Scienziato giunto da lontano che cammina, lo sguardo concentrato, tra la tremula penombra dell’entroterra malese. Sull’isola internazionalmente suddivisa del Borneo, i cui nativi anticamente non avevano particolari preconcetti in materia di confini politici arbitrari. E questo vale, parimenti, per l’eccezionale varietà di piante ed animali che la popolano, rendendola uno degli hotspot biologici di maggior calibro nell’intero vasto quanto eterogeneo catalogo del mondo. Così egli compie un passo, si ferma, annota i nomi delle specie nel taccuino della propria mente. Ma non sosta più del necessario su alcun dato, quasi come stesse in realtà cercando qualcosa di altamente specifico. Una singola e importante perla, in mezzo alla tempesta di possibili spunti d’approfondimento; la scintilla verde in mezzo al mare d’erba. Il tenue lucore cosmico tra galassie ancora prive di un nome. Una pausa, una rapida battuta, l’eureka pronunciato silenziosamente. Ecce herba o per meglio dire in termini latini, arbor! Giacché vicino al piede destro, in quell’estate fatidica del 2023, figura una corona di piccole foglie striate. non proprio un tenero virgulto, a dire il vero, bensì l’arbusto totalmente adulto di un particolare tipo di eminenza. Quella che l’ispiratore accademico di una simile ricerca, già sul finire degli anni ’90, aveva già incontrato ed identificato su suggerimento dei nativi, come Pinang Tanah, Pinang Pipit, Muring Pelandok, Tudong Pelandok. Tutti appellativi nelle lingue tribali del Sarawak e zone limitrofe, parimenti usati per il succoso frutto rosso commestibile che campeggia sotto il cappotto di foglie cadute al suolo. Assieme al resto delle strutture vegetali di qualcosa che a nessuno, in condizioni normali, potrebbe mai capitare di vedere per intero. Poiché si tratta della sola ed unica palma incline a crescere e riprodursi… Nel sottosuolo.
Colui a cui stiamo facendo riferimento al passato è dunque il naturalista locale Paul P. K. Chai, mentre l’odierno collega in corso attualizzato d’esplorazione un membro qualsiasi del corpo di spedizione organizzato dai giardini botanici britannici degli orti di Kew, al fine di dirimere uno degli enigmi maggiormente persistenti nel settore di studio dell’universo vegetale. La possibilità più volte paventata, ed infine confermata a pieno titolo, dell’esistenza di quella che la nomenclatura binomiale latina avrebbe visto identificata come Pinanga Subterranea. Ancora e sotto molti punti di vista, l’ultima erede di una linea evolutiva rispondente ad esigenze di sopravvivenza non del tutto chiare…
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Rasoio marino: i pensieri di una gazza dallo sguardo sottile
È principalmente un concetto che deriva dall’invenzione del metodo scientifico, l’idea secondo cui l’occhio dell’osservatore non debba modificare la percezione della natura. Ma che dire della percezione della creatura dotata di un occhio che osserva, a sua volta, l’osservatore? Bulbo dell’acquisizione della conoscenza, scuro, grande, lacrimoso che contribuisce al senso generale di un agglomerato di fenotipi, intesi come l’essenza risultante di svariati millenni d’evoluzione. In salita sulla strada che conduce via dal mare e fin sopra le rocce ove risiede, in trono, l’alca. Torda, nello specifico ed è così che recita il suo nome latino (Alca t.) benché presso i suoi luoghi di provenienza, gli indigeni o locali cacciatori preferiscano chiamarla “becco a rasoio” con diretto riferimento alla sua indole carnivora ed il piglio di perfetta tuffatrice tra le onde ricche di tesori guizzanti. Laddove il suo tratto maggiormente distintivo, soprattutto se la si osserva da vicino ed a partire dalla documentazione fotografica dei nostri giorni, resta proprio la livrea della sua testa nera con due strisce sottili. Una verticale sopra il becco e l’altra ad accentuare, come dicevamo le aperture iridate per la percezione della luce. Che sembrano passare in secondo piano, di fronte all’impressione che l’uccello indossi un qualche tipo di occhiale, visore o mascherina oculare. L’effetto estetico, per un volatile dalla forma idrodinamica che ricorda vagamente un pinguino assottigliato, è sorprendente: quasi come se osservando di nascosto egli abbia qualcosa di effettivo da nascondere ed in conseguenza di ciò, risulti essere tre o quattro volte più pericoloso. Il che non è così lontano dall’effettiva realtà dei fatti: come la maggior parte degli altri uccelli della famiglia degli alcidi, ed invero l’intero genere dei caradriformi, il razorbill è un carnivoro che mangia altri carnivori, mangiato a sua volta da carnivori. Il che lo pone nella difficile posizione in bilico di un ingranaggio funzionale al grande sistema interconnesso dell’Atlantico settentrionale, dove si concentrano i suoi territori riproduttivi e principali siti di residenza. Il che non impedisce certe volte in inverno, durante i lunghi tragitti migratori che è incline a percorrere, che scelga di spingersi fino alle parti centrali del Mediterraneo, raggiungendo agevolmente l’Italia, Malta, la Grecia e il Maghreb. Con la comparsa in grande numero documentata ad esempio sulle coste della Toscana negli anni 1885, 1912, 23, 53, 81-82. E nella casistica più recente, tra il novembre ed il dicembre del 2022, con ampia copertura pressoché spontanea ed immediata sui social network. Certo, quanto spesso ti aspetteresti di vedere, a queste latitudini, un pennuto cibernetico che pare fuoriuscito direttamente dal catalogo accessorio del film Tron?
Il battito cardiaco della cipolla che trasforma le onde in energia di mare
C’è un solo modo per risolvere i problemi della Terra ed è l’avanzamento tecnologico: creare, migliorare, inventare cose in grado di aumentare l’efficienza dei processi. O eliminare un certo tipo di paradigma, come quello che comporta l’estrazione e conseguente combustione intenzionale di enormi quantità di carburante fossile. Che oltre a generare indesiderabile anidride carbonica, presenta la questione niente affatto trascurabile di essere una risorsa in quantità finita. Ovvero prossima all’esaurimento, se prendiamo in considerazione soltanto quei giacimenti già largamente noti e commercialmente utilizzabili con profitto; aspetto, quest’ultimo, niente meno che indispensabile all’interno di una società capitalista e basata sui crismi del mercato globale. Ma il mondo di per se non ragiona né funziona in tale modo, anche ammettendo che una mente immutabile governi processi come il flusso dei venti, la danza dei corpi cosmici ed il ritorno delle maree. Tutti processi, nella fattispecie, utilizzabili come fonti d’energia sostitutiva, a patto di trovare un modo che possa definirsi, a pieno titolo, perfettamente realizzato. E nel suo specifico contesto d’utilizzo, ben pochi potrebbero negare che il CorPower C4, primo esemplare di livello commerciale del generatore prodotto dall’omonima compagnia svedese, abbia messo le proprie aspirazioni in un contesto produttivo. Quello immaginato per la prima volta, in modo per lo più collaterale nel 2011 dal cardiologo Stig Lundbäck, già autore nel 1986 di uno studio scientifico mirato a definire il cuore umano come una pompa dinamica adattiva (DAPP). Dal che, l’idea: se le linee di approvvigionamento elettrico di un moderno centro urbano corrispondono al suo sistema di vene ad arterie, perché non immaginare per agevolarne il funzionamento una forma di approvvigionamento elettrico simile al muscolo più importante situato all’interno del torace umano? Un organo situato, con la consueta decentralizzazione dei moderni processi ingegneristici, non all’interno del corpo in questione bensì oltre il bordo della costa, là dove l’impeto selvaggio del pianeta è solito creare un ciclo ininterrotto di spostamenti. La massa ricorsiva del moto ondoso, che impatta ad ogni singolo minuto contro le sabbiose sponde. Ivi piazzare idealmente un qualche tipo di trasformatore, incaricato di ricevere ed incanalare il potenziale frutto di un potente movimento, sopra e sotto, sopra e sotto all’infinito. Di quel bulbo quasi vegetale, vagamente paraboloide, concepito per massimizzarne l’implacabile compimento di quel solerte gesto…
“Che il tuo giardino possa essere visitato dal poligono della tigre” – Antico anatema giapponese
La timida foglia in mezzo all’erbetta sembrava proprio, ai tuoi occhi, il piccolo cuore stilizzato tra le pagine di un fumetto per bambini. Amore, grazia ed armonia erano i sentimenti che suscitava: “Oh, fantastico! Evviva la natura, che porta spontaneamente le piante nel mio giardino…” Avrai detto, meditando sull’aspetto che una simile ospite avrebbe teso a dimostrare. Finché pochi giorni dopo, attorno ad essa ne spuntava un’altra. E poi un’altra ancora. Ben presto la massa fibrosa e intricata continuò a crescere, e tu avresti potuto fare una di due cose. Essendo una persona ottimista o disinteressata alle cose vegetali: lasciarla stare. Un grosso errore. O contando sull’intuito e il potere del pollice verde, con grosse forbici ed altri attrezzature: tagliare, tagliare. A conti fatti, uno sbaglio persino peggiore! Poiché non è possibile sconfiggere ciò che non vuole e non può morire. Per il mandato ereditario dei propri fenotipi darwiniani, che l’hanno resa invincibile in un’ampia gamma di possibili circostanze incluse quelle, nello specifico, naturali. È il superamento in un certo senso della siepe concettuale, oltre la quale un qualsiasi essere vivente, semovente o meno, può serenamente affermare di essere in grado di sopravvivere all’estinzione dell’uomo. E se lasciato alle proprie macchinazioni, cominciare serenamente a sovrascriverlo, fin da ora. Fallopia japonica o poligono, tuo nome è verità. Accompagnata da una rivelazione: se qualcosa convive tranquillamente con gli uomini nel suo spazio legittimo di appartenenza, questo non significa che potrà farlo altrove. Dove “altrove” è praticamente ogni singolo altro paese al mondo, inclusi Inghilterra, Stati Uniti, Olanda, Italia e luoghi lontani, come l’Australia, in cui attraverso l’ultima decade una simile pianta ha trovato l’opportunità di affondare i suoi rizomi. La parte del ramo che cresce sottoterra, invisibile e impossibile da individuare, finché gradualmente, inesorabilmente, sbuca attraverso la terra, le crepe dell’asfalto, le intercapedini delle mattonelle. I tubi dell’acqua o del gas. Le pareti. Capite ciò di cui sto parlando? Ci sono piante come l’edera che ricoprono graziosamente le dimore avìte, disegnando superfici eleganti che alludono alla natura. Altre, dal conto loro, le stritolano e ci passano attraverso. Persone colpite dalle fasi successive di questa condanna, sanno che ogni volta che si allontanano dal proprio giardino per più di una settimana, lo troveranno di nuovo marcato dai segni inesplicabili dell’invincibile dannazione. E pensare che questa pianta oggettivamente ornamentale, alta fino a 4 metri nei periodi delle sue infiorescenze gialline e visivamente simile per il resto a un bambù dal gambo maculato (da cui l’impiego nel suo paese d’origine del nome Itadori – 虎杖: canna della tigre) fu trasportata intenzionalmente in Europa a partire dal XIX secolo, da botanici convinti di aver trovato la specie perfetta per ornare i viali e stabilizzare i fiumi. Vedi il caso dell’avventuriero tedesco Philipp Franz von Siebold, che ne scalò un vulcano per riportarne una radice agli orti londinesi di Kew. Aprendo letteralmente l’angusto pertugio, senza ritorno, alla scatola di Pandora e tutto ciò che poté derivarne in epoche ulteriori…