak, Rakm, Naks, Tolt, Tonak e via di seguito, uno per ciascun piano, si erano premurati di marchiare il territorio derelitto a nome proprio e degli altri, facendosi i palesi portavoce di un possibile intento di ribellione comunitaria. Giustizia… Era stata fatta? Beh, dipende in larga parte da quale sia la vostra esatta cognizione in materia…