2 cm per 25 metri: l’abitante della ragnatela più grande al mondo

Mostri, dei veri e propri mostri. Si arrampicano sopra le cose, alla ricerca di cibo. Piccoli e operosi, perennemente attivi, gli occhi grandi quanto o addirittura più dello stesso cervello. Le manine simili a quelle di una scimmia, ma ancora più piccole, per afferrare tutto e conseguentemente, mangiare tutto. C’è un vero e proprio gremlin col dito medio particolarmente lungo, per meglio insinuarlo nei buchi degli alberi e ghermire le formiche. C’è n’è un altro che agisce in gruppo, spazzolando totalmente un territorio tra i 10 e 14 ettari comunitari. Agiscono di giorno. In altri casi, si muovono la notte. Pur non essendo delle creature a tutti gli effetti onnivore, vista la loro preferenza endemica per frutti e radici, non c’è un solo lemure in tutto il Madagascar che disdegnerebbe di fagocitare un ragno ogni tanto, possibilmente completo della sua casa e tutto quello che vi si era impigliato. Non c’è troppo da meravigliarsi, quindi, se nel parco naturale di Ranomafana esiste la marcata tendenza evolutiva ad occupare nicchie ambientali del tutto nuove. Anche questo è un aspetto che deriva dalla biodiversità. Parlare del ragno della corteccia di Darwin, oggi, significa inevitabilmente approcciarsi agli svariati studi sull’argomento di Matjaz Gregoric, Matjaz Kuntner e colleghi, biologi di diverse istituzioni universitarie slovene, che nel 2009 hanno descritto scientificamente per primi un qualcosa che in effetti, era sempre stato lì, sospeso sopra i fiumi e i laghetti della quarta isola più grande al mondo. Scegliendo incidentalmente, in occasione del 150° anniversario dalla pubblicazione de L’origine delle specie da parte del naturalista più grande di tutti i tempi, di dare alla nuova creatura il suo nome già noto. Il Caerostris darwini, dunque, è questo ragno della lunghezza di 2 cm per la femmina, appena mezzo per il maschio, appartenente alla famiglia degli Araneidae, ovvero la stessa di tutti gli altri tessitori di tipiche ragnatele dalla forma circolare, detti per l’appunto nei paesi anglosassoni “orb spider” (ragni del cerchio). Che percorrendo gli alterni rami dell’albero della vita, sono giunti in questi luoghi in una profusione di forme e colori straordinariamente vari. Inclusi quelli appartenenti a questo specifico genus, classificati per la prima volta dallo svedese Tamerlan Thorell, nel 1868. Eppure persino tra questi, la nuova aggiunta al catalogo risulta molto sorprendente. Si potrebbe persino affermare che il suo stile e metodo di caccia risulti tra i più efficaci e incredibili al mondo.
Tutto inizia con un’esemplare, generalmente la femmina, che attende pazientemente una giornata di vento a favore. Quindi ella si dispone su un ramo sufficientemente alto e distante dalla chioma centrale, in bilico sopra l’acqua, iniziando a liberare le lunghe fibre della sua personale interpretazione ultra-appiccicosa della seta. È una visione quasi surreale, con le propaggini leggerissime, ma straordinariamente resistenti, che iniziano ad estendersi verso il campo aperto, fluttuando leggere nell’aria. Mentre i fili continuano ad allungarsi, quindi, ella li avvolge con le zampe anteriori, manipolandoli per creare un qualcosa di singolo e quasi permanente, piuttosto che numerose ragnatele incomplete. Trascorso un tempo medio, inevitabilmente, la sua creazione raggiunge l’altra sponda tra i 10 ed i 25 metri di distanza, attaccandosi spontaneamente ad un albero, il più possibile alto quanto il suo. A quel punto, recisa ed assicurata adeguatamente la propria estremità, il ragno inizia la sua lunga camminata. Una delle particolarità del darwini tra tutti gli orb spider è il modo in cui esso integra il suo primo filo ancora al resto della ragnatela, che non lo finirà per averlo in mezzo, ma piuttosto penderà verticalmente al di sotto di essa, prima di essere adeguatamente assicurata con altri fili quasi altrettanto lunghi. Questo ha lo scopo, ritengono Gregoric et al, di incrementare l’area disponibile per la cattura, favorendo l’eventuale banchetto nel caso del passaggio di uno sciamo o altro tipo di nugolo, potenzialmente ronzante. Ma la vera scoperta sarebbe giunta soltanto successivamente quando gli scienziati, per prelevare un campione, toccarono la ragnatela. Soltanto per scoprire che essa in effetti, era talmente solida da poter intrappolare persino un uccello o un piccolo pipistrello. Proprio così: essa era, a parità di spessore, il singolo composto biologico più forte del mondo. Superiore, da determinati punti di vista, persino alle proverbiali doti del kevlar o dell’acciaio…

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Un video con le sostanze più letali per l’uomo

Mentre la telecamera scorre lentamente da sinistra a destra, in uno spazio privo di reale sostanza, la sagoma di una persona lascia il posto, gradualmente, a taniche, bottiglie, fiale e poi minuscoli bicchieri. Ciascun recipiente colmo, secondo il vezzo del creatore, di un certa quantità di morte. C’è n’è un po’ per tutti i gusti: la morte per soffocamento, la paralisi cardiaca, l’insorgere di crisi sistemiche dell’organismo. La liquefazione di ogni organo dotato d’importanza. Ed è un’elenco alquanto sorprendente, quello creato dallo youtuber Reigarw, perché contiene un’elenco equilibrato di sostanze quotidiane, qualche altra familiare, poi man mano che si scende verso il piccolo, sempre più insolite e inaudite. Già perché questa è una classifica all’inverso, in cui più è piccola è la quantità presa in analisi, maggiormente merita il composto di essere considerato “superiore”. Se questa è una parola, dopo tutto, adatta a questo regno delle circostanze. In cui niente è più considerato una certezza, neanche l’opportunità di superare l’alba della prossima giornata. A meno, ovviamente, di osservare il giusto grado di cautela. Ecco, forse, a cosa serve: prestare attenzione significa conoscere quello che può annichilirti, distruggerti e nel buio incatenarti. Questo video potrebbe, un giorno, salvarvi la vita!
Già, perché non ci vuole in definitiva molto per sfuggire all’auto-annientamento. Sapete qual’è la prima causa di morte per avvelenamento da acqua? La partecipazione a una scommessa o un gioco a premi. Si tratta di persone, del tutto inconsapevoli che sia possibile subire un’overdose da questo fluido di cui siamo composti al 60%, che accettano per scherzo a berne a dismisura. E ad un certo punto, iniziano a subire conseguenze simili a quelle di un’insolazione. Poco prima di cadere a terra, e non rialzarsi mai più. Poiché essenzialmente, una quantità eccessiva di H2O tende a saturare le nostre cellule, creando un disequlibrio tra sodio, elettroliti e liquido, che inizia quindi a farle aumentare nelle dimensioni, causando, tanto per cominciare, un pericoloso aumento della pressione intracranica. Con questo non intendo che dobbiate smettere di bere più del necessario, soprattutto in estate, quando la traspirazione nuoce alla naturale umidità dell’organismo. La quantità da ricordare: 5-6 Kg o litri. Oltre tale eccesso, se bevuto tutto insieme, la metà dei soggetti muore. Volendo fare una media. Perché è proprio questa in effetti, la base scientifica della breve sequenza, espressa in un valore scientifico che ha il nome di LD50 dove le lettere indicano lethal dose mentre il numero sottoscritto sta per il 50% delle vittime designate. Un concetto che si esprime normalmente con una quantità matematica che rappresenta il rapporto tra i kg o grammi di sostanza rispetto ad ciascun kg o grammo dell’organismo impiegato per effettuare il test. Si tratta di una semplice statistica, però niente meno che fondamentale nella ricerca medica. Dove spesso, l’introduzione di un nuovo farmaco comporta l’elaborazione di un dosaggio che si trovi esattamente in bilico tra la dose minima di efficacia sulla metà dei soggetti (ED50) e quella in grado di uccidere un essere umano adulto, attraverso una condizione nota come avvelenamento acuto (diverso è il concetto di quello cronico, che causa la morte nel tempo). Un problema che continua a sussistere, ad ogni modo, per qualsiasi altro protagonista apparentemente innocuo delle nostre tavole imbandite. Vedi ad esempio, il sale. Per il quale Reigarw, che  senza sfruttare lo strumento scientifico del rapporto frazionato impiega una semplice proporzione per “persona media” (il cui peso non viene neanche ipotizzato) fissa la dose mortifera sui 2,5 Kg. In questo caso, ritengo, il fato del malcapitato sarà chiaro: tachicardia, aumento della pressione venosa e un progressivo assottigliamento del sangue, le cui sostanze nutritive vengono prosciugate come la radula di una lumaca. Seguono altri elementi dalla capacità di nuocere evidente, quali liquore, alcohol puro ed olio di paraffina. Con l’intruso inaspettato della vitamina C, che può causare ipotetiche complicazioni gravi intestinali. Non che nessuno sia effettivamente mai riuscito a berne una quantità sufficiente. Ricordatevi che non stiamo parlando di semplice succo di frutta, bensì della sostanza concentrata effettivamente inesistente in natura. Mentre a questo punto, si entra nel vivo della questione. I fluidi citati successivamente sono dei veri e propri veleni.

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L’insignificante medusa che ha sconfitto la morte

Tutto quello di cui abbiamo bisogno, l’unica cosa che dovremmo riuscire a fare, è poter riavvolgere un singolo giorno della nostra vita. Importa realmente quale…? Direi proprio di no. Così raggiunta l’ora del tramonto, ritornerebbe l’alba. Ma sarebbe la stessa di 10 ore prima. E poi di nuovo, in un ciclo infinito d’invecchiamento e rigenerazione. Già, perché una cosa non dovrà per forza escludere l’altra! Questo è il significato ultimo dell’esistenza: pensate ad un pollo, che si trasforma in un uovo, il quale nel giro di qualche tempo si schiuderà, ritornando un pulcino. Qualcuno vorrà ancora sapere, a quel punto, quale delle due forme è venuta prima? Chiedetelo a Christian Sommer, il biologo marino tedesco, ed al suo amico Giorgio Bavestrello,  proprietario di un acquario a Rapallo, all’interno del quale negli anni ’80 fu per la prima volta trasferita una creatura, che prima di quel fatidico giorno, non era mai stata notata dall’uomo. E lo credo bene: dopo tutto, la Turritopsis non misura che 2,7 mm di lunghezza, per 3,2 di diametro. Ed per di più semitrasparente, come si confà a una vera medusa. Ciò non significa, del resto, che possa sparire nel nulla. Immaginate dunque la sorpresa di questi due, quando la mattina dopo la fatidica scoperta, ritornando per controllare lo stato della loro cattura, non riuscirono più a ritrovarla in alcun modo. Mentre al suo posto, saldamente assicurato al fondale dell’acquario, c’era quello che gli scienziati chiamano polipo (non un “polpo”) ma che noi potremmo definire per analogia, come una sorta di anemone, minuscolo e sottile, i cui tentacoli protesi verso la superficie sembravano sfidare i perplessi catturatori. Scenari improbabili iniziarono ad affollarsi nella mente degli scienziati: “Forse il secondo animale era nascosto nell’acqua, noi non l’abbiamo notato, e si è mangiato la medusa” oppure “Mi pare evidente che ieri avevamo bevuto un bicchiere di troppo, e tutto il resto l’abbiamo sognato.” nonché ovviamente, la più assurda di tutte: “I nostri occhi stanno guardando la stessa cosa. La medusa di ieri, trasfigurata.”
Possibile? Davvero? Se fino a 30-40 anni fa, un’ipotesi simile fosse stata paventata dinnanzi al mondo scientifico riunito in convegno, svariati insigni studiosi dalla barba bianca sarebbero scoppiati a ridere. Poiché in effetti, molti appartenenti all’ordine degli cnidaria attraversano questa specifica metamorfosi, ma lo fanno all’inverso, come parte di un ciclo che può essere sommariamente riassunto in uovo>larva>polipo>medusa. Ora se realmente, una forma di vita avesse scoperto il segreto per ritornare dalla quarta alla terza fase, e poi nuovamente dalla terza alla quarta, che cosa potrebbe fermarle dal farlo un infinito numero di volte? Essa potrebbe vivere per 100 anni…1.000…5.000, anche 12.000 millenni. Fatta eccezione per la casualità, in realtà statisticamente piuttosto probabile, di finire in bocca a qualcosa o qualcuno. Dopotutto, è difficile mettere radici mentre si viene digeriti. L’intera questione fu dunque sottoposta a uno studio. Finché Ferdinando Boero, un professore dell’università di Salento contattato a suo tempo da Sommer e Bavestrello, non poté pubblicare nel 1996 il suo celebre articolo Reversing the life cycle: medusae transforming into polyps and cell transdifferentiation in Turritopsis nutricula. Tutti quanti, leggendolo, rimasero senza parole. Col che intendo che dal punto di vista dell’uomo della strada, non importò praticamente niente a nessuno. Troppo diverso, appariva, questo insignificante essere tentacolare dalla forma di vita “superiore” di noi possenti e saggi esseri umani. Giusto? Sbagliato, come sappiamo effettivamente dal 2003, grazie al completamento del Progetto Genoma Umano, e ad uno studio del 2005, che mise in relazione il nostro codice genetico con quello di diverse specie animali. Caso in cui fu scoperto, tra un generale senso di stupore diffuso, che in effetti l’unica differenza tra noi e le fluttuanti creature degli abissi sono due eventi evolutivi di duplicazione dei geni. Se soltanto le cose fossero andate in maniera leggermente diversa, nella lunga e articolata storia di questo pianeta, oggi noi potremmo trovarci aggrappati agli scogli, sperando di sopravvivere un altro minuto. E le meduse vivrebbero nelle case, lasciando scie di gelatina dal divano del salotto allo sportello della dispensa in cucina. E fu allora che all’improvviso, l’opinione comune si ricordò della Turritopsis. Questa nostra ritrovata parente, subito popolare poiché in possesso di un qualcosa di altamente desiderabile… Una ricchezza ulteriore… Un segreto che vorremmo anche noi. Oh quanto ci interessava, d’un tratto, la sua minuscola storia….

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Le oscure stanze oltre il fiume segreto di Bjurälven

Per essere la terra dei 100.000 laghi, con dimensioni variabili tra i 5.519 Km quadrati del grande Vänern fino alle più insignificanti pozzanghere, ma pur sempre permanenti, della regione di Kopparberg, la Svezia presenta una quantità relativamente bassa di fiumi. 2.477, ne elenca Wikipedia, e a guardarli sulla cartina, risulta decisamente difficile individuarli. Soprattutto perché non sempre, raggiungono il mare. Il che suscita la spontanea domanda: dove se ne va la dolce acqua sorgiva? Chi ne beve spropositate quantità, per accrescere il proprio benessere all’alba di un nuovo giorno? Nessuno, ve lo assicuro. I corsi appaiono privi di una foce, poiché scivolano gradualmente nel sottosuolo. Attraverso il fenomeno carsico della dolina. O il cenote, come lo chiamano nelle Americhe, ovvero una valle il cui suolo era un tempo composto da pietra calcarea. La quale attraverso i secoli e i millenni, sottoposta all’azione chimica dell’acqua, ha lasciato spazio ad un vertiginoso imbuto, via d’accesso verso le più profonde viscere della Terra. E benché ve ne siano di piuttosto famosi ed evidenti, come i tre buchi di Ewens Ponds in Australia, o la Grande Voragine Blu a largo del Belize, non sempre simili caratteristiche del paesaggio sono facili da trovare.
Come nel caso del fiume Bjurälven, nella municipalità di Jämtland, Svezia centro-meridionale, la cui via di fuga dal cielo azzurro della superficie rimase largamente ignota fino al 1979, quando lo speleologo Bo Lenander scovò la caverna in corrispondenza di una diramazione apparentemente del tutto priva di sorprese, per inoltrarvisi almeno in parte scattando qualche foto con la sua macchina digitale dotata di flash. Ma dal punto di vista speleologico, l’epoca era decisamente diversa da quella odierna, e soprattutto c’era un problema di tipo logistico-organizzativo: l’impossibilità di immergersi in inverno, in un luogo in cui le temperature scendono frequentemente sotto i -20 gradi, rendendo il proposito delle immersioni del tutto impossibile senza l’impiego di una moderna drysuit dotata di strato protettivo d’aria. La scoperta, dunque, fu fatta in estate, quando lo scioglimento del vicino lago di Dolinsjön causa possenti correnti, in grado di rendere virtualmente inavvicinabile un simile ambiente. Condizione che continuò a sussistere per molti lunghi anni, finché nel 2008, una nuova generazione di amanti dell’esplorazione non si approcciò nuovamente alla dolina, armata stavolta di tutto l’equipaggiamento, e l’esperienza necessari ad inoltrarsi nel profondo durante i mesi più freddi dell’anno. Con la finalità di scoprire.
Ci sono diversi video, tra YouTube e Vimeo, dedicati alle annuali gesta della Spedizione Bjurälven, un gruppo variabile tra i 15 e i 20 speleologi scelti uno per uno tra i più esperti del paese, che si sono auto-assegnati la mansione di creare una mappa del labirinto sommerso di queste vaste e sconosciute caverne, che oggi prendono il nome di Dolinsjön. Tra i quali il tema ricorrente, il più delle volte analizzato da una voce fuori campo in lingua svedese o inglese, è quello oggettivamente piuttosto spiazzante del “perché lo facciamo”. Già, perché. Vestirsi ed equipaggiarsi di tutto punto, soltanto per penetrare all’interno di un pertugio talmente stretto, da richiedere il sistema delle bombole rimovibili o montate sui fianchi. Così angusto che il più delle volte, piuttosto che nuotare ci spinge semplicemente sfruttando le pareti del condotto, ben sapendo che può bastare un piccolo ma non insignificante strappo nella tuta, causato da una pietra particolarmente acuminata, a causare il rischio di una rapida morte per assideramento. E le proteste di amici e parenti stavano probabilmente diventando sempre più pressanti, anno dopo anno, finché nel 2013 non diventarono, d’un tratto, del tutto superflue: il team guidato dall’Organizzazione Speleologica Svedese aveva infatti trovato qualcosa in grado di generare un’irresistibile richiamo: una zona asciutta, a 450 metri dall’ingresso del tunnel. Immaginate voi, adesso, di stare effettuando un’esplorazione laggiù, nella più profonda oscurità del mondo. Soltanto per trovarvi all’improvviso all’interno di una camera vasta e silenziosa, dal soffitto a volta, dove mai nessuno prima ha poggiato i piedi. Come sarebbe mai possibile a quel punto, tornare indietro…

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