“Così la gente ai piani alti mantiene il suo potere: parlando una lingua che stimola il terrore per l’ignoto e la sopravvivenza futura della colonia!” Declamò il Predicatore alzando la prima coppia delle sue sei zampe, per stagliarsi contro l’azzurro cielo sudamericano. La propaggine gibbosa del termitaio, teatro di tutte le interazioni tra gli strati sovrapposti di una società che si presumeva essere perfetta, nonché perfettamente in scala, per non ledere all’ambiente con l’impatto dell’artropode tecnologia abitativa. Piccoli gli insetti, di sicuro, ma non così le svettanti mura, costruite con la terra e la saliva delle loro bocche simili a minuscole tagliole. Chi poteva, dopo tutto, nuocere alle bestie proprietarie di un così alto monumento? Chi poteva penetrare dentro al guscio delle circostanze, invidiabili persino per lo sguardo altero degli Dei? “Profezie, minacce, apocalisse del Crepuscolo e creature grandi come montagne. Eppure, di tutti quelli che hanno visto il Mirmecofago, nessuno è mai riuscito a sopravvivere per raccontarci del suo aspetto. Davvero molto… CONVENIENTE!” Mentre simili parole dalle molte ramificazioni come le radici di un ontano risuonavano possenti nelle luce del mattino, il mondo stesso cominciò a vibrare. Le vedette in cima all’edificio, emettendo feromoni d’allarme, gridavano l’inaudibile avviso che sembrava presagire guai davvero grossi, per l’intero esercito percorso da un formicolìo fremente. In quel momento, un lungo serpente rosa penetrò dalla finestra panoramica sulla savana, sbalzando via il predicatore e tutti quelli che lo stavano ascoltando. Eppure, almeno la metà di loro non precipitò lontano, restando invece appiccicata all’essere venuto dall’Esterno. Con risucchio forte come il tuono, le spire si accorciarono d’un tratto. Mentre una piramide pilifera comparve nel pertugio, con un occhio fisso e assottigliato come la puntura di una spillo. Dalla folla rimescolata, si udì una voce acuta: “Morte, morte, il mostro è giunto. Manovali e militi, sudditi e padroni. Preparatevi a finire nello stomaco del grande aspirapolvere ursino!”
Un destino, da un certo punto di vista, peggiore di qualsiasi altro possa essere conosciuto agli insetti. Poiché il formichiere gigante, anche detto tridattilo per la tripla fornitura di affilati artigli sulle muscolose zampe, non ha denti, muscoli masticatori degni di questo nome e neanche una sostanza corrosiva nello stomaco, per offrire una misericordia rapida alle moltitudini fagocitate quotidianamente per sopire la sua enorme fame. Le quali se non soffrono l’eterno fato nel momento in cui si schiacciano contro il palato della belva, procedono fin dentro al grande organo simile a una betoniera. Dove periranno, gradualmente, nello stesso acido prodotto dalla loro decomposizione. Un espediente furbo e pratico, come i molti altri grazie ai quali, nel procedere dei secoli e millenni, l’ingegno graduale dell’evoluzione ha dato forma a tutto questo. Il più letale predatore del pianeta, peggiore di uragani o terremoti, per lo meno dal punto di vista delle sue operose, piccole nemiche.
Capace di nutrirsi indifferentemente d’imenotteri o blattoidei, contrariamente a quanto potrebbe lasciar presumere il suo nome, preferendo nei fatti molto spesso i secondi in molti degli areali d’appartenenza, nella loro accezione eusociale famosa per i cumuli costruiti nelle vaste valli erbose delle più selvatiche circostanze. Eppure già scomparso, come i possenti dinosauri, dai territori settentrionali del Messico, l’Uruguay ed il Costa Rica. Per non parlare del Guatemala. Restando comune unicamente in alcune aree dell’Amazzonia, il Pantanal ed il Cerrado brasiliani, oltre a certe province particolarmente poco sviluppate dell’Argentina. Perché le dimensioni contano, ma ancor più di questo, è l’adattabilità a un’ambiente trasformato che determina le alterne fortune di una specie…
sudamerica
Lungo è il baffo dell’uccello che compete contro quelli della sua signora
“Mi stai prendendo in giro! Ma che razza di pinguino è quello?” Esclamò Lauren, all’indirizzo del capannello che costituiva l’animo e il significato della festa. Uno strano compleanno, il mio, che avevamo scelto di trascorrere sbarcando presso la Isla Lobos de Tierra, situata a 19 Km dalla costa del Perù. Iniziativa di dubbia legalità, dato lo status di santuario protetto popolato da una ricca varietà d’uccelli, molti dei quali soggetti a un rischio d’estinzione incipiente. Ma non lui, almeno non troppo a breve! Pensai, mentre impugnando il binocolo d’ordinanza per chi naviga in mare, spostavo lo sguardo dalla compatta barca da diporto verso l’entroterra distante, oltre l’alta montagna di guano. Per scorgere la piccola figura color grigio d’ebano, alta circa 40 cm, incorniciata tra le rocce proprio in mezzo alle sagome riconoscibili dei pinguini di Humboldt. Un uccello dal becco arancione scuro, la cui sagoma, persino ad una simile distanza, presentava almeno due tratti distintivi degni di nota: piccole macchie gialle sotto gli occhi, ed a partir da quelle, lunghe piume candide e arricciate, simili per forma ai famosi baffi dell’artista Salvador Dalì. “È una sterna, mia cara, della specie più particolare e riconoscibile della sua intera famiglia. Larosterna inca, uccello unico al mondo!” Mentre tentavo di metterlo a fuoco nella migliore possibile, il volatile dall’aria elegante si alzò d’un tratto in volo, puntando dritto verso il tratto di mare diametralmente opposto alla nostra posizione. Con poche agili falcate delle sue ali di gabbiano, passò sopra le nostre teste, tuffandosi agilmente in mare. Il cerchio, per un piccolo abitante con le pinne dell’azzurro ed infinito mare, a quanto sembrò in quel momento, si era compiuto…
Le leggende del popolo degli Inca, fondatore di uno dei più vasti imperi pre-colombiani, parlano di un creatura leggendaria simile ad un drago delle civiltà europee, chiamata Amaru. Esso aveva due teste, una d’uccello e l’altra di puma, con ali piumate ed una lunga coda di serpente. Ma soprattutto, l’abitudine insolita di vivere all’interno di caverne sotterranee, occultato agli occhi dell’umanità incostante, finché ritornava per portare in essa il rammarico e il timore nei confronti degli Dei. Caratteristica, quest’ultima, che possiamo ritrovare nello stile di vita della più famosa terna sudamericana, portata dal suo istinto a nidificare in terra nei pertugi più nascosti del vicino entroterra sudamericano, a patto che sia ancor possibile sentire il rumore del mare. Il che la porta, tanto spesso, ad approfittare proprio nelle tane scavate tra il terriccio e il guano ad opera dei più imponenti pinguini. Sebbene siano tra i più grandi e voraci rappresentanti della loro famiglia, necessitando di un continuo accesso ai branchi di anchovetas, le anguille Engraulis ringens oggi tanto spesso oggetto di pressione ad opera dell’industria della pesca contemporanea. Il che ha contribuito, di contro, a ridurre progressivamente l’habitat inerentemente adatto alla sopravvivenza continuativa di questi uccelli non particolarmente inclini alla migrazione, fino ad alcune specifiche isole presso il lato del Pacifico dell’America Meridionale. Col che non voglio dire che ve ne siano particolarmente pochi, allo stato corrente delle cose, vista la popolazione stimata dalla IUCN attorno ai 150.000 esemplari, capaci di donare una qualità riconoscibile al verso estremamente udibile di questa specie piena d’energia. Che la letteratura scientifica ama paragonare al miagolìo di un gatto, nonostante alle mie orecchie suoni assai più simile a un’orchestra infernale…
L’aguzza ferocia dell’albero dinamitardo sudamericano
Per tutti i crimini, le efferatezze e i madornali errori commessi durante la colonizzazione delle Americhe, sarebbe impossibile non riservare un minimo di considerazione nei confronti dei coraggiosi esploratori che. sbarcati dalle navi provenienti dal Vecchio Mondo, s’inoltrano per primi nelle giungle misteriose di quello che avrebbe potuto essere, sotto numerosi punti di vista, un pianeta totalmente diverso. Uomini e donne che tra gli alberi di giungle millenarie, vennero a contato con culture, una flora ed una fauna capaci di rimettere in discussione ogni assunto dato per scontato in merito a che cosa fosse possibile, o in qualsiasi modo conciliabile all’umana filosofia. Così che per ogni “indiano” caribe incontrato a sud del 10° parallelo, armato di cerbottana con dardi avvelenati e una tradizionale inclinazione verso il cannibalismo, i conquistatores potevano consolarsi, prima dell’ultimo minuto, accarezzando le gelide canne dei fucili a polvere nera, armi certamente di maggior impatto nella maggior parte delle circostanze presenti e future. Almeno finché un giorno, nelle oscure profondità occultate, non si udì un suono inconfondibile parecchie volte replicato: possibile che tali indigeni, per proteggere la patria dei propri avi, avessero ricevuto in dono la capacità di costruire esattamente la stessa tipologia di armi? Era un’indefinita mezza estate del XVI secolo, quando letterali milioni di alberi di jabillo videro finalmente maturare i propri frutti. E con roboanti tuoni, lasciarono esplodere verso il cielo la speranza di un glorioso domani…
Questo è il punto in cui generalmente, il narratore afferma per darsi importanza: “Sebbene a guardarlo, non sembri davvero niente di eccessivamente particolare…” Se non che la pianta che la scienza avrebbe un giorno definito Hura Crepitans, a causa delle sue sopracitate caratteristiche uditive, e la popolazione generalista albero del calamaio-con-sabbia, per l’impiego come materiale nella costruzione di tale prestigioso oggetto, non faccia molto per passare inosservato NEANCHE dal punto di vista esteriore. Un titano alto attorno ai 60 metri, dal legno duro e pregiato che tutti amerebbero scalare, se non fosse per il “piccolo” particolare di un tronco totalmente ricoperto d’escrescenze coniche affilate come rasoi, minacciosamente simili a denti di squalo. Spine che sporgono dalla corteccia, tali da esser valse allo svettante arbusto il soprannome surreale di “Scimmia-non-sale” in grado di sdrammatizzare, almeno in parte, la latente pericolosità di questa particolare espressione vegetale d’odio, spietatezza e malignità evolutiva. L’albero in questione infatti, appartenente alla vasta famiglia delle euforbiacee, ha la caratteristica piuttosto problematica di una resina biancastra e lattiginosa, la cui composizione ricca di lectine e per questo in grado d’inibire l’agglutinazione da parte dell’organismo risultava l’ingrediente perfetto per i suddetti dardi preparati dai nativi, capaci d’indurre nei loro nemici una serie di sintomi comparabili a quelli di una trasfusione effettuata con gruppo sanguigno errato. Mentre se l’albero veniva bruciato, in maniera più o meno intenzionale, il fumo diffuso risultava pregno di particelle in grado di causare gravi complicazioni di tipo respiratorio. Il che lasciava l’unica opzione sul sentiero di tenersi lontano, per quanto possibile, dal suo richiamo beffardo, garantendo per l’intero copro di spedizione una ragionevole sicurezza da parte di un così specifico pericolo della foresta. Giusto? Sbagliato. Perché non è certo un caso se, come dato ad intendere, un altro soprannome della pianta si sarebbe successivamente cristallizzato nell’inquietante aggettivo di “dinamitardo”….
La foresta non più amica del crestato pollo punk del Venezuela
Diritta, sottile, ininterrotta è quella linea che collega tutti gli esseri viventi, attraverso il lento trascorrere delle generazioni. Così succede che cambiando ambiente, circostanze, storia ereditaria di una specie, essa finisca non di meno per allinearsi, a suo modo, nello schema delle circostanze date per scontate altrove. Non che debba essere, nei fatti, soltanto un singolo caso di “altrove”: così i cracidi del Sudamerica, in realtà diffusi anche nell’istmo centrale del continente e ancor più sopra, in specifiche regioni del Messico meridionale, possiedano non soltanto caratteristiche dei comuni galliformi selvatici del Vecchio Mondo, come il fagiano, bensì altre mutuate per vie traverse dalla famiglia dei megapodidi, loro distanti cugini dell’Australia, Pacifico e Nuova Guinea. Verso l’ottenimento di un insieme di elementi che risultano fortemente distintivi, caratteristici e difficili da confondere con qualsiasi altra creatura. Osservate, come riferimento, questo maschio di Crax Rubra o hocco maggiore dal richiamo simile alla sirena di una polizia, il più grande, comune e forse più notevole di questi uccelli, 78-84 cm e fino a 4,8 Kg finendo quindi per ricordare nelle dimensioni il tacchino piuttosto che l’uccello simbolo delle nostre comuni fattorie. Eppur capace, nonché propenso, a svolazzar fin sopra gli alberi per ripararsi dai predatori, tra una battuta e l’altra per cercare frutti, bacche e semi. Mentre l’occasionale insetto, topo o piccolo mammifero d’altra natura non viene certo disdegnato, ogni qualvolta si presenti l’occasione di catturarne uno senza eccessive difficoltà. Ciò che lo distingue maggiormente da lontano, d’altro canto, è soprattutto l’aspetto e la disposizione delle sue penne, che al di là del dimorfismo cromatico tra i due sessi, li vede simili nella presenza di un ciuffo ondulato sopra la testa, che l’uccello impiega per segnalare l’intenzione di accoppiarsi, difendersi o imporre più semplicemente la propria notevole presenza. Caratteristica particolarmente nota di questo hocco (o currassow in lingua inglese) come molti altri appartenenti al gruppo dei cracidi, è l’istinto di aggressione notevolmente sviluppato verso chiunque invada il suo territorio, a partire da impreparati, imprudenti umani. Conduttivo verso una serie di feroci attacchi portati mediante l’uso degli artigli e il caratteristico becco gobbuto, di colore giallo nel maschio e nero della femmina con il resto del corpo marrone, rispetto a lui che è invece in genere del tutto nero.
Ogni comportamento ostile, per quanto concerne questo bistrattato uccello, appare particolarmente giustificato data la secolare tradizione di cucinarlo in una serie di piatti tipici, mentre le piume venivano comunemente usate per la costruzione delle frecce di antiche tribù di cacciatori, favorendo uno sfruttamento che avrebbe condotto, attraverso i secoli, a una progressiva riduzione dei loro gruppi sociali un tempo assai uniti. Ma tutto questo non è nulla, in effetti, rispetto alla riduzione progressiva dell’habitat boschivo necessario alla loro sopravvivenza, gradualmente trasformato dall’uomo in campi per la coltivazione della canna da zucchero e altre merci valide all’esportazione, con imprescindibile sofferenza della popolazione aviaria. Un fato condiviso, ed in maniera ancor più sfortunata, da taluni altri rappresentanti di questo particolare ramo dell’albero della vita, oggi inseriti dall’indice dello IUCN tra l’elenco degli animali a maggiore rischio d’estinzione del nostro delicato pianeta.



