Avventura animata nel regno della fotografia

The Falcon

Smonti la macchina, restano i pezzi. Che ci vuoi fare! Avete presente l’uccellino? Lui. Tutti lo guardano, nessuno conosce il suo aspetto. Da quando si sviluppano negativi, nel mondo della fotografia c’è un perenne volatile, come una sorta di canarino. O almeno così doveva essere, secondo l’immaginario di allora. Ci si metteva dietro la fotocamera primitiva, sotto l’immancabile lenzuolo nero, si posizionava il giovane soggetto, magari trascinato lì a forza, di sicuro ben poco collaborativo. E non era facile, preparare quel campo di battaglia, luogo “modernissimo” per fare un ritratto. Si fa per dire! Non c’erano le luci di adesso, ne certamente la praticità di una maneggevole reflex, di obiettivi e minuscoli processori digitali. L’unico strumento: essere rapidi, come un Falco. Perché bastava un momento d’immobilità, un attimo di esitazione ed era fatta. Così si diceva:”Guarda l’uccel…” Dall’immaginario, all’immagine. Non si faceva in tempo a trovarlo con lo sguardo, quello sfuggente pennuto, che già t’imprimevano su pellicola, per secoli e anni a venire. E forse, qualche volta la fugace creaturina, finta, s’intende, o persino impagliata, sopra un bastone ci stava pure, come ausilio all’ottenimento di quell’attimo fugace di grazia. La teneva in mano il più furbo fotografo, l’intrappolatore di bizzosi ragazzi delle epoche scorse. Per tutto il resto, c’era il formaggio (cheese…).
Ma il vero uccello della fotografia non l’avete mai visto, se non qui. E come avrebbe potuto volare, se non grazie alla tecnica dello stop-motion? Si chiama Howell ‘the Owl’ (il gufo) ed è fatto di rondelle, ingranaggi meccanici ed altre piccole parti di macchine fotografiche, tutte provenienti dalla prima metà del secolo scorso. L’ha messo insieme Scot Hampton, sul suo legnoso tavolo da lavoro, insieme a tutta una serie di altri curiosi personaggi. Dall’interiorità delle cose meno sofisticate, dai loro singoli componenti, può nascere qualsiasi cosa. Come un complesso ecosistema, con bestie che nuotano, volano, si rotolano a terra e strani cani robotici mai visti prima. La loro storia, se così si può chiamare, è anche la nostra, quella degli esseri umani. Ed è giusto così, visto che, indirettamente, li abbiamo creati.

Il cortometraggio animato The Falcon, secondo quanto riportato sulla super-esaustiva pagina del portale IMDB, segue il formato del classico racconto avventuroso. C’è uno stato di grazia iniziale, l’epoca di Argus, fatto di campi fioriti, bestie amichevoli e una piacevole atmosfera pastorale. Qui si muove il professor Weston, con il suo fido uccello ammaestrato. Vengono mostrati a passeggio, mentre incontrano una mucca felice e ne traggono giovamento. Ad un certo punto, l’improvviso disastro: un goblin grottesco, il malefico Silly Patty, sottrae un frutto dall’albero della conoscenza, una rotellina. Poi, non contento tira una leva. Si scatena il vento. Anzi il (re)wind, un’ondata di manovelle per il riavvolgimento, che si muovono per il cielo rigettando bulloni. Ed è facile da immaginare l’effetto, di una simile pioggia. C’è a quel punto, o almeno così spiega il riassunto, un’epica battaglia tra il bene e il male, visivamente fatta di mille animaletti che… Corrono a destra o a manca. Il tutto risulta essere, obiettivamente (er..) piuttosto criptico, ma tanto vale fidarsi. Nel giro di pochi minuti, l’intero Regno Focale ritornerà in pace, fino alla prossima grave peripezia.
Lo stile della complessa scenetta, tendenzialmente naturalistico, sembra più che altro finalizzato al tratteggiamento di un ambiente, quel mondo fantastico del tutto slegato dalla realtà. Poco importa della vicenda. I continui riferimenti specifici, nella nomenclatura e nella funzionalità dei singoli pezzi, dimostrano un’accurata conoscenza dell’ambiente della fotografia: Argus, Weston, Nikon, Polaroid… Tutto ha uno scopo, nell’ecosistema robotico creato da Scot Hampton. I diversi riconoscimenti concessi alla sua creazione, tra cui un tardivo bollino staff pick di Vimeo (il video era online da diversi anni) appaiono assai meritati. L’analogia, in fondo, potrebbe essere questa: fotografando la natura, questa permea noi stessi, la nostra interiorità. E con essa, inevitabilmente, una parte delle macchine usate. Smontandole, chissà che potrebbe succedere..

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