Furia dell’ipnotico vulcano nella notte indonesiana

Se c’è un’inerente vantaggio negli ultimi progressi tecnologici nel campo delle riprese video digitali, questo può essere di certo individuato nell’opportunità di puntare un obiettivo sul finire del crepuscolo, verso qualcosa di alto, e scuro, e distante, aspettandosi che la sua sagoma figuri chiaramente sul fondale grigiastro del vasto cielo. Chiamatelo pure, se volete, il benefit dell’amplificazione artificiale del contrasto, ma anche perché no, l’effetto stesso delle svariate centinaia di metri di scie infuocate, che liberando fumo e scintille disegnano i profili di una brace vasta quanto la montagna stessa. E se ci trovassimo, col nostro piccolo progetto videografico, in prossimità di un qualsivoglia luogo al mondo, una situazione come questa avrebbe l’occasione pressoché immediata di fare notizia, comparendo in breve tempo su innumerevoli giornali e pagine web. Ma in corrispondenza di una particolare contingenza geografica, come lo svettante massiccio che spicca tra le onde, nello stretto che divide le isole di Java e di Sumatra, tutto questo appare pressoché normale, come periodica effusione dell’enorme, mai dimenticato Krakatoa.
Ecco perché questo impressionante video, realizzato dall’appassionato di fotografia vulcanologica Martin Rietze, pur essendo stato realizzato verso l’inizio della settimana scorsa, non ha avuto modo di fare la sua comparsa nei telegiornali di mezzo mondo: in un luogo remoto all’altro capo del globo, un vulcano erutta fiamme in mezzo al mare. Costituendo una ragione di pericolo, per… Nessuno? Strano come molti siano preparati a mettere da parte la storia, e con essa eventi come il cataclisma del 1883, la più grave eruzione registrata a memoria d’uomo, quando l’antenata di questa stessa montagna esplose con l’equivalente di 200 megatoni di TNT di potenza, collassando su se stessa e dando origine a uno tsunami che costò la vita a 36.417 persone. Antenata nel senso che, di quella stessa montagna-isola un tempo nota all’Occidente come Crackatouw, Cracatoa e Krakatao, successivamente a un tale evento non rimase pressoché nulla che potesse emergere al di sopra dei flutti. Se non che, nel giro di pochi mesi appena, qualcosa di nuovo cominciò ad emergere al suo posto. Oggi lo chiamano Anak Krakatau, il “figlio di Krakatoa” e benché misuri ad oggi circa la metà degli 813 metri un tempo raggiunti dalla più alta delle vette del suo genitore, esso appare più che mai intento a perseguire la stesso obiettivo di pendere, come una spada acuminata, sulle teste degli sporadici benché popolosi villaggi situati nei più immediati dintorni della sua svettante presenza rocciosa.
Benché occorra, nei fatti, applicare un distinguo: eventi come quello dell’attuale attività eruttiva, in realtà in corso dalla metà del mese di ottobre scorso, costituiscono un evento fortunato, poiché permettono di limitare l’accumulo di pressione attraverso gli anni, permettendo che il sito problematico si trasformi ancora una volta nell’equivalente sovradimensionato di una pentola a pressione. Sarebbe tuttavia difficile, nel caso specifico, non alzare lievemente un sopracciglio e pensare: “Sono pazzi, questi turisti!”

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Il prodigio della montagna comparsa in un campo di grano

Vi sono immagini a questo mondo, dal chiaro significato storiografico, capaci di riassumere in un singolo sguardo il senso di un particolare evento e il contesto socio-geologico del suo verificarsi. In Giappone, una di queste potrebbe senz’altro essere il diagramma Mimatsu, figura in bianco e nero tracciata dall’omonimo capo dell’ufficio postale di Sobetsu-cho in un periodo di due anni, prima di essere presentata alla conferenza mondiale dei vulcani di Oslo, nel 1948. L’autore aveva, all’epoca, esattamente 60 anni e nessun studio di settore specifico alle sue spalle. Eppure, in un paese reduce dalla dura sconfitta della seconda guerra mondiale culminante nei tragici bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki, proprio lui era stato l’unico a cui fosse venuto in mente di misurare, annotare e testimoniare uno dei fenomeni più rari ed atipici che gli fosse mai capitato di vedere. Nella sua opera è rappresentato un riquadro rettangolare, all’interno del quale compare il profilo topografico di ciò che potrebbe essere soltanto un rilievo montuoso. Ma disegnato più volte in maniera ricorsiva, quasi come se all’interno ne contenesse un secondo più piccolo, un terzo e così via a seguire. Soltanto a uno sguardo più approfondito, a quel punto, si nota che le cinque linee sovrapposte grossomodo corrispondenti a quelle di un pentagramma, ciascuna riportante l’altitudine a distanza di 100 metri, è stata associata una serie di date. Perché ciò che l’immagine vuole rappresentare, in effetti, è la progressiva crescita del Nuovo Monte Comparso Durante il Regno dell’Imperatore Hiroito, o come preferiscono definirlo da queste parti, l’incredibile Shōwa-shinzan (昭和新山).
Siamo ai piedi del Monte Usu, lo strato-vulcano più imprevedibile e pericoloso dell’intera isola settentrionale di Hokkaido, già responsabile circa 110.000 anni fa della formazione della grande caldera del lago Toya, ulteriormente connotata 60.000 anni dopo dall’isola centrale magmatica di Nakajima. Per poi tacere, attraverso le epoche, fino al relativamente recente 1663, iniziando il significativo risveglio che lo avrebbe portato ad una serie di grandi eruzioni di cui l’ultima nell’anno 2000, ciascuna capace di modificare profondamente il paesaggio circostante. Tale montagna presenta infatti la dote particolare, ma tutt’altro che unica, di proiettare dei flussi magmatici effusivi a base di dacite, un minerale in grado di solidificarsi in maniera piuttosto rapida dando origine a picchi periferici, muraglie naturali e quelli che vengono convenzionalmente chiamati duomi o cupole di lava, delle vere e proprie riproduzioni in miniatura del vulcano stesso. Successe per la prima volta a memoria d’uomo nel periodo a partire dal 1910, con la creazione del Meiji-Shinzan (明治時代 – Nuovo Monte dell’Epoca dell’Imperatore Mutsuhito) l’agglomerato roccioso ai margini del quale sgorgò acqua calda in quantità sufficiente a fondare, verso il termine dello stesso anno, quella che sarebbe presto diventata la città termale di Tōyako. Con una rapidità e imponenza comunque non propriamente paragonabili a quelle dell’episodio successivo, pienamente documentato dalla sapiente opera dell’impiegato municipale Masao Mimatsu nel suo celebre diagramma.
Non è noto se fosse stato lui, in effetti, il primo a notarlo. Tuttavia è certo che dal suo ufficio fosse perfettamente visibile, nell’anno 1943, il più significativo effetto del grande terremoto che colpì la regione il 28 dicembre di quell’anno: un evidente sollevamento della zona coltivata dagli abitanti di Sobetsu-cho, accompagnato dalla formazione di numerosi crateri e la comparsa di grandi pennacchi di fumo tutto attorno alla zona interessata. La situazione continua quindi a degenerare nei mesi successivi, con uno sciame sismico che non accenna a diminuire e colate laviche, molte delle quali assai distruttive. Finché ad esattamente un anno di distanza, quando il fumo inizia a diradarsi, Masao scorge qualcosa d’inaspettato: un massiccio rossastro nel mezzo degli ex-campi di grano; che progressivamente continua a crescere. Sempre di più.

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Le oscure moltitudini del vortice un tempo bagnato dal mare

Mentre le contingenze climatiche di un pianeta in subbuglio s’incontrano, e addizionano il proprio devastante potenziale sugli appesantiti territori della penisola che si estende verso l’oceano Atlantico, l’acqua facente parte dello stesso sistema scorre in un circolo che discende verso le profondità della Terra, seguendo l’andamento di una forza motrice di natura completamene diversa. Al di sotto dell’acqua splendida e trasparente della Silver Glen Spring, sorgente geotermica ai margini della foresta di Ocala, un esercito di creature s’insinua nel buco profondo al di sotto di sguardi indiscreti, cercando rifugio. Sono centinaia, migliaia di persici spigola (Morone saxatilis) sfuggiti a un destino sicuro e verso una vita completamente diversa da quella che la natura aveva concepito per loro, che ruotano lentamente attorno ad un’asse invisibile, circondati dalle alghe fatte muovere dalla corrente. L’occasionale addetto dell’FWRI (Fish and Wildlife Research Institute) s’insinua tra questo piccolo uragano guizzante, facendo il possibile per contare, e in qualche modo spiegare l’insolita situazione. Ma appare ben presto chiaro, ogni volta, che si tratta di un’impresa titanica e tutto quello che ottiene, sono nuove immagini capaci di sovvertire le aspettative, e le cognizioni dell’inconsapevole pubblico dei bagnanti.
La Florida: una terra promessa famosa non soltanto per i suoi furibondi uragani, ma anche il sistema di faglie acquifere che percorre il pietroso sottosuolo, dando l’origine ad oltre 700 fonti ebullienti, dalle rinomate qualità termali, mineralogiche e di supporto a veri e propri ecosistemi totalmente unici al mondo. Luoghi come questo, in cui l’indice internazionale dello IUCN riconosce l’unica popolazione esistente del Procambarus attiguus, un minuscolo gambero delle caverne la cui esistenza è minacciata, ormai da molto tempo, a causa della notevole frequentazione turistica di questi luoghi. Ed ora, da un’altra, ancor più insistente anomalia: la migrazione ittica di questi pesci provenienti dalla vicine distese acquatiche di un ampia riserva d’acqua. Che non viene rappresentata, sia chiaro, dal mare stesso, bensì un lago di nome George; questo perché, molti secoli dopo la separazione continentale dall’epoca Mesozoica, la placca continentale su cui si trova lo stato col minor numero di terremoti si è gradualmente sollevata dal piano abissale, permettendo un avanzamento delle coste di circa 50 Km verso est. Eppure questi i persici, che dovrebbero trascorrere la propria vita adulta nel mare stesso, migrando lungo i fiumi al momento di riprodursi, non hanno mai conosciuto altro che gli allevamenti dell’U.S. Fish and Wildlife Service e la Divisione di Gestione e Sviluppo Ittico degli Stati Uniti. Fino al momento della loro fortunata  o intenzionale fuga al termine della quale, assistiti dalla buona sorte, hanno trovato una nuova casa quaggiù. Gli addetti del parco naturale soprastante, quindi, hanno recintato questa particolare caverna discendente della fonte, con l’intenzione nominale di proteggere la vita naturale da problematiche intromissioni ad opera dei turisti e abitanti del luogo. Ma c’era un secondo fine in questa misura, forse non altrettanto evidente: sottrarre gli uomini e donne di superficie al surreale richiamo di questa scena del profondo, possibile via d’accesso verso una morte certa….

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La leggendaria cascata di sabbia verso gli abissi dell’Oceano Indiano

Come un puntino dai margini frastagliati 550 Km ad est del Madagascar, la terra emersa di Mauritius sembra campeggiare nel mezzo ad un mare senza confini, affiancata dalla sua sorella più giovane, la  Île de la Réunion. Nella sua particolare conformazione paesaggistica, spicca a sud-ovest un massiccio basaltico alto 556 metri, situato in corrispondenza di una stretta penisola che per tanto tempo svolse la funzione di approdo sicuro e lontano dallo sguardo indiscreto delle autorità. Le Morne Brabant, è chiamato questo particolare rilievo, ma per gli abitanti di un tale luogo conserva l’antico nome di Promontorio della Libertà. Qui vissero, in segreto, numerose generazioni di fuorilegge, pirati e soprattutto gli uomini di mare di etnie africane, miracolosamente sfuggiti a una vita di schiavitù presso le colonie del Nuovo Mondo. Secondo una storia nazionale quindi, nel preciso momento in cui il primo febbraio 1835 la polizia dell’isola si recò in questo luogo per annunciare che l’antica legge che permetteva di possedere la vita di una persona era stata tardivamente abolita, una certa percentuale degli abitanti del posto si lanciarono giù dalla loro rupe e da lì, dentro il più profondo baratro che fosse mai stato osservato dall’occhio umano: come una voragine spalancata ad accoglierli, l’abbraccio lungamente desiderato della sempiterna e finalmente inviolabile libertà. Alcuni dicono, che i loro corpi stiano ancora cadendo, quasi due secoli dopo…
Perché in realtà la stessa definizione tanto spesso usata di “deriva dei continenti”, elaborata per la prima volta nel 1912 dal geologo Alfred Wegener, può stimolare l’immaginazione verso una direzione almeno parzialmente errata. Con queste enormi masse di terra e pietra che, spinte a vagabondare come altrettante zattere galleggianti sul magma sotterraneo, si spostano agevolmente sopra e sotto gli oceani, compenetrandosi l’un l’altra attraverso il processo di subduzione. Ma se la storia fosse realmente tutta qui, secondo la corrente interpretativa seguita dal maggior numero di fan, cosa accadrebbe nelle battute successive agli spazi originariamente occupati dai cinque protagonisti di questa danza? (che poi considerazioni politiche a parte, suddividendo le Americhe in Nord e Sud, dovrebbero essere sei) Voragini spalancate verso le viscere fiammeggianti, come spazi d’ingresso verso le regioni degl’Inferi dimenticati! Micro-universi dalla densità paragonabile al nucleo planetario di Giove… Questo sarebbe il tragico destino del fondale marino, se non fosse per il costante fenomeno, raramente discusso, dell’espansione delle dorsali. Ovvero questi materiali incandescenti, espulsi e mescolati ogni giorno per le fluttuazioni geotermiche al centro del nostro mondo, che emergono a pressioni persino superiori a quelle degli oceani. Per poi solidificarsi, spostando di lato il fronte stesso di ciò che viene comunemente chiamata una piattaforma continentale. Ecco perché abbiamo affermato che l’isola di Mauritius “sembra” trovarsi circondata dal nulla. Quando in effetti, il suo ruolo è contrassegnare una criticità d’importanza primaria, ovvero il bordo stesso di uno dei componenti generativi dell’intero sistema sotterraneo globale. O per essere più precisi, quello che un tempo dominava l’intero meridione del mondo, sorgendo sul cosiddetto pianoro delle Mascarene, l’ultimo frammento residuo del super-continente Gondwana, unione delle masse che oggi costituiscono Sud-America, Antartide, Africa, Australia e la penisola indiana.
Abbandonando ogni indugio proviamo, quindi, a gettare lo sguardo oltre il margine estremo delle spiagge che permettono l’approdo verso Le Morne Brabant; coronate dalla superficie del mare più azzurro e trasparente che si riesca ad immaginare, al di sotto del quale è possibile scorgere linee chiaramente definite. Così mentre la mente fatica a comprendere ciò che sta osservando, d’un tratto appare chiara la cognizione di trovarsi correntemente sul bordo di un tavolo enorme. Mentre il fondale stesso, trascinato nel baratro dalla mera forza di gravità, sembra precipitare verso il vuoto teorizzato dagli estimatori del concetto di Terra piatta, oltre l’azzurro nulla ove nessuno, mai, potrebbe sperare di riuscire a spingersi. E ancora una volta, la verità è più complessa e stratificata di così…

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