Occorre uno sguardo attento e dedizione per un tempo sufficientemente lungo, al fine di riuscire ad avvistare la presenza sopra un muro dell’uccello passeriforme scientificamente noto come Tichodroma muraria. Non più lungo di 17 centimetri, monotipico nel genere e nella famiglia, caratterizzato da un piumaggio valido a mimetizzarsi contro i materiali che costituiscono il suo ambiente di foraggiamento elettivo: muraglie di pietra calcarea, gneiss, l’ardesia cristallina. Ma anche, soprattutto in estate e nelle regioni dal clima meno rigido, strutture create dall’uomo al di sotto dei 3.500-5.000 metri dov’erano soliti nidificare, individuando nelle superfici di mattoni o cemento un solido sentiero per la sussistente verticale deambulazione. Già perché a seguirne i movimenti, il più comunemente detto wallcreeper o picchio muraiolo, tutto tende a richiamare tranne la comune traiettoria di un pennuto, mentre sobbalzando sembra camminare come fosse un geco, aggirandosi velocemente dove appigli non parrebbero effettivamente esistere, le corte zampe ed i piedi dai lunghi artigli prensili impiegati per individuare il benché minimo appoggio a disposizione. Inclusi quelli offerti da palazzi, castelli, chiese o vecchi ponti di pietra. E le ali semi-aperte, qualche volta più, altre meno, per mostrare l’unico perfetto emblema utile ad esprimere la propria vera identità: le piume remiganti delle ali di colore nero e un rosso intenso, vagamente riconducibile a quello di svariati lepidotteri o la mosca lanterna puntinata (L. delicatula) il temuto insetto invasivo delle colture ed alberi statunitensi. Mentre se soltanto un simile efficiente predatore condividesse almeno in parte il proprio areale col suddetto rincote succhiatore, difficilmente la sua odiata stirpe riuscirebbe a sfuggire alla presa di quel becco appuntito e lievemente ricurvo. Rapidamente utilizzato, mentre l’uccello cerca e anticipa le posizioni più probabili delle sue prede artropodi, per infilzarle e schiacciarle, sollevarle, trangugiarle in un sol boccone. Preferendo a tal fine ragni, opilionidi e l’occasionale formica, benché non disdegni in alcun caso gli insetti volanti, colpiti in genere con un fulmineo agguato subito seguìto, quando necessario, da una rapida picchiata per catturarli a mezz’aria. Tutte scene avidamente ricercate da qualsiasi osservatore ornitologico che si rispetti, proprio per la difficoltà di catturare su pellicola questa operosa e sobbalzante creatura. Il che sembrerebbe aver motivato, se non altro, il caricamento di una grande quantità di video su YouTube e le altre sedi documentaristiche online…
comportamento
L’insolita saggezza suina e la capigliatura di un cinghiale steampunk
Chi non ha mai ponderato, nei trascorsi delle proprie scampagnate crepuscolari, l’assoluta utilità ecologica dei suini? Gremite famigliole irsute, grufolanti nella propria intima soddisfazione, che mangiando i frutti della terra propagano la diffusione dei preziosi semi contenuti all’interno. Che grufolando tra gli strati del suolo compatto, permettono all’ossigeno di penetrare le dimore dei lombrichi. E scavando tane per i propri piccoli, ne avallano l’impiego successivo ad opera di numerosi altri abitanti della foresta. Già, i cinghiali: occupanti di uno spazio ecologico precisamente definito, in grado di rispondere a esigenze di notevole respiro. È soltanto a causa di specifici fattori esterni, che la loro presenza tende a diventare problematica. Sto parlando, molto chiaramente, della convivenza a stretto contatto con l’uomo. Il che diventa problematico, per molteplici e condivisibili ragioni, nel momento stesso in cui l’intera popolazione di una specie a rischio presenti il proprio territorio endemico entro lo spazio relativamente ristretto di un arcipelago densamente popolato. Ed occupato da strutture agricole ed urbane di diversa in una percentuale preponderante del suo totale. Peccato proprio ciò sia il caso, per l’appunto, del Sus cebifrons o cinghiale dalle verruche delle Visaya (Cebu, Negros, Panay, Masbate, Guimaras e Siquijor) un gruppo di terre emerse situate nella parte mediana delle Filippine, dove il ruolo e l’aspetto dei maiali selvatici, chiamati localmente biggal, si è da sempre dimostrato particolarmente interessante; con la loro corporatura massiccia, la maschera bianca sul muso ricoperto da preminenze carnose protettive e il ciuffo preminente sopra il capo, in tutto e per tutto simile a un faux mohawk. Quando non ricade con palese senso dello stile da una parte della testa, ricordando un cantante britannico degli albori del genere Pop. Uno che sia stato trasportato, d’altra parte, nel contesto totalmente nuovo di un ambiente dove la musica è secondaria. Mentre conta, più di qualsiasi altra cosa, la capacità di aggregazione e soluzione di problemi quotidiani dal variabile livello di complessità.
Costituendo dunque una delle poche specie di suini caratterizzati da uno stato critico di conservazione, questo essere dall’aspetto affascinante è giunto a costituire oggi un raro pretesto utile ad approfondire il comportamento e l’organizzazione sociale di una simile categoria di creature, al tempo stesso possibili prede e dominatori strategici del proprio frondoso ambiente. Permettendo di acquisire cognizioni in merito alla loro intelligenza che sarebbero risultate, fino a poco tempo fa, impossibili da immaginare…
L’inveterata ostilità cromatica dei parrocchetti gialli nei confronti dei loro cugini
Nella narrativa coltivata dai principali bipedi terrestri del pianeta, il dinosauro è una creatura appartenente alla Preistoria che ha visto naufragare la propria discendenza in occasione di un evento catastrofico di molto antecedente alla sua venuta. Dal punto di vista di coloro che li studiano, d’altronde, i pennuti volatori sono triceratopi, diplodochi e tirannosauri dei nostri giorni. Questione facilmente accantonata, questa, quando ci si relaziona con il caro canarino o l’amichevole cocorita, occupanti delle gabbie che adornano le sale da pranzo. E non solo. Eppure a differenza del cane, gatto e addirittura pesce rosso, sono proprio quei pennuti ricordarci, qualche volta, le precise regole tenute vive nella loro mente, più complessa e articolata della media di molte altre creature. Quando combattono per il predominio territoriale, gli spazi, il cibo, l’attenzione. Certe volte, addirittura l’odio immotivato e privo di contesto nei confronti di un diverso… Colore.
Il caso analizzato, nella qui presente trattazione, è quello di un famoso video risalente a circa mezza decade fa, più volte fatto circolare presso i social media e le altre piattaforme digitalizzate della comunicazione d’intrattenimento contemporanea. Con due gruppi contrapposti di pappagallini, molto simili fatta eccezione per la livrea gialla e verde in un caso; gialla, verde ed arancione nell’altro; ai due lati di una soglia e chiaramente intenti a far valere per quanto possibile i rispettivi punti di vista. Producendo urla penetranti, stringendosi coi propri compagni d’arme e proiettandosi in avanti in una serie di accennati “assalti” la cui mimica ricorda quella di una guerra tra le stereotipiche gangs di New York. Tralasciando adesso lo specifico contesto di provenienza, probabilmente andato perso ormai da tempo nei meandri del grande fiume delle informazioni, può diventare chiara la conferma offerta nel presente caso di una percezione ragionevolmente chiara per ha mai tenuto nella propria abitazione simili compagni saltellanti: mai mischiare tra di loro i pappagallini. Per più di una singola, valida ragione. Creature più in dettaglio appartenenti alla macro-categoria definita in lingua inglese o francese come dei conure, categoria informale creata a partire dalla famiglia deprecata dei Conurus, contenente una vasta selezione di specie aviarie di dimensioni medio-piccole dai colori brillanti e le lunghe code, tutte provenienti dalla regione geografica del Nuovo Mondo. Ma NON, questione sempre degna d’essere portata innanzi, la stessa esatta ed identificabile discendenza esattamente come avviene per il termine parzialmente sovrapposto di parrocchetti. Il che potrebbe anche costituire, a conti fatti, la precisa origine del problema…
L’avvoltoio che disdegna la carcassa per ingoiare le ossa contenute all’interno
Trattandosi in entrambi i casi di rapaci facenti parte dello stesso ordine e famiglia, quella degli accipitridi, la fondamentale distinzione tra avvoltoio ed aquila non fu sempre una questione da dare per scontata. Esempio fondamentale del fraintendimento, la denominazione scientifica risalente al 1758 dell’ossifrage o Gypaetus barbatus, dall’unione letterale delle due parole in lingua greca gups (“avvoltoio”) ed aetos (“aquila”). Un fondamentale fraintendimento derivante dal possesso da parte di questa creatura di un ricco piumaggio sulla testa ed il collo, letteralmente all’opposto dello stereotipico mangiatore di carogne alato. Se è vero d’altra parte come il tratto caratterizzante maggiormente citato per ciascun insieme di creature, che vede gli avvoltoi nutrirsi di creature già passate a un’esistenza ulteriore, mentre le loro controparti beneamate dall’araldica del Medioevo sono cacciatrici di esseri viventi inclini a mantenersi tali, non dovrebbero sussistere dubbi particolari sulla classificazione di questo dinosauro di fino a 125 cm di lunghezza, 2,83 metri di apertura alare. Le cui abitudini gastronomiche, ancor più rispetto a quelle di altri carnivori obbligati della sua categoria, lo portano ad avvicinarsi all’ora di pranzo con un certo, specializzato languorino. Come altrettanto desumibile dalla reputazione di questo abitante di un areale che si estende dalle montagne dell’Europa Occidentale fino a quelle dell’Africa Meridionale e parte dell’Asia, famoso per il suo stile gastronomico insolito e sottilmente inquietante. Che lo vede trarre il proprio nutrimento, in una percentuale variabile tra il 70 ed il 90%, interamente dalle ossa che fagocita con voracità impressionante. Tutte intere o provvedendo prima a farle a pezzi, sbattendole o gettandole da grandi altezze, una tecnica impiegata anche per l’uccisione delle malcapitate ed occasionali prede viventi. Questione nota da un tempo così lungo che già nel quinto secolo a.C. girava voce che il drammaturgo Eschilo fosse morto accidentalmente, per essere stato colpito in testa da una tartaruga lasciata cadere proprio da un gipeto che cacciava negli immediati dintorni. Un’eventualità… Improbabile, ma non del tutto impossibile, quando si considera la forza notevole ed il modo in cui questi opportunisti della caccia non sembrino spaventarsi di fronte a nulla, attaccando anche capre, pecore o vitelli, nel tentativo non senza speranza di riuscire a farli cadere da una rupe riuscendo a trasformarli nella propria fonte di cibo preferita. Un’attività, quest’ultima, che benché rara ne avrebbe segnato un fato poco vantaggioso, vista l’idea non del tutto priva di fondamento che potessero arrivare un giorno a provarci anche con gli umani, particolarmente quelli vulnerabili a causa della giovane o tarda età. Un senso di macabra reverenza che non avrebbe impedito al magnifico predatore, essenzialmente inconfondibile con qualsivoglia altro pennuto, di assumere il ruolo in tutto il Medio Oriente di simbolo della regalità e la buona sorte, in una sorta d’idiosincrasia o fraintendimento dei preconcetti ricevuti in eredità…



