Come polli che chiocciano la loro triste condizione, posti dentro gabbie appena sufficienti a sopravvivere facendo uova, per il massimo vantaggio dell’industria e del commercio. Finché l’ascia non discenda sopra il loro collo, affinché un miglior profitto possa provenire dalla carne bianca ormai privata delle piume. Un destino certamente pari a quello dei bovini e dei suini, parte di una macchina stratificata, in cui ogni nascita, ciascun allattamento, siano veicolati all’efficienza di una produzione sempiterna, di carne e costolette e di bistecche e d’insaccati d’ogni tipo…E noi che faticosamente, ci sforziamo di dimenticare. Lo sguardo vacuo delle bestie, la loro presunta incapacità di comprendere la sofferenza, sia presente che futura. Mentre ancora girano le ruote e gli ingranaggi, verso una proficua quanto utile dannazione. Eppure persino una simile freddezza, giustamente assurta al centro di disquisizioni senza fine, non è praticamente nulla al confronto di quello che succede all’altro regno di esseri viventi, di ciò che vegeta la propria vita, nutrendosi di acqua ed aria e luce, null’altro che l’ambiente in quanto tale. Le piante, che pur avendo come tutto e tutti, una nascita e una fine, a differenza dei loro cugini non producono un latente senso d’empatia. Il che ci porta a strane giustapposizioni.
Ogni anno, verso la fine dell’estate, l’Olanda si colora di una veste variopinta. Miliardi di piantine, come i pixel o i punti di un ricamo, spuntano all’improvviso dalla terra di ogni campo e zona designati, nel vasto territorio noto come “Dune e bulbi” (Duin- en Bollenstreek) che si estende dalle propaggini meridionali del fiume Oude Rijn, fino alla regione di Haarlem, circa 20 Km ad ovest di Amsterdam. Così nei campi e nelle serre, senza mai saltare un anno, si perpetua la presentazione al mondo del meraviglioso tulipano. Un fiore particolarmente amato e di cui si fa un ampio commercio e ibridazione, con sua grande fortuna (collettiva) e un dannazione (per quanto concerne i singoli esemplari). Questo è basilare nella condizione di qualunque forma di vita che si trovi nella logica di fondo dell’industria: avere l’opportunità di crescere e riprodursi, in condizioni largamente migliori di quelle che s’incontrerebbero in natura, ma ad un costo esistenziale estremamente significativo. Di veder la propria vita interrotta anticipatamente, affinché l’umanità possa trovare la fondamentale ricompensa. Ma forse in nessun ambito, sia animale che vegetale, tale prassi prende una via operativa cruda ed efficace quanto quella usata qui nei Paesi Bassi, al termine della stagione di fioritura, nel sistematico annientamento di quanto è stato dolorosamente prodotto dalla Terra, nell’ecatombe contestuale di miliardi di esseri del tutto inermi, morte e distruzione, un assoluto cataclisma cui farà seguito, si, la rinascita. Ma solamente un anno dopo.
Guardate il video, apprezzatene le implicazioni. Due potenti trattori New Holland T6.160 Blue Power, ripresi in modo come sempre ineccepibile dai titolari del canale TractorSpotter, si apprestano a compiere la propria dolorosa marcia, proprio nel bel mezzo dei campi fioriti dell’azienda di Maliepaard Bloembollen, qualche chilometro a sud di Rotterdam. E se farete l’implicita domanda a uno di questi agricoltori, o chiunque abbia vissuto qui da un tempo medio, del perché sia necessario fare tutto questo, lui vi risponderà: “Che c’è di strano?!” Sulla parte frontale di ciascun veicolo, vorticanti come pale di mulino, trovano posto altrettanti assemblaggi di lame tubolari, che sistematicamente rimuovono la cima di ogni singolo fiore, lasciando solamente il suolo dietro a loro, totalmente scevro di colore tranne che per qualche pianta tanto piccola da essergli sfuggita. Poco male: il contadino passerà dopo, estirpandole con le proprie stesse callose mani. E a chiunque potesse pensare, magari, che i preziosi tulipani siano in qualche modo preservati, posti all’interno di un serbatoio nascosto all’interno del sofisticato macchinario quindi trasportati fino alle città, consiglio d’ossevare ancora meglio. Perché in effetti, si nota bene in certe inquadrature, i fiori non soltanto cadono semplicemente a terra, ma finiscono spesso sotto gli pneumatici dei due trattori, venendo sminuzzati. Lo spietato compito di pilotare i mezzi dunque ci appare, in buona sostanza, l’occupazione ideale per chi provi un’odio ingiustificato per le piante, o abbia la necessità di sfogarsi distruggendo la bellezza innata delle cose… Ma la verità è PROFONDAMENTE diversa.
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Come finirebbe Disneyland in 10 anni di abbandono
Le crepe nell’asfalto, gli alberi che mandano le loro fronde tra le curve sopraelevate di un trenino ormai dismesso. Polvere, ruggine e guano, serrature scardinate, lampioni abbattuti. Pannelli di controllo rotti a colpi di estintore. Sito nella parte settentrionale dell’antica città di Nara, tra l’università locale e il tragitto della Ferrovia Principale del Kansai, il parco di Dreamland potrebbe creare uno stridente contrasto con gli antichi templi e santuari per cui resta famoso un tale centro abitato, che fu capitale del Giappone dal 710 al 794, dando addirittura il nome ad un’intera epoca storica di quel paese. Non che il rudere sia posto all’ombra del Grande Buddha del Tōdai-ji, intendiamoci, né tanto meno presso la parziale ricostruzione moderna del palazzo imperiale di Heijō, che era stato abbandonato all’epoca, quando la corte si spostò a Kyoto. Eppure, la vicinanza geografica è straniante. Ancora di più a partire dal 2006, quando questo luogo dei divertimenti moderni, con montagne russe, case dell’orrore, zucchero filato e negozi di souvenir, è stato infine chiuso, per mancanza di interesse da parte del pubblico pagante. Ora, tra le facciate variopinte degli edifici e le vecchie giostre ormai dismesse, nulla rimane dell’antica gioia, tranne un guscio vuoto. E strane dicerie. Secondo una leggenda metropolitana locale, ripetuta presso diversi portali in lingua inglese, questo parco risalente al 1961 sarebbe stato originariamente costruito dalla Disney stessa, sotto falso nome e in assenza dei suoi personaggi più famosi, con la finalità di mettere alla prova la fattibilità economica di un suo Luna Park ufficiale in Giappone. Ma soprattutto, testare l’efficacia un particolare modo per ridurre i costi: l’impiego come figuranti, al posto del classico personale in costume da Pippo, Paperino & Co, di futuristici robot animatronici, tanto avanzati da poter operare in condizioni di assoluta autonomia. Questi pupazzi costruiti con l’aspetto della mascotte ufficiale del parco, la versione caricaturale di un soldato inglese della Regina dotato di colbacco d’ordinanza, avrebbero quindi svolto il proprio compito d’instancabili intrattenitori con straordinaria efficienza, fino a un pericoloso evolversi della loro programmazione. Finché un giorno, così dice la leggenda, uno di loro si sarebbe ribellato, apportando delle modifiche al suo braccio per poter dare una forte scossa a chiunque avesse tentato di raggiungere il suo interruttore. Ancora acceso e funzionante, quindi, detto androide vagherebbe ancora per il parco, difendendo gelosamente l’ultima stazione di ricarica a energia solare ancora funzionante. Il ristretto club di persone che ancora visitano questo luogo, gli esploratori urbani, i trasgressori, gli aspiranti vandali di malaffare, chiamano questa creatura Killer Mascot 6-22. La cui improbabile vicenda, citata tra gli altri dall’esploratore urbano Florian di Abandoned Kansai (con comprensibile scetticismo d’accompagnamento) sarebbe quindi alla base della chiusura del parco, che temeva future ripercussioni nel caso in cui l’opinione pubblica ne fosse giunta a conoscenza.
Naturalmente, la realtà storica è diversa. Sappiamo per certo, ad esempio, che il parco non fu costruito affatto dalla Disney stessa, bensì dall’imprenditore locale Matsuo Kunizo, che a seguito del 1955 aveva avuto l’occasione di visitare la neonata Disneyland americana di Anaheim, presso la periferia di Los Angeles. Rimanendo così colpito dalle sue molteplici attrazioni, da decidere immediatamente che avrebbe trasferito il luogo dei sogni presso il suo paese natìo, attraverso la costituzione di una società denominata JDSC – Japanese Dream Sightseeing Company. Iniziò dunque una lunga serie di trattative con gli Stati Uniti, nel corso delle quali l’uomo dialogò con lo stesso Walt Disney, per l’ottenimento delle licenze di utilizzo dei maggiori personaggi di proprietà del colosso con le orecchie nere. Tuttavia, alla fine, le cifre richieste furono talmente elevate, che dal Giappone si decise di procedere impiegando la figura inedita del soldatino inglese, accompagnato da una sua graziosa versione femminile, bionda e anch’essa fornita dell’irrinunciabile cappello in pelo d’orso canadese. E i due pupazzi, ancora adesso, sono ancora lì, nello spirito se non nel minaccioso corpo imbullonato, disegnati sul terreno presso il portale d’ingresso del parco. Di certo, il rosso vivo della loro uniforme appare un po’ sbiadito, come del resto tutto quello che circonda l’emblema. Ma il fascino di queste giostre, mutando nell’ultima decade di solitudine, è tutt’altro che diminuito. Anzi!
Quando Kyoto brucia tra la gioia della gente
Di ritorno dalla grande caccia, il sommo Izanagi fuoriuscì dagli alberi della foresta del Cielo, in sella al sacro cavallo, con l’arco divino stretto in una mano e l’altra a farsi scudo dalla luce dall’astro nascente dell’unica ed infinita alba, in questo mondo ancora privo di una dea del Sole. Dinnanzi a lui, nel mezzo della valle ricoperta dai fiori d’ibisco, sorgeva il magnifico palazzo Yahiro-dono, dai tetti aguzzi ricoperti da maestose tegole, con figure di draghi, fenici e nuvole di terracotta. Egli si voltò brevemente, per osservare il suo ristretto gruppo di servitori, quattro spadaccini ed un lanciere, che s’industriavano nel trasportare la grande carcassa del Qilin, la belva chimerica con corpo scaglioso, testa di drago e zoccoli da cervo, le sue corna ramificate anch’esse simili a quelle di una tale bestia del reame sottostante. Con gesto imperioso, il dio fece cenno agli uomini di proseguire verso la dispensa ultraterrena. Poiché egli, d’improvviso, aveva percepito un grido trasportato dall’aria, come di una donna che gridava la sua rabbia ed impotenza. Assicurato l’arco alla sua sella, galoppò veloce lungo le pendici, verso la grande veranda della sua dimora, da cui tante volte aveva osservato la Luna assieme alla sua consorte, la splendida Izanami-no-Mikoto, Colei che Riceve. Giunto a pochi metri dal tatami rialzato sopra il suolo del giardino, il Dio balzò giù dalla cavalcatura, e in un solo fluido movimento sembrò disgregarsi, per riapparire con incedere maestoso, la veste agitata dal vento, il volto severo e determinato. Sull’apertura che conduceva alla sala centrale del palazzo, tuttavia, dovette fermarsi poiché lì, con immediato senso d’angoscia, notò la presenza della somma levatrice inginocchiata, con la fronte che toccava terra e le braccia divaricate, poste a sostenere il peso della sua vergogna senza fine. Con la voce stravolta dai singulti, la vecchia faticosamente parlò: “Mio Signore! Come avevate previsto nella Vostra infinita saggezza, la Signora ha dato i natali a un altro essere sovrano… Kagutsuchi, il dio del Fuoco. Tuttavia, si è verificata una terribile tragedia! Adesso lei è, è…” Izanagi resto immobile per tre, quattro secondi. Quindi con un semplice gesto imperioso, chiamò il vento che scaraventò la levatrice in fondo al corridoio, sfoderando la sua luminosa spada in ferro meteoritico, mentre l’infelice servitrice, manifestazione del suo stesso desiderio di creare la vita, già accettava il suo destino. Ma con somma sorpresa di quest’ultima, il dio voltò di lato, per dirigersi verso gli appartamenti di Izanami, dove la disgrazia si era compiuta. Il sollievo lasciò allora il posto allo sgomento, quando apparve chiaro ciò che stava per succedere. La levatrice, i capelli bianchi sciolti dall’impatto subìto, si affacciò zoppicando sulla sala antistante, appena in tempo per assistere alla scena: il sommo dio era di schiena, intento ad osservare questo suo ultimo indesiderato figlio. Kagutsuchi era fuoco puro, la capigliatura di scintille, gli occhi simili a dei pozzi incandescenti. La piccole manine artigliate, simili a quelle di un tanuki mutaforma, protese verso il dio paterno con la ferrea spada in pugno. Il corpo della partoriente Izanami, gravemente ustionata, giaceva in un angolo, momentaneamente dimenticato. D’un tratto, si udì risuonare una singola parola: “No.” Allora Izanagi, colpì. In un solo fluido movimento, fece il neonato in due volte quattro pezzi, che con suono roboante parvero ingrandirsi a dismisura, poi scomparvero precipitando attraverso il pavimento. Ciò perché l’uccisione di un sommo essere, naturalmente, risultava del tutto impossibile. Questo, la levatrice lo sapeva molto bene. Quando il suo signore finalmente si voltò a guardarla, lei comprese ciò che era appena successo: il dio del fuoco era stato suddiviso in otto vulcani, che da quel giorno sarebbero sorti nei territori sottostanti, lungo l’arcipelago che aveva il nome di Giappone. Tale si era dimostrata la sovrana Volontà.
Non c’è davvero da sorprendersi, a ben pensarci, se nella maggior parte delle mitologie l’origine del fuoco ha sempre una storia drammatica e terrificante, tale da condurre a un senso d’angustia i bimbi prima dell’ora di andare a dormire. Tra tutti gli elementi, questo è infatti il più potente, ed al tempo stesso terribile, ustionante, belluino, che tuttavia conduce l’uomo a ciò che egli fondamentalmente, è. Così fu deciso ce le genti di Yamato non avrebbero mai conosciuto la sua somma personificazione, poiché bastavano le sue manifestazioni terrigene, per fare danni senza fine. Ciò perché smembrando Kagutsuchi, il padre aveva in realtà ottenuto l’effetto contrario all’esorcismo desiderato, assicurandosi in realtà che un tale essere si diffondesse fecondo per le quattro direzioni cardinali, dando l’origine remota ad infiniti e orribili disastri. Con il passare delle generazioni, finì l’era degli dei e iniziò quella degli uomini. Attraverso innumerevoli tribolazioni, la gente di Yamato crebbe in saggezza e raffinatezza, fino a stabilire i crismi di quell’epoca che ha il nome di Heian, in cui poetesse nazionali raccontavano le storie di un amore senza tempo, tra gli edifici di una capitale quale il mondo non aveva mai veduto prima. Finché nel 940, le porte di Kyoto non si spalancarono di scatto. Il dio del fuoco era tornato, per esigere vendetta.
Dove vanno a finire le biciclette d’Olanda
Nel frattempo ad Amsterdam… Stof tot stof: polvere alla polvere. As tot as: cenere alla cenere. Pneumatico alla gomma vulcanizzata. Telaio al blocco d’alluminio. Da ferro speso, ormai coperto dalla rugine del tempo, a materiale pronto da forgiare per nuove creazioni, ritornate finalmente utili alla scopo. Ciò che eri, tornerai di nuovo, morbido sellino. E così tuo fratello, il rigido manubrio. Però consideriamo, prima, le ragioni di contesto. Chiunque abbia mai tenuto il passo di un timone, navigando tra le onde degli oceani senza vie ciclabili, avrà percepito il segno e il peso dell’antichità: sulla sabbia e tra gli scogli, centinaia, migliaia di decine di imponenti imbarcazioni, un tempo la ragione dell’orgoglio di marine di ogni nazionalità, ormai ridotte a luridi rottami, sprofondati per le cause sfortunate di tempeste, manovre improvvise, la semplice usura che deriva dall’aver dimenticato il punto dell’approdo, a seguito di un cambio della dinastia. Eppure mai nessuno le avrebbe volutamente abbandonate, simili miniere d’oro pronte a quel riciclo, cui alludevo poco sopra, che può dare la ragione d’esistenza all’ennesima generazione dei natanti, nuovamente pronta a visitare coste dei paesi più remoti. Con l’occhio del più vero cercatore di tesori, soprattutto ciò che è spento e rovinato, scrostato e al tempo stesso ricoperto di telline, può meritare di essere salvato, per tornare nuovamente dentro al ciclo di utilizzo degli umani. E… Una bicicletta. Cos’è il tipico veicolo che impiega la potenza muscolare, se non l’imbarcazione di chi naviga nel quotidiano, rifiutando orpelli motoristici e costosi! Splendido, fiammante ammasso di risorse e funzionalità, nel giorno dell’acquisto ormai remoto, progressivamente destinato a sprofondare, come tutto, verso gli abissi impercettibili dell’entropia. Ovvero la discarica, nella MAGGIOR parte dei casi. Esatto, un destino ben più banale di questa metafora marittima della domenica mattina. Non c’è tomba liquida nell’esìzio di un veicolo a pedali. A meno di trovarsi, nel preciso attimo presente, presso la città talvolta definita “Venezia del Nord” (dell’Europa, non semplice cima dello stivale) un altro luogo in cui acque e case coesistono felicemente, senza che le prime erodano le fondamenta delle seconde. Il che già è un tutto dire. Mentre non è insolito, come potrete immaginare, che il canale si trasformi in disponibile, accogliente discarica, per tutto ciò che ha terminato la stagione della sua esistenza. A torto o a ragione, visto come quasi ogni cosa, dopo tutto, possa dare luogo all’utile processo del riciclo.
Si potrebbe descrivere, volendo, come una sorta di pesca miracolosa. Gli operatori della Waternet, agenzia di stato olandese che si occupa, tra le altre cose, di effettuare la manutenzione delle vie acquatiche cittadine, si trovano alle prese con la loro singola mansione più affascinante, alla guida di una doppia chiatta veramente insolita, appositamente concepita per lo scopo. Che è rimuovere uno stratum, straordinariamente sorprendente, eppure eternamente rinnovato giorno dopo giorno, a seguito dei casi più diversi. Sotto l’occhio affascinato dei turisti, ma anche degli abitanti locali, perché una cosa simile non cessa mai di suscitare un senso di sorpresa, nel rimorchio sorge un cumulo, alto e gibboso, fatto di ruggine e metallo, ruggine con il metallo. Le cui singole parti costituenti, sono velocicli. Lo stesso gesto di una simile estrazione, ha un che di veramente straordinario. Sulla prua del primo natante è stata infatti collocata una gru con pinza, non così diversa da quelle tipiche del luna park. Colui che la manovra, quindi, sembra intento nella singola mansione professionale più divertente del mondo! A iterazioni ripetute, lo strumento cala in mezzo ai flutti, chiude la sua morsa. Senza un grammo di fatica, il manovratore tira la sua leva, vedendo riemergere di fronte a lui…Diverse cose. Vecchi elettrodomestici, carrelli della spesa, componenti metallici d’arredamento. Ma soprattutto, anzi quasi esclusivamente biciclette. Volete sapere quante ne riemergono, ogni anno, dai canali della sola Amsterdam? Secondo l’intervista dell’estate del 2015 di Public Radio International (PRI) a Jan de Jonge, uno dei tecnici della Waternet, si parlerebbe di 15.000 unità. Quindici migliaia di veicoli a pedali: cifre da far girare ben altro, indubbiamente. Ma a questo punto appare lecito chiedersi, perché succede questo? Si tratta di uno strano virus che occasionalmente contamina la gente d’Olanda? Una sorta di propensione collettiva all’auto-privazione, dopo la privazione delle auto? Più meno. Non esattamente.