Il nesso tra Beethoven e la spazzatura di Taiwan

Proprio come avviene per le terribili tempeste tropicali che colpiscono il paese, lo stato di fatto della Repubblica di Cina (RDC) è un grande vortice, di cacofonico frastuono, vento del cambiamento, fantasie confuse di colore. Natura e tecnologia, fuse assieme tra le torri di un ambiente urbano che è il cuore stesso, geografico, culturale ed omnicomprensivo, dell’intera isola a forma di foglia. Al centro della quale, nonostante tutto, esiste un nucleo denso di silenzio. O per lo meno, tale spazio c’era attorno al 1980. Collocato esattamente dentro la lussuosa casa del Ministro della Salute Hsu Tse-chiu. Almeno questo, lo sappiamo molto bene. Altrimenti, come potremmo mai spiegare la leggenda? Di sua figlia, allora ancora una bambina, che suonava al pianoforte la più celebre di tutte le composizioni in La minore, nient’altro che una mera bagatella, che si crede (non è certo) fosse stata dedicata dal secondo maggior compositore musicale della storia ad una donna di nome Elisa. La quale invece forse si chiamava, invece, Theresa… Cosa importa! Ciò che conta è che praticamente tutti, nelle zone interconnesse del mondo, riconoscono quell’apertura in Poco moto, con il susseguirsi di una serie di arpeggi in A minore ed E maggiore, che poi si trasformano in maniera discendente. Perché è la base d’innumerevoli lezioni di musica. Nonché l’accompagnamento musicale emesso, senza posa, dagli altoparlanti del più tipico furgone dei gelati americano. Ma non qui, non adesso… Dove la piccola suonava, e il rimbombo dei suoi tasti riecheggiava per l’abitazione. Fino ad assumere una proporzione tanto grande, tale da influenzare tutta quanta la città di Taipei.
E quanti ce ne sono, esattamente, di tali veicoli all’interno di un centro abitato? Qualche decina, un centinaio? Più che bastanti ad associare un tale suono alla gioia reiterata dei più giovani, che correndo sull’asfalto dei sobborghi delle ville a schiera, acquistano il sapore che caratterizza il senso ed il momento di un’intera estate. Adesso pensate, invece, che cosa succederebbe se a suonare quella musica fossero i camion della spazzatura. Continuamente. Un migliaio di possenti mezzi, eternamente intenti a muoversi tra i sentieri interconnessi dell’intero consorzio umano. Per Elisa, Per Elisa, Per Elisa. Lo sentireste all’ora del risveglio. Lo udreste poco prima di andare a dormire. Nell’ora di punta, bloccati dentro un vicolo dal deretano del gigante a quattro ruote, imparereste ogni sua nota nel profondo della vostra mente. Ve lo sognereste la notte. Benissimo! Benvenuti a Taiwan. Dove il silenzio è d’oro, mentre invece Ludwig van Beethoven, si direbbe, è puro platino, che accarezza le sinapsi e i padiglioni auricolari della gente di qui. Almeno a giudicare dalla gioia nell’udirlo di questi ultimi, che ogni volta si manifesta nella tipica reazione di chi corre fuori con le buste che teneva in casa sua. Per trasformarle, gioiosamente, nel regalo della propria stima ed entusiasmo. Encore! Encore! Per tre volte al giorno, minimo, cinque volte la settimana. È un metodo bizzarro. E per certi versi fastidioso. Ma che bisogna ammetterlo: funziona. Perché provate un po’ a guardarvi intorno. Non vedrete neanche l’ombra di un cassonetto. Chi produce spazzatura, in questo luogo, ha una singola e fondamentale responsabilità: tenerla ben stretta, finché non sente quella musica, il segnale che è giunto il momento di portarla di persona da coloro che la porteranno via. È una scelta alquanto originale, che comporta non pochi mutamenti nelle dinamiche sociali che compongono l’andamento di una giornata. Ma che risulta, anche e soprattutto, l’unica possibile, in un paese in cui le piogge annuali oscillano tra i 2.500 e 5.000 mm, e l’umidità e talmente intensa da portare a marcescenza qualsiasi scapolo di cibo o altri tipo di scarto domestico, nel giro di appena mezza giornata. Taipei, oggi: una città splendida, alla pari con i centri abitati di qualsiasi paese del primo mondo. Non è sempre stato così. Prima che la figlia di Hsu Tse-chiu suonasse la sua bagatella al pianoforte, questa era per tutti “L’Isola della Spazzatura”. Con i suoi 20 milioni di abitanti e un numero anche più grande di topi, talmente tanti da far invidia al pifferaio reso celebre da Wolfgang Amadeus. Poi, tutto cambiò…

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Ricercatore propone un metodo per annientare le zanzare

Ovillanta

E tutto quello che serve, per costruirlo, non è nient’altro che un copertone d’automobile? Più o meno. Ci sono degli altri elementi: un tubo in PVC dotato di rubinetto, del silicone, qualche ritaglio di carta sufficientemente resistente all’acqua. E poi, ovviamente, un po’ del prezioso fluido trasparente che fuoriesce dai nostri comuni rubinetti, possibilmente mescolato ad una speciale soluzione a base di latte. Ma poco, pochissimo e facoltativo, ad un tal punto che il nuovo approccio è stato originariamente implementato dal Dr. Gerardo Ulibarri della Laurentian University in Ontario, Canada, con la finalità principale di portare assistenza a tutti quei paesi in via di sviluppo, in cui i servizi moderni del vivere civile, per non parlare delle spedizioni logistiche con la finalità di distribuire del materiale, sono ancora dei lussi ben lontani dall’essere a disposizione della collettività. Sia chiaro, a questo punto, che non c’è un singolo motivo per cui l’utile risorsa delle ovillantas, tale il nome dell’oggetto di cui stiamo parlando, non possa portare un qualche tipo di sollievo anche alle nostre notti primaverili ed estive, contribuendo ad eliminare almeno in parte quel sinistro ronzio, segno rivelatore di alcune delle più fastidiose ed ansiogene creature parassite a questo mondo. Nonché soprattutto, prolifiche. Ed è proprio attaccandole in prossimità di questo loro aspetto, che ci stiamo qui prefigurando di giungere ad un mondo, forse…Meno biologicamente vario. Eppur di certo, migliore, più sicuro! soprattutto per bambini, anziani ed altri esponenti di categorie a rischio, che a seguito di un episodio di attacco dell’insetto succhia-sangue per definizione, potrebbero dover temere ben più che un semplice prurito verso l’ora del risveglio. Insomma, è un dato certo è dimostrato: le zanzariere salvano le vite. Però ancora meglio, sarebbe non averne neanche la necessità.
Il termine usato per definire l’innovazione tecnica in questione, questa strana parola ovillanta, è in realtà la combinazione di due vocaboli: oviposition, termine inglese usato per riferirsi alla metodologia riproduttiva di tutte le appartenenti alla famiglia delle Culicidae (dalla nostra odiata Culex domestica, fino alla temuta Aedes aegypti, portatrice della febbre gialla e del virus Zika) e l’espressione spagnola llanta, che significa semplicemente copertone. La scelta di questa seconda lingua deriva dalla collaborazione intercorsa tra il team canadese di Ulibarri e il Dipartimento della Salute Pubblica Messicano, nel corso di un periodo di prova del metodo in una regione particolarmente disagiata del Guatemala centroamericano, abitata da circa 15.000 persone. Impiego sistematico durante il quale 84 di queste trappole, assieme ad un corso intensivo fatto alla popolazione sul loro utilizzo, hanno portato all’eliminazione di 180.000 uova di zanzara contro le 27.000 normalmente distrutte tramite l’impiego di metodi convenzionali. È stato inoltre verificato un evidente calo dei casi di patologie legate alla loro presenza, in un periodo dell’anno in cui di solito i malati si aggirano sulle due o tre dozzine. Il risultato della ricerca, dunque, pubblicato giusto il 7 aprile sul sito Internet divulgativo F1000 Research, sta già avendo una risonanza e visibilità notevole sui molti canali del web.
Il fatto stesso che una semplice figura retorica come il portmanteau (unione di parole) riesca già a spiegare in buona parte di cosa stiamo parlando, è la dimostrazione acclarata della semplicità di realizzazione e d’impiego del sistema. Tanto che se avrete visto il video soprastante, di certo ne avrete già acquisito i princìpi operativi di base. Passiamo, dunque, ad una descrizione maggiormente approfondita.

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Strane sparatorie per pulirsi i denti

Airsoft toothbrush kid

Il giovane protagonista di questo video giapponese aveva un’aspirazione assai condivisibile: faticare poco per l’igiene orale. Ci sono in effetti delle volte in cui quel movimento ripetuto, del far muovere lo spazzolino avanti e indietro, su e giù, destra e… mette alla prova le già stanche membra di chi ha poco tempo libero a disposizione. Cos’è, in fondo, il divertimento? Qualcosa di superfluo, che le persone impiegano per far passare le ore prive di significato? O piuttosto il nettare che ci colora la giornata, irrinunciabile all’incirca quanto l’ora di merenda? Ecco che, per l’appunto tokioFN [sic] questo il suo nome di battaglia, aveva uno di quegli hobby che ti offrono una sorta di glass ceiling, ovvero il “soffitto di vetro” della teoria professionale anglofona e statunitense. Sarebbe a dire che, per quanto ci dai dentro e ti applichi nel campo specifico della questione, inevitabilmente scorgerai la condizione più totalizzante, maggiormente impegnativa. Così è la vita, per chi è dedito allo scopo. Così è pur,e per chi la propria realizzazione sa trovarla insieme alle pistole ad aria compressa, nelle carabine e in tutto il resto.
Spari due colpi tanto per provare, presto ti ritrovi appassionato, quanto lui. Naturalmente, stiamo ipotizzando. Però come spiegare, altrimenti, una tale scena! Quest’uomo, un eroe della serendipità digitale, non si limita a riempirsi casa con i modellini delle armi più diffuse nei comuni videogames. Superata l’ora di cena, se le porta in bagno e le usa finalmente in modo utile, facendone un tutt’uno con lo spazzolino e il caro scotch. C’è un certo senso di giustizia universale, in una tale surreale attività. Pensate alla costante guerra combattuta dagli umani contro l’entropia. Qualunque essere biologico, alla sua nascita, dispone di una certa quantità di anni, per lasciare ai posteri la traccia della sua trascorsa materializzazione (molto spesso basta riprodursi, dando adito a una sorta di metempsicosi). Tale tempo limite, a quanto ne sappiamo, non può essere quantificato, tranne a posteriori. Perché ci sono guerre, incidenti, malattie. Sappiamo questo, solamente: i denti sono 32, non contando quelli destinati alla maliarda del cuscino. E non avremo altri, se non tramite l’apposizione di posticce installazioni mascellari, quasi mai paragonabili agli originali. Questi bianchi pezzettini, dallo smalto destinato a consumarsi, sono il timer del giudizio, la sostanza della vulnerabile sopravvivenza. Occorre dunque preservarli ad ogni costo, con la forza massima della tecnologia.

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La collezione degli orologi radioattivi

Orologi radioattivi

Un uomo entra in una stanza con un contatore geiger e misura una dose di radiazioni equivalente a 1.25mSV/ora, superiore a quella rilevata nei dintorni dell’incidente nucleare di Three Miles Island, verificatosi in Pennsylvania il 28 marzo del 1979. In sostanza, trovarsi in questa stanza è come farsi un esame radiologico l’ora. Al centro dell’ambiente c’è una vetrina, con dentro una collezione di pietre e anticaglie varie, in prevalenza orologi. Ci troviamo ben lontani da Fukushima o Chernobyl e questo non è un film o videogioco. Il tubo argentato di un sofisticato impianto di riciclo dell’aria, unica concessione verso l’umana prudenza, scarica attraverso le pareti gli umori nefasti e il grosso dei veleni racchiusi da quel semplice pannello di vetro trasparente. Chi tocca muore? Chi guarda, persino? Non proprio, perché siamo a casa di ALARAiswise, collezionista inglese di tutto ciò che abbia più di 50 anni e una lancetta, il quale ha trovato il modo per scoraggiare i suoi parenti e amici dall’invidargli il possesso di tali e tante meraviglie di modernariato. Semplicemente, dimostrandone la potenziale pericolosità. In effetti, non c’è oggetto di uso comune che sia più radioattivo di un orologio risalente al primo ventennio del ‘900. A quei tempi, l’entusiasmo collettivo per la chimica era come un’onda inarrestabile che si espandeva da un campo all’altro dell’industria, mietendo sulla sua strada molte vittime inconsapevoli. Tutto iniziò nel 1896 con la scoperta, da parte dello scienziato francese Henri Becquerel, di come l’elemento uranio generasse un impercettibile flusso di particelle fosforescenti. Due anni dopo Marie Curie, grazie all’aiuto di suo marito, rilevò l’esistenza del radio e del polonio, sostanze rarissime in natura e ancor più potenti, tanto da emettere una fievole luce per tutta la durata della loro emivita. La migliore prestazione a lungo termine, da questo punto di vista, era quella offerta dal radio, che mescolato ad altre sostanze poteva brillare a distanza di anni. Così, le compagnie di allora ci fecero una vernice detta Undark (il non-buio) che avrebbe risaltato in ogni condizione di visibilità. Poi, la misero da tutte le parti, compresi i polsi e le tasche delle persone.

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