Fortemente inarrestabile: un’altra macchina che taglia via le cime delle montagne

Dopo il diciannovesimo anno di dure battaglie, l’andamento della guerra iniziò una progressiva inversione di tendenza. I coloni dell’Impero di Alpha Centauri, che sin da principio non si erano fatti particolari problemi a rispedire al mittente interi asteroidi grandi quanto le antiche navi-arca, che molte generazioni prima avevano permesso all’uomo di disseminare se stesso nel cosmo come un virus, stavano iniziando a perdere sanguinosamente terreno. Grazie alle vittorie ottenute nel settore perduto, sotto il comando di ammiragli veterani, ma anche e soprattutto all’opera di un sol uomo: Kaizer Boyd, dalla cabina di comando del suo mecha grande quanto un grattacielo. 5.600 tonnellate di acciaio, secondo le cronache (nonostante il nome ufficiale della Federazione sembrasse riconoscergliene appena 5 migliaia) per 160 metri di lunghezza e 40 di altezza. Talmente imponente che una volta fatto sbarcare dall’orbita di un pianeta conteso, arrestando a malapena la sua caduta grazie all’uso di retro-reattori eiettabili una volta raggiunta la superficie, poteva muoversi soltanto grazie a un metodo ben collaudato, mentre agitava in giro la terribile proboscide scavatrice. Niente ruote, né cingoli o altri sistemi inerentemente condannati a sprofondare in qualsiasi luogo non fosse come 55 Cancri, il pianeta fatto interamente di diamante: bensì, saltelli sul suo singolo piede colossale, in maniera non dissimile da uno yokai monocolo delle leggende folkloristiche giapponesi. A un ritmo di sicuro non velocissimo, mantenendo ad ogni modo la certezza di raggiungere il suo fine ultimo in ciascuna circostanza: il raggiungimento e conseguente invasione armata, delle capitali sotterranee difese strenuamente dagli spaziali, le cui armi non potevano semplicemente penetrarne la corazza forgiata nelle rinomate fabbriche di Marte.
Di sicuro in un’ipotetica storia fantastica di guerre future, l’enorme scavatore RK 5000.0/R10 costruito e gestito dal vasto conglomerato ČEZ’ (České Energetické Závody) sotto l’etichetta PRODECO, avrebbe avuto un ruolo assolutamente di primo piano. Grazie all’imponenza tale da farne uno dei costrutti semoventi più grandi che abbiano mai calcato la terra ferma, ma anche quelli maggiormente in grado di pesare, in più di un modo, sull’ambiente naturale d’impiego. Operativo sin dai primi anni ’80 presso la Miniera di Lignite dell’Esercito (Lom Československé armády o più brevemente, Lom ČSA) situata nella parte settentrionale della regione di Boemia. e così efficientemente rappresentata grazie allo strumento digitale del time-lapse, nella ripresa caricata come unico contenuto sul canale YouTube di Ibra Ibrahimovič, un probabile (?) filmmaker locale. Oggetto controllato nella realtà dei fatti da 6 membri dell’equipaggio e fatto lavorare grazie a un insolito sistema ibrido sia idraulico che alimentato elettricamente. Ed è in effetti facile notare a quest’ultimo proposito, la presenza del veicolo dotato dell’ingombrante bobina di cavo, appartenente assai probabilmente alle una delle serie della PRODECO SchRs o ZPDH, esso stesso già più grande di qualsiasi autocarro abbia calcato, a memoria d’uomo, le strade asfaltate europee. Mentre gli stessi camion da miniera incaricati di raccogliere il materiale, essi stessi non più “piccoli” di 300-400 tonnellate, non appaiono dissimili da puri e semplici giocattoli di un bambino. Ma è il surreale movimento della nave madre, accelerato fino a 300 volte a seconda della scena, a rimanere maggiormente impresso allo spettatore, mentre il ciclopico implemento si solleva, compie un passo in avanti e quindi scende nuovamente a terra, con un suono ritmico simile a un peana tribale. L’unica metodologia possibile, nei fatti, perché possa estendere la sua portata verso nuovi territori di conquista…

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Florilegio del fuoco notturno che germoglia dal petrolio spropositato

Fu al confine inconoscibile tra il giorno e la notte, in un’epoca segnata sulle cronache dei Figli, che il sole diventò all’improvviso “malvagio”. Centinaia di migliaia di noi, persino milioni, recentemente fuoriusciti dal fatale bozzolo, e guidati dall’istinto del bruco-falena, che volavano sicuri verso l’alba, soltanto per andare incontro alla suprema purificazione dell’esistenza. Fuoco, fiamme ed una fine senza possibilità d’appello, pochi giorni prima che potessero sfruttare l’ombra di un enorme arbusto per nascondere le loro uova. Figli della giungla che dell’esser diventati volatili, non riuscirono mai a raccogliere i frutti. Andando incontro a quella magnifica fiamma, che chiamava insistentemente le loro ali. Dannazione dei lepidotteri; barbecue incostante; richiamo artificiale, nonché collaterale, anche per i nostri eterni nemici, gli uccelli. Poiché non c’è nulla che unisca le notturne specie contrapposte, quanto l’ansiosa ricerca della luce, anche a discapito dell’ultima scintilla di ragionevole sopravvivenza…
C’è molta devastazione nel meccanismo degli ecosistemi naturali, che deriva dalla pratica tristemente antropogenica del gas flaring o la bruciatura a cielo aperto di copiose quantità d’idrocarburi. Criticità particolarmente grave, ma se vogliamo al tempo stesso necessaria, nella prassi moderna e contemporanea della penetrazione a scopo estrattivo, che si espleta nella raccolta di petrolio e altri prodotti della decomposizione nascosti nelle più profonde viscere della Terra. Che contrariamente a una realtà ideale, non si presentano come una massa amorfa ed uniforme, ma in sacche sovrapposte dalla pressione largamente differente, il che tende a generare un’ampia serie di problemi di tanto in tanto. Particolarmente quando, all’estensione della colonna di trivellazione, lo spazio cavo all’interno di essa libera d’un tratto le sostanze accumulate durante l’opera, minacciando di sollevare dal suolo l’intero impianto tecnologico e tutti coloro che si trovano all’interno di esso. Ecco perché, come in ogni altro campo industriale, è previsto che simili installazioni vengano fornite di valvole di sfogo d’emergenza finalizzate alla liberazione delle quantità in eccesso, possibilmente nella maniera che viene considerata meno deleteria per il territorio ed il futuro dei nostri figli. In altri termini, bruciandola senz’alcun tipo di pregiudizio: un approccio che potrebbe sembrare contro-intuitivo, data l’enorme quantità di anidride carbonica liberata in conseguenza di un simile approccio nell’atmosfera terrestre, con conseguenze tutt’altro che inimmaginabili per il riscaldamento e l’effetto serra, benché ciò risulti del resto largamente migliore dell’ancor più grave alternativa. Per fare l’esempio a tal proposito del gas metano, il cui accumulo nel territorio porterebbe all’avvelenamento e successivo rischio d’incendio di quell’intera foresta che avevamo ricevuto il mandato implicito di preservare.
Ecco giungere in aiuto allora l’utile strumento, diventato popolare soprattutto nelle ultime due decadi, della cosiddetta flare boom o boma per analogia navale, evoluzione della stack o ciminiera, che piuttosto che produrre collateralmente una singola, gigantesca fiamma rivolta verso il cielo, divide il flusso degli idrocarburi in eccesso in un doppio arco a raggera, sopra e sotto, con l’accidentale effetto estetico di una decorazione post-apocalittica durante un concerto heavy-metal tenutosi sulle rive del fiume Flegetonte. Passaggio utile, nei fatti, a nebulizzare questo prodotto collaterale del processo, aumentando la rapidità d’emissione e riducendo al minimo i tempi per entrare in azione, ogni qualvolta si dovesse presentare una situazione di possibile pericolo incipiente. Un approccio convenzionalmente utile nei vascelli e le piattaforme petrolifere offshore, dove il rischio d’incendio a bordo risulterebbe particolarmente indesiderabile all’eventuale cambiamento del vento, ma che possiamo vedere perfettamente all’opera anche in questo ambito sperimentale russo, potenzialmente finalizzato a mettere alla prova il dispositivo o la bontà di un pozzo recentemente sottoposto a prospezione. Una visione a cui Lucifero in persona, chinerebbe in segno di rispetto il suo piccolo paio di corna caprine…

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Preziosa è l’uva di pietra che matura nei camini del mondo

Gli studi dei dentisti sono lastricati, o almeno questo è ciò che siamo indotti a pensare dal marketing del mondo gastronomico, di ottime intenzioni: “Credevo che il torrone fosse morbido” “Pensavo che il caramello sulla mela non avesse già raggiunto la consistenza del cemento a presa rapida…” “Ma questa pannocchia, non l’avevo cotta delicatamente a puntino?” Esistono d’altronde gesti a cui nessuno attribuisce in linea di principio alcun margine segreto di pericolosità latente. Nuclei a parte, piccoli noccioli non più spaventosi di un singolo seme di melone, c’è infatti molto poco dentro il frutto del vitigno a grappoli che possa essere un pericolo per la possente dentatura degli umani. A patto, s’intende, di evitare un fondamentale fraintendimento di partenza. Capace di scaraventarci, con la testa in avanti, nell’inferno odontoiatrico di un’antica varietà d’uva. Distretto di Mamuju, isola di Sulawesi, Indonesia: la data è (circa) il 2016, quando qualcosa d’inusitato fa per la prima volta la sua comparsa presso il mercato d’esportazione delle pietre, un curioso business trasversale per paesi come questo, dove l’estrazione mineraria era e resta responsabile di una considerevole parte del PIL nazionale. La chiamano in maniera totalmente non scientifica agata di tipo grape (per l’appunto, “uva”) dato l’insieme di caratteristiche pienamente mimetiche che includono colorazione, forma complessiva e soprattutto l’effetto macroscopico di un particolare abito cristallino, relativamente raro e definito botrioidale o su scala più grande, mammellonare. In forza della formazione di un alto numero di concrezioni simili a globi, attorno a granuli di sabbia, silicati o altre inscindibili particelle geologiche, fino alla sovrapposizione parziale nei punti di raccordo dell’agglomerato, dando luogo a questo aspetto complessivo stranamente simile ad un grappolo d’origine vegetale. Coincidenza se credete nelle coincidenze, oppure magica mimesi da parte del demiurgo che governa l’Universo, gli strani oggetti hanno da subito trovato una particolare nicchia molto redditizia nel settore della gemmoterapia, disciplina che rientra a pieno titolo nella collezione di arbitrarie cognizioni e pseudo-religioni post-moderne confinanti con il cosiddetto New Age. “Calmante fonte d’energia spirituale e conoscenza” viene detto dunque nei cataloghi, a patto, s’intende, di non fare in un attimo di debolezza l’azzardato tentativo di trangugiarla.
Occorrerà applicare, a questo punto, un importante distinguo. Poiché proprio la definizione scelta e qui sopra enunciata, per un così attraente nonché singolare minerale, potrebbe risultare valida a trarvi in inganno. Per agata s’intende quindi, almeno in linea di principio, una particolare varietà del minerale calcedonio con palese stratificazione su più livelli, tale da permettere la creazione decorativa del gioiello in bassorilievo policromatico noto come cammeo. Laddove il nostro strano tesoro geologico, di suo conto, presenta un’unico colore lungo l’intera estensione di un singolo cristallo, rientrando a pieno titolo nella categoria dei quarzi. E data la colorazione viola, quella ancor più specifica della preziosa, insostituibile ametista, il che finisce per porre le basi di un associazione mitologica davvero pregna di significato…

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Tremila metri sotto il Sudafrica, alla ricerca dell’ultimo grammo d’oro

L’oro: il metallo più prezioso nell’immaginario collettivo, sebbene ve ne siano di più rari, utili o funzionali a far fruttare un investimento. Lo sanno fin troppo bene, loro. Ma c’è un fascino immutabile, in ciò che può essere facilmente plasmato eppure non subisce gli effetti del tempo, non viene corroso, né subisce variazioni quantitative durante il riutilizzo successivamente alla fusione. A patto, s’intende, di potersi fidare di colui che lo lavora. Un tesoro assai più raro di quanto saremmo comunemente indotti a pensare, soprattutto rispetto a materiali facilmente estraibili come i diamanti, laddove tale oggetto del desiderio si trova in natura normalmente associato ai filoni di quarzo, tra le rocce ignee e metamorfiche che furono infiltrate dall’acqua di antichi oceani ormai rimasti privi di un nome. E in un mondo in cui per secoli e millenni plurime generazioni di minatori hanno passato una vita con in mano gli strumenti del mestiere, alla ricerca di un difficile sentiero verso l’arricchimento personale, sembrerà talvolta che ogni ultima possibilità sia stata sfruttata, qualsiasi vena a cui l’uomo potesse accedere dietro un investimento di risorse ragionevole sia andata incontro all’esaurimento. Benché l’opera dei nostri progenitori, di suo conto, non sia priva di effettivi lasciti, oltre a quelli intangibili che pesano sulla cultura e l’economia; così che dov’essi avevano scavato, i loro figli hanno continuato a farlo, e così i nipoti. Fino alla creazione, tra gli altri, di un caso estremo come i West Wits, il campo minerario situato a poca distanza dalla città sudafricana di Johannesburg dove hanno luogo alcune delle miniere più profonde al mondo.
Con nomi come Mponeng (“Guardami”) e TauTona (“Il Grande Leone”) nelle lingue delle antiche popolazioni locali, a cui tali depositi erano già noti, sebbene fossero in origine decisamente più accessibili da parte di opere estrattive a conduzione poco più che familiare. Prima che qui giungessero i macchinari e le maestranze della Ashanti Corporation, fondata in Ghana nel 1897 e destinata a diventare nel giro di pochi anni una delle compagnie estrattive più influenti e ricche al mondo, fino alla fusione, destinata a compiersi oltre un secolo dopo, con la AngloGold per una resa annuale misurabile in milioni di miliardi, visto come basti effettivamente estrarre 0,35 once da un’intera tonnellata di roccia, per poter riuscire a generare un profitto. Non c’è molto da sorprendersi, dunque, se lo scavo in questi luoghi fu condotto senza nessun tipo di risparmio, verso l’ottenimento di quelle che possiamo oggi definire, senza dubbio alcuno, le voragini più profonde mai scavate dall’uomo. Fatta eccezione per l’esperimento del foro di Kula o altri tentativi di trivellazione per scopi scientifici, comunque tanto stretti da non permettere la discesa da parte degli umani. Mentre le miniere sudafricane, di contro, riescono ad ospitare delle vere e proprie città dove non batte la luce del sole, con i loro governanti, mezzi di trasporto e regole completamente diverse da quelle della superficie . É perciò un mondo inaccessibile nonché crudele, quello descritto nei brevi e occasionali articoli scritti sull’argomento sulle testate internazionali, che parlano di tunnel da temperature superiori ai 60 gradi che richiedono l’impiego costante di speciali impianti di raffreddamento e i cosiddetti “minatori fantasma”, uomini disperati, spesso armati fino ai denti con fucili a ripetizione e granate incendiarie fatte in casa, che si nascondono in sezioni ormai chiuse della miniera, spesso con il beneplacito o l’impotenza dei lavoranti legittimi, per accumulare piccole ma significative quantità del desiderabile pegno di opulenza creato dalla natura. Al fine di condurlo a distanza di settimane o mesi, a patto che riescano a sopravvivere ai gas venefici e il costante rischio d’incendi, nelle spietate grinfie dei loro mandanti e padroni. Mentre l’opera di scavo inarrestabile continua, all’inseguimento di un tesoro spesso misurabile in pochi centimetri di giacimento, la coda ormai distante delle antiche sale di una mitica Eldorado africana…

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