Esistono ancora luoghi, in questo vasto mondo, in cui la mano dell’uomo non è ancora riuscita ad apportare modifiche profonde all’ambiente ed all’ecosistema? Probabilmente si, ma sono molto pochi. Alcuni dei punti più remoti dell’Antartico; la cima delle montagne più alte dell’Himalaya; le fosse più profonde delle vaste distese oceaniche. Tutte zone situate ai margini del catalogo biologico di questo pianeta, dove la vita animale o vegetale ha dei seri problemi a svilupparsi in quantità superiore alle poche dozzine di esseri viventi. E per quanto riguarda invece i luoghi OSPITALI… Vene subito in mente, esaminando un mappamondo, l’esempio degli atolli corallini dei mari del sud. Piccole terre emerse, sollevate dai sommovimenti tellurici del magma sotterraneo, fino ad un’altezza tale da resistere alla furia degli elementi. Punti d’appoggio per gli uccelli durante le loro migrazioni, così come lo erano stati, in epoca più antica, per le trasferte delle coraggiose canoe dei polinesiani. Abitati da loro in qualità di colonie rigorosamente non indipendenti, di una catena di isole che conduceva, in sequenza ascendente, fino ai centri abitati di veri e propri arcipelaghi le metropoli della loro civilizzazione. Eppure, basta una rapida scorsa al catalogo di tali luoghi, per scoprire il fato a cui sono andati incontro nella maggior parte dei casi. Quello con la base militare, quello usato per i test atomici, quello dalle cui dorate spiagge sorge il ponderoso edificio di un magnifico hotel. Per non parlare dei numerosi esempi dati in concessione, da amministrazioni statali facenti capo a poche dozzine di persone, a qualche miliardario in cerca di un’improbabile casa per le vacanze. Al punto che ad oggi, nell’opinione dei naturalisti, ne restano soltanto due che possano definirsi ragionevolmente integri. Uno è Aldabra, nell’Oceano Indiano, severamente protetto dall’UNESCO e dalla Fondazione delle Isole delle Seychelles. L’altro, invece, è Henderson Island.
Se c’è una fortuna di questo luogo, scoperto per la prima volta dall’occidentale Pedro Fernandes de Queirós nel 1606, e poi di nuovo nel 1819 dal capitano inglese delle Indie Orientali, James Henderson, da cui prende tutt’ora il nome, è la sua sostanziale inutilità. Dotata di un’unica spiaggia vera e propria, mentre il resto della costa è occupata da alte ed inaccessibili scogliere, con una singola fonte d’acqua dolce ed un suolo letteralmente impossibile da coltivare, l’unico sfruttamento sostenuto che essa ha dovuto sostenere è stato quello della più prossima comunità umana sull’isola di Pitcairn situata 193 Km più ad ovest, i cui abitanti si recavano un tempo fin qui per prelevare la legna degli alberi del miro e del tou. E benché si ritenga che un tale luogo, rispetto al suo aspetto preistorico, abbia perso parte della sua biodiversità a seguito dell’introduzione accidentale del ratto polinesiano, la natura relativamente poco aggressiva di tale specie ha qui permesso la sopravvivenza di ben quattro specie endemiche di uccelli e un grande numero di insetti e gastropodi del tutto unici al mondo. Per non parlare delle dieci specie vegetali uniche che si aggiungono alla comune flora del Pacifico del Sud. Sarebbe perciò del tutto evidente, anche ad occhi inesperti, la maniera in cui questo atollo di appena 37 Km quadrati, di forma pressoché triangolare, esista in una sorta di paradiso, in cui nessuna sinergia nociva ha potuto arrecare danni irreparabili di significativa entità. Se non fosse per un piccolo, trascurabile dettaglio: presso l’isola di Henderson, si trova la maggiore concentrazione di spazzatura in plastica di qualsiasi altro ambiente terrestre. In uno studio scientifico dell’Università delle Hawaii, Exceptional and rapid accumulation of anthropogenic debris on one of the world’s most remote and pristine islands di Jennifer L. Lavers e Alexander L. Bond, si parla della scrupolosa analisi condotta lungo l’intera estensione del remoto recesso oceanico, la quale ha condotto a numeri letteralmente da capogiro: 671,6 oggetti in media per metro quadrato, prendendo in considerazione quelli sepolti fino a 10 cm di sedimenti. Con una quantità totale di 37,7 milioni ed un peso complessivo di 17,6 tonnellate, in forza di un accumulo giornaliero di ulteriori 26,8 oggetti. Nella più alta percentuale frammenti non più identificabili, ma anche granuli di resina per uso industriale, corde o fili da pesca, tappi di bottiglia e coperchi, provenienti, nei casi in cui è stato possibile comprenderlo, principalmente da Cina, Giappone e Cile. È quasi come se il pilota di una chiatta estremamente determinato, facendo la spola nei porti dei tre paesi, avesse fatto tutto quanto era in suo potere per sporcare al meglio delle sue possibilità uno degli ultimi santuari naturali di questa Terra. Ed in effetti, da un certo punto di vista, è andata esattamente così. Soltanto, che non si trattava di un traghettatore UMANO…
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L’acutezza di una lama forgiata con la carta stagnola
Quando si osserva uno YouTuber che realizza un video dimostrativo pratico in cucina, generalmente, ci si aspetta che il suddetto materiale si riferisca in qualche maniera alla sfera della gastronomia, o conduca comunque a un qualcosa di commestibile in caso di estrema necessità. E in effetti Kiwami Japan, misterioso autore che probabilmente diffonde il frutto del proprio agire anche sul portale del suo paese Nico Nico Douga, ha in precedenza lavorato con la pasta, la cioccolata nonché il particolare pesce secco noto come “cibo più duro del mondo”, katsuobushi o bonito di tonnetto striato. Contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, tuttavia, piuttosto che puntare a una varietà di ricette, il suo obiettivo è sempre stato il medesimo, ovvero la creazione di un qualcosa di periferico, purché importante ai fini della buona tavola: un coltello di ottima qualità. È del resto particolarmente sentito, nella cultura del Sol Levante, il ruolo preminente riservato al più nobile degli strumenti per preparare il cibo, spesso tramandato di genitore in figlio e così via talmente risulta essere elevata la sua qualità costruttiva, ed eccellente il metallo di cui è stato costruito. Ma le usanze a tavola definiscono le aspettative delle persone. E nella maggior parte d’Asia, di contro non è tipico che a tavola si disponga di null’altro che un paio di bacchette, una ciotola ed al massimo, in determinati casi, un cucchiaio. Ciò determina, in determinati casi, l’esistenza di un problema: che dovrebbe fare la persona per cui, momentaneamente, è impossibile acquistare un coltello presso la bottega del fabbricante della meraviglia in hagane, l’acciaio tradizionale ripiegato su se stesso come la pasta sfoglia dei samurai? Perché in definitiva, tutto quanto può tagliare un pomodoro. Basta volerlo con sufficiente convinzione, disponendo degli strumenti giusti per realizzare l’idea.
Nell’ultimo video dell’eclettico autore, pubblicato giusto ieri, tuttavia, è palese che egli riesca a realizzare il suo obiettivo migliore. Non più perseguire la creazione di un qualcosa di utile le prossime due o tre volte, prima di finirgli nello stomaco tra la diffusa ilarità generale, bensì un effettivo attrezzo che riesce a convincere quanto meno lo sguardo, riuscendo a svolgere adeguatamente lo scopo che lasciava intendere la sua forma. L’idea è del resto semplice, ma geniale, e gli permette di sfruttare una sostanza appartenente alla categoria ideale dei metalli. Quello proveniente, per l’appunto, da un rotolo di carta di alluminio, generalmente usata per conservare il cibo o cuocerlo in maniera più netta ed uniforme. Fin troppo spesso ci dimentichiamo dei complicati processi industriali che si trovano alla base degli oggetti di uso comune, e con esse delle straordinarie doti di un metallo tanto duttile, un tempo straodinariamente difficile da estrarre ed isolare. Finché il chimico francese Henri Étienne Sainte-Claire Deville, inventando la riduzione diretta tramite processo elettrolitico, non lo rese tanto comune da permetterne l’impiego in aeronautica, prodotti di consumo e addirittura, ogni volta se ne percepisca la necessità, applicazioni usa e getta in cucina. Ma forse neppure lui aveva mai pensato che si potesse arrivare a questo… Senza lasciare spazio neanche ad una breve introduzione, il creativo misterioso inizia subito il suo primo tentativo, srotolando il proprio rotolo e provando, se possibile, a plasmarlo inizialmente con le mani. Osservando il risultato non propriamente ideale, ben presto si rende conto che esiste un metodo migliore. Allora prende un secondo rotolo, e con il manico di un martello espelle il tubo di cartone all’interno. Quindi dispone l’oggetto sopra una morsa-incudine, ed inizia ad appiattirlo con una serie di colpi attentamente mirati. A fine di ammorbidire e plasmare al meglio la sua creazione, a metà dell’opera la pone brevemente sui fornelli, facendo affidamento sulla temperatura di fusione piuttosto bassa del materiale in questione, prima di passare finalmente al momento cruciale del taglio della billetta (lingotto da forgia).
Lo strano quartiere in Via dello Stadio da Baseball 1
È una questione piuttosto nota, anche se raramente discussa, quella per cui le città giapponesi, il più delle volte, non seguono l’usanza di dare un nome alle strade. Disponendo, piuttosto, all’ingresso di ciascuna zona, delle mappe simili a quelle del centro commerciale o lo zoo, ciascuna delle quali riporta la disposizione, completa di numero assegnato a ciascun edificio, degli abitanti presso cui sono dirette comunicazioni via posta, pacchi o visitatori dell’ultima ora. Va da se che si tratti, ad ogni modo, di un sistema che si affida in modo considerevole alla disponibilità delle persone, nonché dell’essenziale poliziotto di quartiere, che dalla sua caratteristica micro-stazione (la “kōban”) può fornire indicazioni a chiunque si senta momentaneamente, o irrimediabilmente smarrito. L’eccezione che conferma la regola? A giudicare da una foto particolarmente famosa su Internet da un periodo di almeno 10 anni, c’è stata un’epoca lunga 10 anni in cui un’intero vicinato della vasta metropoli di Osaka avrebbe potuto beneficiare di un agevole punto di riferimento: il principale, e più amato, tra tutti gli stadi urbani, trasformato per ragioni misteriose in ben più di un semplice arredo urbano, bensì lo stesso muro di contenimento, ovvero l’anfiteatro, in cui edificare una tripla fila di graziose villette a schiera, con tanto di vasto parcheggio per gli abitanti e qualche albero decorativo, trasferito per l’occasione continuativa sull’ex terreno di gioco. L’illusione, per chi avesse osservato la scena dall’alto (i droni ad uso privato, all’epoca, erano per lo più una creazione immaginifica degli autori di fantascienza) sarebbe stata perfetta sotto ogni punto di vista, con tanto di lampioni accesi e luci sfavillanti dall’interno delle finestre posizionate in parallelo. Gli spalti, pronti a riempirsi di nuovo in qualsiasi momento, avrebbero fatto pensare all’inquietante vicenda cinematografica del Truman Show.
C’è un’intrigante storia, dietro a tutto questo o per meglio dire, ce ne sono diverse. Come facilmente desumibile dall’inserimento della curiosa testimonianza sul venerando portale Snopes, l’antesignano di qualsivoglia analisi digitale memetica, che amava presentarsi come “un catalogo di leggende metropolitane” il quale riporta, in apertura, l’interpretazione più famosa: il 17 gennaio del 1995, nell’area costiera di Kobe che dista soli 35 minuti dal centro di Osaka, si era verificato l’Hanshin Awaji daishinsai (grande terremoto di Hashin Awaji) un tremore di 6,9 della scala MMS, che causò danni devastanti e la perdita di 6.434 vite umane. Non appare del tutto inimmaginabile, né degno di biasimo, che un’amministrazione cittadina in cerca di un luogo per ospitare i numerosi profughi, avesse pensato di costruire un nuovo quartiere all’interno del proprio stadio, senza investire i fondi extra necessari per demolirlo. Senza considerare come esista, nel mondo antico occidentale, almeno un importante precedente: quello della città francese di Arles, che dopo la caduta dell’Impero Romano, si ritirò all’interno di una fortezza ricavata dallo stadio costruito sul modello del Colosseo. Niente di meglio per difendersi dagli zomb… Pardon, i barbari! Ad un’analisi più approfondita, tuttavia, questa interpretazione di seconda mano rivela subito i propri punti deboli: in primo luogo, perché mai una simile iniziativa avrebbe dovuto condurre a graziose villette a schiera, piuttosto che un più spazioso ed utile condominio? C’è poi la questione della stessa mentalità giapponese. Che nel momento in gli individui vengono colpiti dal verificarsi di un disastro inaspettato, raramente consente loro di affidarsi alle concessioni di terzi, affidandosi ai servizi offerti dalla società. Ma induce piuttosto in loro l’iniziativa immediata di porre rimedio e ricostruire, lavorando alacremente per edificare il nuovo mondo sulle macerie di quello vecchio.
Ma il vero colpo di grazia a una simile teoria viene da un’altra foto stavolta in bianco e nero, rappresentante la stessa scena, datata 1991: ben quattro anni prima della catastrofe geologica. Nessuna iniziativa d’emergenza, dunque, e nessun bislacco approccio alla soluzione abitativa prelevato direttamente da un disaster movie anni ’90 (per non parlare del recente videogame post-apocalittico Fallout 3) in cui lo stadio diventava un quartiere cittadino. Bensì una spiegazione che appare, per certi versi, ancor più improbabile e sorprendente…
L’espressione colpevole del raro elefante fumatore
Tra le notizie scientifiche del mese, questa non può certamente sfuggire a chiunque nutra una curiosità, sia pur vaga, nei confronti dei pachidermi terrestri, il tabagismo o gli oscuri misteri delle foreste indiane. L’autore, Varun Goswami, è uno scienziato della Wildlife Conservation Society che si trovava casualmente nel parco naturale di Nagarhole, nel distretto di Mysore in Karnataka. E con “casualmente” intendo che stava disponendo le fototrappole per ottenere alcuni ottimi scatti della minacciata popolazione di tigri locali. Quando ad un tratto, dinnanzi ai suoi rari occhi senza alcun tipo d’interfaccia digitale, non si è palesato quello che in molti avrebbero potuto ritenere un effetto speciale. Il pachiderma grigio femmina, Elephas maximus Linnaeus, mostrava il suo profilo dietro un tronco albero, quasi stesse tentando di nascondersi dagli eventuali coabitanti. Gli elefanti, si sa, hanno un’intelligenza sviluppata, ottima memoria e una struttura sociale complessa. Elementi per via dei quali, forse, la protagonista dell’insolita scena aveva percepito di stare facendo qualcosa di strano, potenzialmente nocivo per il suo prossimo nonché fastidioso. I segni, dopo tutto, chiarivano la situazione. Benché non vi fosse alcuna sigaretta o pipa visibile, dalla bocca dell’animale fuoriuscivano animati pennacchi di fumo. Già il tipico fascino di colui o colei che trascura la salute, a vantaggio del piacere rilassante di un piccolo fuoco che irrora i polmoni, pareva trasparire dalla sua proboscide rovesciata, gli occhi socchiusi, la coda dondolante come un simbolo di distrazione.
Che cosa stava facendo, dunque, il grosso mammifero solitario? I più dotati di spirito d’osservazione, tra cui annoverare indubbiamente lo stesso Goswami, non hanno tardato a notare come ad ogni singolo sbuffo, l’animale tornasse a pescare da terra un materiale nerastro, chiarendo un fatto di primaria importanza: qualunque fosse la fonte della sua evidente soddisfazione, era un qualcosa di soggetto al processo di fagocitazione. Non una pagliuzza, insomma, una cicca o una ciospa di qualsivoglia natura. Bensì, diciamolo pure… Legno, bruciato, durante l’insorgere dell’ultimo incendio boschivo (non tanto recente, possiamo desumere dal contesto) in condizioni sufficientemente anaerobiche, ovvero nella fase finale del disastro, quando l’unico modo di ardere è farlo in maniera estremamente rallentata, andando incontro a un processo di pirolisi e mineralizzazione. In altri termini, ecco a voi, signori e signore, un elefante che mangia carbone. Davvero un segno dei tempi in cui viviamo, nei quali tutto può Fare Bene, se si tratta di una moda prodotta dalla ricerca imprescindibile della salute, magari condita dal giusto pizzico di New Age. Bé, più o meno. Poiché ciò che l’imponente creatura sta facendo, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, vanta in realtà attestazioni innumerevoli attraverso l’intera storia della natura e si, anche quella della civilizzazione umana. La ragione di questo è la supposta, ed anche dimostrata in determinate circostanze, capacità di questo materiale nel campo dell’assorbimento delle tossine, che l’ha fatta trasformare attraverso i secoli nel rimedio preferito da chi avesse subito avvelenamenti più o meno volontari. Come l’elefante in questione avesse acquisito una simile nozione, o che tipo d’istinto potesse averlo condotto all’identica conclusione, non è stato ancora determinato. Tutto quello che ci resta è l’immagine, alquanto surreale, della maniera in cui le sue potenti mascelle stringono il pezzetto di legno carbonizzato scelto di volta in volta, polverizzandolo letteralmente e producendo la nuvoletta di cenere che così tanto ha affascinato il naturalista indiano, i suoi colleghi ed in tempi più recenti, l’intero popolo variegato del web. Come spesso capita in simili situazioni, tuttavia, esistono precedenti ed almeno un possibile spunto d’analisi più approfondita…