La casa delle pietre che sussurrano ai giapponesi

Storicamente, Minamoto no Yorimitsu fu un guerriero appartenente alla famiglia del primo shōgun del Giappone, che lo aiutò a mantenere l’ordine viaggiando per il paese e scacciando i banditi sulla punta della sua spada. Ma nella letteratura del X secolo d.C, gli fu attribuito il nome poetico di Raikō, mentre si diffondeva la sua fama di grande cacciatore di demoni e uccisore di mostri di vario tipo. Molte delle storie degli yōkai, le variegate apparizioni folkloristiche per cui oggi resta famoso il suo paese di appartenenza, sono legate in qualche misura alle sue gesta, ai suoi racconti ed a quelli dei samurai che lo accompagnarono nelle sue imprese. Una di queste leggende narra di come il giovane guerriero del clan del Drago Azzurro formalmente noto come Suetake, uno dei Quattro Re Guardiani che formarono il suo seguito più fedele, incontrò un giorno una vecchia seminuda su una strada alla periferia di Kyoto. Il lineamenti della donna erano contorti dalla tristezza e i suoi occhi apparivano stranamente fissi nel vuoto. Nelle sue braccia, si trovava un neonato di una bellezza straordinaria, che si agitava e piangeva senza una ragione apparente. Con un movimento impossibilmente veloce, d’un tratto, la strana figura si avvicinò al samurai, e gli porse il bambino in fasce passandoglielo tra le mani. Quindi, senza un singolo suono, sparì. L’uomo restò a fissare la piccola creatura pensierosamente. Passarono i lunghi minuti, quindi ore intere, mentre qualcosa di strano iniziava a fare breccia nei suoi pensieri. Il bambino stava diventando sempre più pesante! Ad un tratto, smise di piangere e la sua pelle diventò color del granito. Era diventato, a tutti gli effetti, di pietra. Suetake si appellò quindi alla sua notevole forza spirituale, che gli derivava dall’addestramento ricevuto come onmyōdō (esorcista mistico) e getto via lontano il sinistro infante. Se non l’avesse fatto, oggi possiamo affermarlo con certezza, esso si sarebbe trasformato in un macigno che inesorabilmente lo avrebbe schiacciato, trasformandolo in una pietra abbandonata sulla via.
Ciò che abbiamo riassunto fino a questo momento è la leggenda dell’Ubume, lo spirito di una donna morta di parto. Ma non tutti gli esseri legati alla pietra, secondo le storie del popolo giapponese, sono così terribili e pericolosi. Un esempio di questo potrebbero essere i jinmenseki (人面石 ovvero letteralmente, pietre col volto di una persona) innocui spiriti di un kodama (folletto della foresta) o un mitama (antenato rimasto a guidare i viventi) che si sono ritrovati legati, loro malgrado, a uno degli innumerevoli ciottoli o pietre che potrebbero costituire i soprammobili della natura. Come tutti gli esseri sovrannaturali legati ad oggetti particolarmente antichi, quindi, queste entità hanno cambiato nei secoli la forma della loro pietrosa residenza terrestre. Affinché la stessa, un poco alla volta, iniziasse ad assomigliargli in qualche strana maniera. Oggi, nessuno può realmente dire che cosa guidi l’attività di collezionismo di Shozo Hayama, la donna di Chichibu nella prefettura di Saitama che da oltre 50 anni ha ereditato la passione del padre, continuando a curare l’unico museo al mondo dedicato al fenomeno dei jinmenseki. Ma chiunque faccia il suo ingresso nell’anonimo magazzino rurale all’interno del quale ha sede il suo mondo, dopo essersi premurato di prenotare la visita anticipatamente, non potrà fare a meno di restare colpito da ciò che si troverà dinnanzi al suo sguardo. Letteralmente due migliaia, o poco meno, di sassi che ti guardano dalle mensole, dietro le vetrine, su piccoli piedistalli disposti con fantastica precisione l’uno di fianco all’altro. Ti guardano perché, come apparirà fin da subito estremamente chiaro, ciascuno di essi possiede almeno un paio di “occhi”, il requisito minimo affinché si sviluppi nell’osservatore il sentimento della pareidolia. Quell’istinto, fondamentale per l’uomo primitivo, che permetteva di riconoscere i segni rivelatori di un possibile predatore in agguato tra l’erba o nella penombra. O di credere di vederlo, per sbaglio, anche quando non si trovava per niente lì. Sono secoli, o millenni, che la cultura popolare gioca con questa tendenza intrinseca, individuando la personificazione, e quindi la capacità d’intendere, di cose che la scienza ci dice essere inanimate. Ma un conto è la mera logica delle apparenze. Tutt’altra questione, le antiche storie portate in giro dal soffio del vento…

Le statue di Jizo sono una vista piuttosto comune nel Giappone rurale e dei piccoli paesi, dove compaiono nei luoghi più disparati, in una maniera comparabile a quella delle nostre immagini di Maria. Talvolta, i viaggiatori vi lasciano davanti una piccola offerta di riso oppure monete per il tempio locale, affinché il Bodhisattva si ricordi di proteggerli nel corso delle loro peregrinazioni.

Nelle prime battute del manga degli anni ’90 JoJo – Daiyamondo wa Kudakenai (il Diamante che non può essere infranto) il giovane protagonista Jotaro Kujo si ritrova a dover combattere contro un criminale evaso dal soprannome di Angelo, inviato dal servitore di una strega ad eliminare la sua famiglia. Trovandosi di fronte a un’avversario dai poteri sovrannaturali, capace di far passare il suo corpo allo stato liquido ed attaccare da ogni direzione, lo studente di liceo si ritrova ad usare seriamente per la prima volta il potere ereditario della sua famiglia, che gli consente di evocare uno stand (assistente spirituale) il cui pugno può distruggere, o ripristinare la materia. Durante un confronto piuttosto acceso, quindi, Jotaro sconfigge Angelo, scaraventandolo contro una pietra a lato della strada, che si frantuma in una miriade di schegge affilate come rasoi. Capendo quindi che il suo avversario, malvagio fino al midollo, non si sarebbe mai arreso, il ragazzo usa il suo stand per colpirlo nuovamente, con la differenza che stavolta gli ordina di “guarire” le ferite inferte fino a quel momento. Così facendo, l’evaso si ritrova letteralmente inglobato dalla pietra, e diventa lui stesso permanentemente parte di un simile arredo a lato della via, diventando incapace di muoversi o parlare per tutta l’eternità. Lo strano sasso, quindi, negli anni diventa un luogo di ritrovo per i giovani del posto, che senza una ragione apparente, prendono l’abitudine di rivolgergli un saluto ogni qualvolta passano di lì.
Questa storia moderna, apparentemente del tutto priva di legami tradizionali, ha in realtà un forte significato legato al concetto buddhista del karma. Per cui avendo compiuto una quantità eccessiva di gesti malvagi in questa vita, saremo condannati nella prossima a reincarnarci in una forma di esistenza meno elevata. Tale stato, tuttavia, non sarà punitivo. Offrendoci piuttosto l’opportunità di espiare le nostre colpe, nella speranza che la prossima volta ci possa riuscire di avvicinarci maggiormente allo stato desiderabile della non-esistenza. Qualche volta, uomini come noi che raggiungono l’illuminazione, tuttavia, scelgono di retrocedere volutamente, per tornare tra i miseri viventi e guidare anche loro verso la liberazione da tutti i mali e i pericoli della terra. Secondo la dottrina di questa religione, essi vengono chiamati Bodhisattva e corrispondono, nell’immaginario popolare, ai santi della tradizione cristiana. Uno dei Bodhisattva più famosi ed amati è senz’altro Jizo, protettore dei viaggiatori, dei defunti e dei bambini nati prematuri. L’aspetto a cui viene associato, fin dalla tenera età, è quello delle innumerevoli statue di pietra che vengono dedicate a lui lungo le strade, nei cimiteri e negli ospedali, spesso disposte in gruppi di sei, le quali avrebbero la funzione, secondo una credenza diffusa, di assumere su di se le sofferenze di chi dovesse trovarsi a subirne nei dintorni. “Non finché tutti gli inferi si siano svuotati diventerò un Buddha; Non finché tutti gli esseri siano stati salvati ascenderò alla Bodhi.” È il motto di Jizo, un credo che include anche i malfattori fatti della stessa pasta di Angelo, che il sacro essere andrebbe a recuperare personalmente all’inferno, per riportarli sulla Terra una volta che hanno scontato la loro pena. Un barlume di speranza che forse, avrebbe fatto comodo anche nella nostra ben più spietata religione.
Come la pietra creata nella foga del momento da Jojo, i jinmenseki assumono spesso l’aspetto delle persone che avevano protetto nella loro forma spirituale. Così Shozo Hayama del museo di Chichibu, per scherzo o per hobby, ha attribuito a ciascuno dei suoi pezzi più amati un nome, che si richiama a un personaggio famoso del presente o del passato. Sulla base di piccoli dettagli o sfaccettature, gli è riuscito così d’individuare una pietra Elvis Presley (the King of Rock, ahah) Gorbaciov, John Fitzgerald Kennedy, il celebre wrestler Antonio Inoki e l’immancabile Donald Trump, arricchito con un ciuffo di capelli d’alga color banana. Non mancano poi personaggi del mondo della fantasia, come Donkey Kong e il pesciolino Nemo, mentre alcuni dei sassi, piuttosto che contare sulla forma, sembrano raffigurare un’immagine più o meno accidentale sopra la loro superficie. È il caso ad esempio della “donna con bambino” ritratta in maniera evanescente, quasi fosse il terribile fantasma dell’Ubume.

Forse il più famoso jinmenseki del giappone è il grande volto di fronte all’affollata stazione di Shibuya a Tokyo, donato nel 1980 dall’isola di Niijima. La figura è scolpita nella pietra di riolite lavica, un materiale raro che si trova soltanto laggiù, oppure nell’isola di Lipari a largo della Sicilia nostrana.

Il volto che appare e scompare nella pietra, attraverso il susseguirsi ciclico delle epoche, è sempre stata una presenza affidabile dell’immaginario umano. Simili apparizioni, talvolta buone, altre malevole, quasi sempre enigmatiche, sono del tutto paragonabili a quelle degli “alberi sapienti” del sapere druidico, che agitando i loro rami parvero ispirare i progressi tecnologici e culturali d’innumerevoli antiche civiltà.
Per la religione dello shintoismo, che si dice rimanga alla base del sistema dei valori di un appartenente a questa nazione, indipendentemente dal credo professato dalla sua famiglia, non esistono a questo mondo degli oggetti che possano dirsi realmente inanimati. Poiché gli tutti gli spiriti, non importa quanto grandi o insignificanti, hanno bisogno di un appiglio per manifestarsi nelle regioni fisiche di questo mondo. Che si tratti di Jizo l’illuminato, o le innumerevoli forme minori di abitanti dell’universo degli yokai (o anche Pokémon, ma non andiamo eccessivamente fuori tema…) Questa è la ragione per cui i guerrieri come Raikō e Suetake, tenevano in così alta considerazione la loro spada, l’arco e l’armatura, infusi degli spiriti stessi dei loro antenati. Così come Shozo Hayama fa con le sue pietre, espressioni di una passione ereditata a quanto ci dice dal padre, ma che in un certo senso deriva dal suo stesso, imprescindibile, essere giapponese

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