Un rinnovato quadro storico per le isole artificiali più antiche di Stonehenge

La situazione iniziò ad assumere contorni vagamente definiti verso i primi del ‘900: quando l’adozione dei nuovi approcci agricoli e le relative tecnologie di controllo e alterazione del paesaggio portò le genti di Scozia e d’Irlanda a prosciugare il basso fondale di alcuni dei loro laghi nascosti tra il verde di boschi millenari, trovandosi al cospetto dell’innegabile passaggio dei loro antenati. Pezzi di legno chiaramente fabbricati da mani umane, probabilmente facenti parte di un qualche tipo di struttura abitativa, e pezzi di ceramica fabbricati con metodi risalenti (almeno) all’Età del Ferro. Ma soprattutto un accumulo intenzionale di pietre, accuratamente accatastate l’una all’altra, tale da costituire quello che in origine, doveva essere un vero e proprio isolotto posizionato ad emergere tra i flutti, con uno scopo e una funzione difficile da definire. Poco a poco, quindi, gli studiosi iniziarono a compilare un catalogo, delle aree riemerse, quelle sottoposte ad iniziative d’archeologia subacquea e le altre piccole isole, da sempre chiaramente visibili per la popolazione, che tanto lungamente erano state date per scontate ed a cui veniva tradizionalmente attribuito il termine d’associazione incerta crannog (dall’antico termine irlandese crann, con il significato letterale di “piccolo albero”). Ma fu soltanto con l’invenzione, nell’immediato secondo dopoguerra, ad opera del chimico statunitense Willard Frank Libby, della topica datazione al carbonio 14, che un qualche tipo d’effettiva classificazione poté venire messa in atto per gli oltre 500 siti che gradualmente, stavano continuando ad allungare le liste dei patrimoni culturali preistorici della Gran Bretagna. Il sistema mediante il quale, attraverso la misurazione della quantità d’isotopo radioattivo contenuto in materiali d’origine organica, risultava finalmente possibile desumere l’epoca esatta della dipartita dell’essere, animale o vegetale, di cui aveva costituito originariamente la proprietà. E della seconda tipologia, in quei particolari recessi, era offerta la possibilità di trovarne parecchi, data la particolare composizione chimica e il contenuto d’ossigeno dei loch nella parte settentrionale dell’arcipelago inglese, tali da garantire una capacità di preservare attrezzi e materiale da costruzione in legno assolutamente superiore alla media, garantendo l’apertura di una valida finestra verso l’intento e lo stile di vita degli antichi popoli di tali terre. Così che, entro una decade, la definizione storica della faccenda raggiunse quello che venne considerato per lungo termine l’ultimo chiarimento: i crannog avevano tutti un’età massima di 2500 anni circa, risalendo a un’epoca in cui la pletora delle antiche culture proto-celtiche disgiunte in territorio pan-britannico iniziavano ad assumere un carattere e un’identità culturale comune. Questo, almeno, finché un evento imprevisto non distrusse completamente ogni cognizione precedentemente data per buona: quando i ricercatori all’opera presso l’isolotto artificiale del lago Olabhat di Eilean Dhomhnaill, presso l’isola delle Ebridi Esterne di North Uist non ripescarono quello che poteva soltanto essere, innegabilmente, un recipiente di terracotta risalente all’epoca del Neolitico, ovvero al minimo, 5.000 anni prima dell’attuale data. Una bizzarra, improbabile anomalia? La cosiddetta eccezione che conferma la regola? Ciò venne faticosamente affermato, senza mai veramente crederci, per svariati anni. Ma la situazione sembrerebbe aver assunto, grazie a uno studio pubblicato lo scorso giugno, toni e tinte di un tutt’altro tipo…

Leggi tutto

Un ponte che riunisce la Cornovaglia con gli spiriti del suo passato

Il vento soffia sull’alta scogliera, passando attraverso i molti spazi vuoti: le strutture scomparse, in mezzo ai ruderi, dell’antico castello brevemente abitato dalla corte del conte Riccardo di Cornovaglia nel 1200, prima che il richiamo delle crociate lo portasse a fornire il suo supporto amministrativo e diplomatico ai soldati impegnati in Terra Santa. Sibila tra le pietre della grotta di Merlino, sotto le propaggini scoscese del faraglione, dove il volto scolpito del mago scruta accigliato il moto insistente della risacca, ricordando l’impresa compiuta ancor prima che aveva dato i natali al più famoso, e importante, di tutti i re d’Inghilterra. Colui che in forma di statua bronzea artisticamente fessurata, la fida spada ben stretta tra le mani, sorveglia il sito rimasto del castello di Tintagel, ove il padre Uther Pendragon avrebbe posseduto, grazie al sotterfugio fornito dal più sovrannaturale dei consiglieri, l’inconsapevole donna adultera che presto sarebbe diventata sua madre. Cambiare aspetto? Ingannare le guardie? Soddisfare il desiderio carnale di un sovrano incline a giacere con la moglie del duca Gorlois, protetta oltre simili mura invalicabili, unite alla terra ferma da un unico ponte naturale di pietra, che “soltanto tre uomini avrebbero potuto difendere da tutti gli eserciti di Britannia”… Questioni da nulla, per colui che i Celti conoscevano come il bardo-profeta Myrddin Emrys, prima che lo storico “fantasioso” Goffredo di Monmouth lo ribattezzasse in latino nel XII secolo, associandolo all’anziana figura del condottiero romano Ambrosio (Merlino) Aureliano. Ma preservare una simile preziosa, insostituibile via d’accesso, anche attraverso il transitare inarrestabile dei molti secoli che ci separano dall’Era di tali leggende, ciò avrebbe superato di gran lunga persino le sue possibilità. E fu così che in un momento imprecisato, il faraglione di questo forte venne spezzato dalla furia ricorsiva degli elementi, portando al crollo di quel sentiero, utilizzato con grande profitto dai conti, duchi e sovrani di tanti anni fa. Il che non fu, in ultima analisi, un’ostacolo insuperabile, come potrebbero testimoniare le circa 200.000 persone che ogni anno si recano presso questi luoghi, per visitarli passando attraverso il villaggio omonimo di Tintagel, quindi giù per una lunga serie di gradini, attraverso un camminamento all’altezza approssimativa dei flutti e poi di nuovo su, faticosamente, oltre i molti metri che li separano verticalmente dalle antiche mura. Tutto è possibile, se c’è il desiderio, e in Eoni particolari diventa possibile ricreare persino il particolare spirito creativo della natura. Su appalto e suggerimento dell’English Heritage Fund, l’associazione non a fine di lucro incaricata di preservare e promuovere alcune delle più importanti località storiche d’Inghilterra. Che giusto nel 2015 indisse un concorso per la progettazione del nuovo ponte, costruito all’altezza massima concessa dalla scogliera in questione e per questo capace di ricreare l’antica via d’accesso dei nobili verso le mura che furono edificate da Riccardo di Cornovaglia. Selezione vinta dagli studi di architettura Ney & Partners e William Matthews Associate, collaboratori nel proporre quanto, giusto in questi estivi e salienti giorni, sta attraversando le ultime fasi del suo allestimento. Qualcosa che neanche il vento, potrà mai sperare di scardinare…

Leggi tutto

Un colossale uccello per salvare Atlantide sulle coste di Giava

“Se davvero l’atmosfera della Terra si sta riscaldando…” Dice l’uomo a Washington, sulla comoda poltrona che controlla il mondo, “Allora perché gli ultimi inverni sono stati tra i più freddi e lunghi della storia?” Oltre i picchi delle montagne costiere, al di là di un mare profondo e sulle coste di una landa remota, il suo stesso tono querulo viene impiegato da gente con tutt’altro tipo di problemi. “Se questa città veramente sta per scomparire, sommersa nelle acque del sottosuolo, allora perché i miei rubinetti restano ancora del tutto a secco?” Uomo di Jakarta, ottimista per definizione e (indubbia) sfortuna situazionale. Una delle città più tentacolari e sovraffollate del pianeta, con i suoi 10 milioni di abitanti metropolitani, oltre a ulteriori 20 nell’area immediatamente circostante della più importante isola d’Indonesia, tutti protesi a fare ciò che fa normalmente, l’uomo: consumare. Una risorsa sopra tutte le altre e quella risorsa, come apparirà evidente a questo punto della narrazione, è il fluido essenziale che ci da la vita, nella fattispecie quello estratto e portato entro le mura domestiche tramite metodologie per lo più private. Già perché in questi luoghi, vige una regola tipica di certi paesi in rapidissima via di sviluppo: lo vedi, ti serve, lo prendi. Esattamente come a Città del Messico, luogo affetto da una situazione simile benché a uno stadio molto meno avanzato, per cui le diverse comunità locali, in assenza di un allaccio affidabile alla rete urbana gestita dal governo, trivellano autonomamente in profondità, trovando una risposta artesiana (o almeno, così si spera) alla costante ricerca di fonti d’idratazione necessarie per continuare a condurre un’esistenza priva di stenti. Il che ha portato alla nascita di una sorta di graduatoria degli status sociali, secondo cui più è profondo e produttivo il tuo pozzo, maggiormente risulti degno di essere iscritto nell’albo dei “benestanti” o “facoltosi” abitanti della collettività. Ma come tutti noi sappiamo fin troppo bene, un palloncino sgonfiato alla fine inevitabilmente si affloscia soprattutto se sostiene un peso, e ciò risulta altrettanto vero quando si sta parlando di un gavettone non-più-ricolmo, sia che abbia il diametro di qualche decina di centimetri, che i circa 600 Km quadrati coperti dalle fondamenta di alcuni dei più svettanti (e ponderosi) grattacieli dell’intera area asiatica meridionale. Ecco, dunque, l’orribile verità: Jakarta sta affondando, ormai almeno da un paio di decadi, all’allarmante velocità di 7,5-14 centimetri l’anno, tanto che alcuni luoghi si trovano oggi circa 4 metri più in basso di com’erano al principio degli anni ’70. Il che non è propriamente o niente affatto l’ideale, quando si considera la vicinanza dell’Oceano, in costante crescita per il progressivo sciogliersi delle calotte artiche, nonché le frequenti e rovinose alluvioni che tendono a colpire a queste latitudini. Ed avrebbe molto probabilmente già segnato la fine di una tale metropoli, con conseguente spostamento della capitale altrove, come già teorizzato a più riprese sin dall’istituzione del governo democratico nazionale nel 1945, se non fosse per i pesanti interessi economici ed i copiosi investimenti compiuti per salvarla. Tra cui il più ingente, nonché significativo, resta ad oggi lo stanziamento di fondi per il progetto a lungo termine dello NCICD (National Capital Integrated Coastal Development) anche detto Tanggul Laut Raksasa Jakarta o “Muro gigante di Jakarta”. Le cui ali composte da isole artificiali, un po’ come le strabilianti ed inutili isole-palma di Dubai, dovranno innalzarsi a proteggere l’entroterra dalla ferocia ondeggiante del vasto oceano. Se soltanto le società appaltatrici, nonché i politici committenti, riusciranno finalmente a trovarsi d’accordo sui metodi e i tecnicismi collaterali…

Leggi tutto

Il fragile decoro metropolitano di una casa inesistente

Lord Savington calcò meglio il suo cilindro con un fiero gesto della mano destra, mentre aggrottando le sopracciglia rivolgeva una domanda al giardiniere Adam della sua tenuta, fabbro a tempo perso, che l’aveva accompagnato nel corso di un così strano e disdicevole frangente: “Che cosa intendi, questa porta non ha neanche la serratura?” Gli uccelli cantavano tra gli alberi della tranquilla Leinster Garden, strada in stile vittoriano posta a costeggiare il lato settentrionale di Hyde Park, graziata dal silenzio che soltanto un quartiere di abitanti facoltosi poteva avere verso i mesi di luglio ed agosto, quando la maggior parte di loro si era spostata in campagna o verso altre località distanti, abituali luoghi di ritrovo dell’alta società londinese. “Signore, mi dispiace ma sospetto che si tratti di uno scherzo dell’agenzia immobiliare. Sono mesi che cerca una seconda residenza da utilizzare nel corso dei sopralluoghi all’interno della city, e tutti sanno cosa pensa delle perdite di tempo e del suo corrispondente presso di loro, a seguito di del vostro alterco all’ippodromo di Sandown Park durante la corsa del 1836. Se si tratta davvero di una così splendida occasione, perché non ha mandato qualcuno ad accoglierci, stamane?” Ora alcuni ragazzi di strada, provenienti da un vicolo laterale, si erano assiepati all’altro lato del marciapiede, probabilmente richiamati dallo sferragliare del grosso paio di tenaglie portato da Adam per varcare eventuali usci recalcitranti sulla loro strada: “Del resto l’avevamo anche sospettato…” Quando a un tratto, costui tacque. Perché guardando negli occhi il suo datore di lavoro, aveva scorto quella luce particolare che indicava il punto di non ritorno, l’attimo in cui Lord Savington aveva scelto che non sarebbe tornato indietro a nessun costo, dimenticando ogni possibile implicazione ulteriore o eventuale conseguenza. “Passami gli attrezzi del mestiere, per favore; credo di aver sentito un suono in lontananza e c’è qualcosa che non torna” Un boato riecheggiò tra le colonne vagamente neoclassiche e nell’aria tremula per il calore, mentre un individuo dal bastante rango, come raramente capitava, faceva valere i privilegi e il vasto spazio di manovra derivante dalla propria posizione. Quindi un secondo e un terzo: adesso innanzi agli occhi rassegnati del compunto dipendente, l’uomo stava percuotendo selvaggiamente il pannello in rovere del varco, che iniziava a creparsi. Adam ebbe appena il tempo di gettare uno sguardo all’indirizzo dei ragazzini, che ormai sorridevano come delle jene dell’Africa Nera, descritte negli articoli su David Livingstone sopra le pagine dei tabloid. Quando voltandosi di nuovo, vide che la porta si era aperta, il suo Lord scomparso e benché stentasse a crederci, al di là di essa non ci fosse alcunché di nulla. Niente pavimento, ne pareti o soffitto, neanche l’ombra di una luce artificiale. Solamente uno spazio vuoto, apparentemente sospeso tra cielo e terra, occupato da vagheggianti volute di vapore e il suono distante di un treno. “Si-signore?” Gridò Adam dentro il valico di un’altra dimensione. La sua voce riecheggiava rimbalzando sulle pareti distanti…
La leggenda dei numeri 16, 17 e 17a di Leinster Garden è una di quelle particolari storie londinesi che, ripetute attraverso le generazioni, sembrano arricchirsi di ulteriori aggiunte o corollari, conquistando un posto di rilievo nella fantasia popolare della collettività. Si narra di consegne indirizzate verso un tale luogo, da parte fattorini destinati a vivere il significato più profondo di quel termine: “perplessità”. O di raccolte fondi gestite da personalità troppo insistenti, per il quale veri e propri ricevimenti furono indirizzati oltre queste mura, con dozzine d’invitati condannati a rimanere innanzi, interrogandosi sui meriti residui della propria sanità mentale. Per non parlare di quella volta in cui un giornalista dei nostri giorni alla ricerca, chiedendo ai due gestori degli hotel sorti in epoca contemporanea ai lati delle case misteriose, si sentì rispondere che entrambi credevano facesse parte dell’altrui complesso, stranamente silenzioso non importa in quale mese dell’anno. Cosa inspiegabile per molti residenti e non, finché la diffusione delle foto satellitari scattate per quel fenomeno tecnologico che è Google Maps (o Earth che dir si voglia) non avrebbero offerto una nuova prospettiva all’uomo della strada. Capace di rivelare come simili facciate nascondessero, nei fatti, nient’altro che una voragine profonda e tenebrosa. Verso le viscere segrete di un sottosuolo urlante!

Leggi tutto