Accelerando sui tornanti dove nascono leggende

BMW Turnpike

Bruciare gomma alla maniera giapponese non è facile, né alla portata di chiunque voglia riprovare quell’odore, quel sapore, quel sentore nero, come il fumo e duro, quanto il suolo abbruciacchiato di passione per il fluido delle ruote cotte sull’asfalto. Occorre, innanzitutto, costruire l’automobile. Non bastano i pedali, a quanto pare, per salire in cima a una montagna millenaria, venerata da generazioni come un demone del territorio, la massiccia manifestazione del Karasu-Tengu, l’uomo corvo che vivrebbe, secondo chi l’ha visto, fra gli alberi della foresta in cima a tanta mitica imponenza. E chi l’ha visto mai… Altre cose che non bastano: quattro ruote motrici, l’ABS, il controllo di trazione e di stabilità, il cambio automatico, il navigatore. Però certamente, aiutano. Mica tutti siamo come Seiji Ara, che esattamente alla vigilia di Natale ha aperto i giochi con la sua Studie BMW Z4 (si, le auto elaborate di quei luoghi possono vantare anche un prenome) e si è lanciato a perdifiato, cadendo vertiginosamente vero l’alto, su, a destra e a manca per i tornanti che intagliano le montagne della prefettura di Kanagawa, laggiù nel medio Kanto, tra le ridenti cittadine di Odawara e Yugawara, gli antichi centri di un potente clan di samurai. Hôjô, era il nome di quella famiglia, che fu soprattutto l’Inviolabile, per secoli di guerre e traversie. Durante l’epoca Ashikaga, nel XII secolo d.C, furono loro, con un piccolo aiuto del vento divino kamikaze, a respingere le orde mongole di Kublai Khan. Durante l’inarrestabile avanzata del re dei demoni Oda Nobunaga (1534-1582) seguito dalle orde armate di barbarici fucili, furono per lungo tempo solamente loro, a resistergli nella persona di Hôjô Ujimasa, gran difensore di castelli con bastioni sovrapposti. C’è poi tanto da meravigliarsi? Guardatelo, codesto luogo. È una fortezza naturale. Basterebbe un cancello invalicabile, posto nel punto d’ingresso più strategico, per bloccare la venuta di un’armata intera. Ma non di un solo capo ronin col suo seguito di guerrieri a quattro ruote, purché paghi il pedaggio…
Guarda caso, la barriera ancora adesso c’è. Piuttosto che un valico di pietra e legno massiccio, tuttavia, ha preso una forma maggiormente adatta ai nostri tempi: un’asta di metallo, che si solleva a comando, previo deposito dell’obolo richiesto. Oh, passaggio a livello, che gli anglofoni chiamano turnpike! (Un termine che a me ricorda, più che altro, il concetto di tornello) Chissà come sarà avvenuto, che questo nome in stile americano fosse stato attribuito a questa strada giapponese, 16 chilometri di leggenda motoristica dei samurai… Invariabile negli anni, così come l’altra parte di quel duplice appellativo, invece, è stata a più riprese connotata da un diverso sponsor. Ebbene si, anche questo può succedere, chi l’avrebbe mai detto: nel 2007, dopo un’offerta generosa fatta alla regione, la Toyo, degli pneumatici, ha ribattezzato questo luogo, da Hakone, a Toyo Tires Turnpike. E poi di nuovo, a luglio di quest’anno, la stessa cosa ha fatto la produttrice d’automobili Mazda, con un prevedibile ritorno d’immagine tra i corridori sfegatati, gli inguaribili burloni della strada. Stiamo parlando, in fondo, di un luogo che è l’equivalente asiatico del Nürburgring, la mecca dell’automobilismo europeo, quel complesso di circuiti che si snoda tra le città di Adenau, Nürburg e Müllenbach nell’Eifel tedesco. Intere generazioni di autoveicoli, negli anni, sono state temprate e messe alla prova in questi luoghi, portando a una visione differente di quel che sia desiderabile, ed opportuno, in un ottimo veicolo per l’uso quotidiano…Non sempre poi così a ragione, sospensioni morbide, ahimé.

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Affittansi conigli col caffè

Bunny Cafe

Dal punto di vista grammaticale, geisha – 芸者 non è un termine plurale o singolare, maschile o femminile e neppure, nella sua accezione post-moderna, bipede o quadrupede, con il trucco oppure con le orecchie, lunghe, morbide e setose, di un piccolo coniglio da nutrire e accarezzare, dentro a un locale di ristoro del quartiere Asakusa, nord-est di Tokyo, presso il fiume di Sumida. Dove sorge o per meglio dire occupa l’intero sesto piano di uno stabile, l’Usagi-san Theme Park, filiale della catena nazionale “With Bunny” Cafè, gestita, a quanto pare, da un gruppo di sinceri amanti dei conigli, con tutti i loro figli, nonché del guadagno, indubbio e dimostrabile, che ti può portare quella soffice, carezzevole e bonaria ingenuità.
La cultura giapponese, non a caso, supporta da secoli una particolare branca dell’intrattenimento, che consiste nel pagare per passare il tempo con una qualche personalità aggraziata, preferibilmente umana e praticante delle arti nobili, per godere della sua preziosa compagnia. E non c’è nulla di segretamente sessuale, nell’incontro con queste persone lungamente addestrate, tradizionalmente, né comparabili secondi fini. Figuratevi anzi, che nel 1770 a Yoshiwara, secondo il testo della scrittrice Lesley Downer, Geisha: The Secret History of a Vanishing World c’erano 16 geisha donne e 31 uomini. Cinque anni dopo, si era passati a 33 donne ma gli uomini erano ancora 31, un numero ben presto destinato a raddoppiare. E non si trattava certamente di una strana usanza, o di pari opportunità decadute dalle origini di questo campo artistico, visto che ancora nel 1800, ormai alle soglie dell’occidentalizzazione, il geisha uomo era ancora assai diffuso, e ricercato per la sua abilità nel canto, nella danza e nel servire il tè secondo le complesse regole cerimoniali del cha no yu. Poi, gradualmente, la metà femminile della professione prese il sopravvento su quell’altra, i cui esponenti presero a farsi chiamare collettivamente taikomochi, i “maestri delle cerimonie”. Finché non giunsero i conigli, a fargli concorrenza…
Ci sono molti preconcetti errati, nella concezione internazionale del/della geisha, un retaggio probabile di quella stanca epoca sulla prima metà del secolo scorso, quando la visione nipponica del mondo era un sinonimo di guerra senza quartiere, mentre i soldati in uniforme giapponese sul fronte del Pacifico, come è tristemente noto, si abbandonavano a barbarici comportamenti, enfatizzati dalla contrapposta propaganda (e non furono, del resto, gli unici, né i soli in quel teatro di battaglia). Da allora e per lungo tempo fu inconcepibile, per la nostra mentalità occidentale, immaginare una relazione di estrema purezza d’intenti ed eleganza, dalle splendide connotazioni estetiche e rituali, com’era invece stata quella della geisha e il samurai. Che a conti fatti, mai s’incontrarono all’epoca remota dell’unificazione del paese, quando i signori della guerra in armatura, con lancia ed elmo decorato, come narrato nei romanzi storici, combatterono ferocemente per il predominio militare dei diversi clan. Molte delle usanze che erroneamente si attribuiscono all’era Sengoku (1467 – c. 1603) in effetti, come anche il teatro del kabuki e la stessa cerimonia del tè, furono piuttosto il frutto dei due secoli di pace successivi, sotto l’egida dei forti shōgun Tokugawa, grandi patroni delle arti, sia marziali che d’altro tipo. Finché non venne Restaurata, sotto il suono dei fucili, l’antica visione nazionalista con l’Imperatore divino, al centro dell’intero universo dominabile dall’uomo!

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Il Colosseo degli insetti giapponesi

Bug Fights 1

In un vortice di zampe chitinose e tremende placche interconesse, il serpeggiante incubo di notti tiepide di primavera: scolopendra, oppure un millepiedi. Dentro una scatola, fulmine venefico che si attorciglia…Cosa sta facendo, come ci è arrivato? Soprattutto, verrebbe oggi da chiedersi, chi ce l’ha messo, lì arancione? C’è sempre una ragione, anche quando sarebbe davvero meglio non conoscerla, almeno, per chi ama gli animali piccoli e spietati. D’altra parte, affari suoi (o nostri, mostri). L’orrore di un momento molto naturale di barbarie, eppur tutt’altro che una tale cosa, per sua chiarissima definizione, data dal gesto imperioso di chi vuole, pure troppo & crudelmente, divertirsi: una battaglia indotta, come il classico incontro di wrestling o di pugilato, ma tra le forze degli artropodi infernali, nell’aspetto e per la predisposizione. Anzi che dico, pure peggio di così. Perché all’altro angolo di questa teca della morte ronza, un po’ nervosamente, nientemeno che lui/lei/esso: state attenti, è un calabrone giapponese!
La Vespa mandarinia non è come quella che conosci dalle scoribbande nei giardini della tua remota gioventù. Prima di tutto, perché può stendere uno yak. Cinque centimetri di lunghezza (puoi prenderla, per il suo stretto collo, fra l’indice ed il pollice e vederla ricadere fino al palmo, mentre si agita in attesa di vendetta) e ha un pungiglione lungo quanto l’ago di una piccola siringa, pressapoco o giù di lì. Come il cobra reale o lo squalo bianco, tale inclemente creatura caccia i suoi simili dalle comparabilmente ridotte dimensioni, incluse api, altre vespe e addirittura le mantidi stesse, creature, quelle, predatrici e fatte apposta per ghermire ciò che vola. Purché pesi ed odi meno, di colei che agita l’artiglio. Per tentare di afferrare, cosa, la morte stessa? Non scherziamo. Ben altro ci vuole, per fermare un simile mostruoso cacciatore. Ed è furba, la natura. Molto intelligente e razionale. Perché nell’evoluzione dei biomi rilevanti, asiatici e distanti, mai avrebbe previsto situazioni affini a questa: che il grifagno e lungo e furioso corazzato avesse da competere, per il proprio spazio limitato, con quell’altro, addirittura, il messaggero giallo e nero della fine. Metterci le mani è una strana follia, questo costringere tali maestosi-micragnosi esseri a sfidarsi, senza la minima intenzione di salvarne, più di uno al massimo, a dir tanto. Per lo meno fino al giorno del prossimo incontro.
Eppure, strano a dirsi, c’è davvero chi lo fa. E il catastrofico sito Internet, Japanese Bug Fights, una vecchia conoscenza digitale degli aspiranti entomologi spregiudicati ed amanti delle cose senza precedenti, ne raccoglie molti, dei siffatti e sconvolgenti eventi, in cui qualcosa, di alato, chelicerato, con pungiglione e/o chele, corni e/o arti simili a piccole ma taglienti armi, viene posto in condizione di lottare con la controparte di giornata. Un suo simile, nella disgrazia, eppure dissimile, nei fatti della semplice apparenza: perché i gamberi vengono mescolati con le cavallette, ragni con gli scorpioni e così via – l’unico classico ricorrente, sacro ed inviolabile come un incontro di sumo, è la sfida tra due coleotteri lucanidi, più meno uguali nelle dimensioni, vero caposaldo del sentire nipponico. Fin da quando il primo samurai d’epoca tarda di Kamakura indossò l’elmo celebre della sua casta. Che aveva, tanto spesso, un’ottima rassomiglianza con tale specifica creatura, l’Allomyrina dichotoma, o kabutomushi: davvero strano e significativo, chiamar quest’ultimo l’insetto-elmo, piuttosto che il contrario. Quasi che l’idea guerresca di spiccare fra la folla, in mezzo al campo di battaglia, fosse ancor più antica, addirittura, dell’animale stesso…

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Carri-nani armati di volàni

Tankette

Lo spostamento autonomo è da sempre stato, nell’ambiente dei giocattoli, un punto cardine della questione. Poiché non importa quanto è piccola una cosa, l’automobilina, il camion dei pompieri: se cammina sembra vera. Se non usa pile, pare magica, persino…Appunto come queste splendide invenzioni, cromate, dell’utente giapponese スターリング (da leggersi probabilmente: Stirling) che se ne vanno, su e giù sul suo tappeto, grazie unicamente ad una spinta muscolare. Quella data, da principio, con un gesto relativamente faticoso, la mimési dell’interminabile avanzata, che segue, di lì a poco e poi procede, avanza, divora centimetri e decine di corpuscoli o animelle. Come può essere una cosa tale? Come mai, se spingi prima, poi si muove, dopo, ancora? È un fenomeno della meccanica. Già, la ruota che conserva, nell’inerzia, l’intenzione di partenza, che ricorda e gira meccanicamente, così esegue, senza lapsus, la missione di giornata. Col volàno, non ti sbagli. Guarda e grida! Se non vòlano, poco ci manca.
Una pura e semplice rivoluzione. Giacché tra i popoli dei piccoli, come gli gnomi, oppure gli elfi della tradizione, non è facile trovare bestie valide che li possano trainare. Non ci son cavalli piccolini, a parte i pony. Hai voglia, cavalcare un topo! Non puoi farti trasportare da una tartaruga, se non hai pazienza. E un motore con i crismi ultramoderni, per sua implicita natura, può ridursi nelle dimensioni. Ma soltanto fino a un certo punto e poi del resto, ne hai bisogno? Quando è facile in alternativa, farti trasportare da una soluzione semplice, assai più chiara e luminosa. Sottinteso: con l’aiuto di un gigante, che ti spinga. Il solo problema di questo particolare approccio motoristico, ciò che gli impedisce di trovare applicazione tra gli umani full-size, è che la ruota di metallo, colei che accumula il moto angolare, in qualche modo devi metterla in funzione. E la forza necessaria è sempre quella, del tuo viaggio intero, ma ben concentrata in un momento oppure, a dire tanto, due.
Qui entra in gioco la persona vera, che s’immagina quegli altri, per il suo divertimento. L’uomo è forte, grande, l’essere che domina il tappeto e il pavimento. Assieme a tutto quello che lo ingombra, inclusa la mobilia e i modellini. Così ti svegli, una mattina, e guardi il frutto di tanta fatica: 15 centimetri di splendido metallo, con un lungo cinturino a far di cingolato (chissà se in Giappone li vendono, tali componenti, per i tanti appassionati di montaggi sbarazzini) e dici: “OGGI”. Allora sposti tutto verso i muri. Metti un’asse lignea 2-by-4 in diagonale, dal terreno fino al tavolo da pranzo. E mandi innanzi la tua splendida (Queen) Vittoria…

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