L’unico attrezzo che permette di rapire un albero

tree-spade

Sentirsi piccoli non è difficile. Guardare fuori la finestra, verso il cielo vuoto e distante, o lasciar spaziare lo sguardo durante una scampagnata, per andare a perdersi con l’immaginazione tra le valli e i colli verdi, rotolando con la mente verso Sud. Un esercizio appagante, anti-stress, che aiuta ad allontanare la pressione gravosa dei propri problemi quotidiani. Ma che a volte, può peggiorare le cose. Per chi vive unicamente nel presente. Per tutti coloro che hanno una visione umanocentrica del mondo. Per chi ama i giardini piccoli, soprattutto perché in essi c’è il dominio della volontà sulla natura: quegli alberi e i loro svettanti rami! Le radici ben piantate, nel profondo della terra, che s’inoltrano fameliche tra i tubi che conducono alla propria sacra abitazione… Il tronco piantato, con le migliori intenzioni, dai precedenti proprietari del terreno, e che adesso incombe, prevenendo la realizzazione dei progetti che richiedono lo spazio per germinare. Si può giungere ad odiare una pianta? Probabilmente, si. E il séguito di questa storia, inevitabilmente, non ha proprio niente di particolare. Qualcuno impugna un’ascia, oppure una cornetta del telefono, con la stessa definitiva intenzione. Un taglio netto col passato, l’annientamento ostile della vita, affinché altri esseri, più vividi e fecondi, possano produrre nuove determinazioni degli spazi. Se invece il sentimento era più un senso vago di fastidio, oppure se si da valore all’antica forza stolida della corteccia, e si desidera evitare l’arbustocidio, allora si, che le cose iniziano a farsi veramente interessanti. E molto, molto complicate.
Intendiamoci, trapiantare un albero con la pala veicolare è un’attività che può trovare origine da molte specifiche necessità. Gli stessi vivai arboricoli, venditori di virgulti relativamente cresciutelli, difficilmente potrebbero affidarsi unicamente la metodo fondato sul sudore della fronte. Alcune amministrazioni cittadine particolarmente attente ai meriti dell’ecologia, nel frattempo, si affidano a sistemi simili per fare spazio alle loro nuove piazze o strade. Nessuna picea resta indietro! Nel caso di progetti architettonici di alto prestigio, invece, non c’è ornamento più efficace che un pino, un acero o un abete, rigorosamente già adulti e collocati ove lo sguardo dell’osservatore deve scendere verso il terreno, incontrando nuove linee del disegno avveniristico, o nel caso più meramente pratico, la semplice porta d’ingresso dell’edificio. Il punto di arrivo, insomma, quel buco precedentemente scavato nel terreno per accogliere il nuovo inquilino vegetale, può essere concettualmente anche quello di partenza: perché se lo scopo era soltanto TOGLIERE l’albero, perché mai fare tutta questa fatica? Che non è, sia  chiaro, di natura muscolare. Niente affatto, ed è proprio questo il punto: l’avrete certamente notato nel video soprastante della Treemovers, compagnia di Purcellville, Virginia, Stati Uniti, egualmente nota per la sua rapidità nel creare spazio a discapito dei nidi soprastanti, almeno quanto lo è per la sua nursery, presso cui è possibile acquistare molte specie differenti di portatori della corona di foglie: ciliege, querce, cipressi, salici piangenti… C’è n’è un po’ per tutti i gusti. Soltanto, prima di ordinare, vi consiglio di documentarvi con i video a seguire. L’operazione di trapianto, sotto diversi punti di vista, potrebbe risultare impressionante.
A cominciare dall’estrazione dell’esemplare scelto: nel caso mostrato in apertura, la pala veicolare impiegata per l’impresa era del tipo più grande, con lame curve concepite per adattarsi a molte dimensioni di albero senza tagliare una quantità eccessiva di radici. La quale, aprendosi lateralmente per avvolgere completamente il tronco, ha quindi iniziato a penetrare inesorabile nel terreno… C’era inoltre un attrezzo montato su un carrello elevatore e del tipo semi-troncato, su cui la compagnia faceva affidamento solo per scavare il buco di destinazione. È facile immaginare come un tale impiego in parallelo abbia velocizzato la missione.

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Nuove armi contro il ponte più pericoloso degli Stati Uniti

Canopener Bridge

È la morte sibilante che strisciando sopraggiunge sul sentiero, per arrampicarsi delicatamente su per le caviglie di chi transita, senza gettare sguardi cauti in mezzo all’erba. O in alternativa, sopra la sua testa, fra quei rami penduli che vibrano di ostili possibilità fatali. Non è forse vero, che la cose più terribili di questa vita, non le vedi, non potrai riuscire ad aspettartele nell’ora del risveglio? Pensa: cos’è peggio, un grande canyon del deserto largo come un campo da volley, che potrai vedere da chilometri, e se ci cadi dentro per errore, da cui uscire molto presto con la scala; oppure un oscura e sottile crepa nel permafrost del Nord, praticamente invisibile, larga esattamente quanto un corpo umano…Dal claustrofobico, tremendo senso di soffocamento. Incastrato! Come il traffico dell’ora di consegna…Che toglie il fiato ed il piacere al dì lavorativo degli autisti. Di camion. È una spiacevole realtà, questa, ormai davvero molto nota. Del temutissimo viadotto ferroviario di Durham, nel North Carolina, costruito secondo i crismi della tecnica del trestle bridge: concetto semplice, a descriverlo. Giacché anticamente (stiamo parlando della parte maggiore del XIX secolo) prima dell’invenzione della ruspa e del bulldozer, spostare grandi quantità di terra per far transitare un treno in tutta sicurezza se c’erano avvallamenti aveva costi straordinariamente proibitivi. Così succedeva, soprattutto negli Stati Uniti ma anche in Inghilterra e in molti altri luoghi d’Europa, che le compagnie ferroviarie affrontassero in dislivelli disponendo un qualcosa di straordinariamente simile ai tradizionali cavalletti, usati anticamente nei banchetti medievali, ma che in versione assai sovradimensionata, piuttosto che la tavola imbandita, sostenevano il binario stesso, a una distanza dal terreno che spesso variava. Niente di problematico, anche a distanza plurisecolare. Certo, se non fosse che, purtroppo, la gente avesse l’abitudine spiacevole di transitare sotto a quelle cose. Arrivando addirittura, che abitudine davvero preoccupante, a farci colar l’asfalto, seguìto dalle intere moltitudini del traffico gommato col volante! E pensare che non c’erano regolamenti, in origine, per un’altezza minima di sicurezza…
Ah, dannata gravità. Sia punito l’Ente della fisica (in)costante! Che determina come un oggetto lanciato a gran velocità, per la legge dell’inerzia, non possa fermarsi in tempo prima dell’impatto. Con apocalittico fragore, e un disgregarsi delle cose attentamente costruite… Chissà quando, chissà dove. I poveri camion sfortunati, il cui tetto viene srotolato come il tipico involucro del tonno confezionato. Per non parlar dei caravan, letteralmente fatti a pezzi… La maggior parte delle persone che assistono per la prima volta allo spettacolo per il web di quello che viene affettuosamente definito dai locali, e in modo particolare da una singola persona stravagante di cui parleremo fra poco, l’Eleven-Foot-Eight Canopener Bridge – il ponte-apriscatole di tre metri e mezzo – al termine del video chiudono la bocca, poi la riaprono con la più che comprensibile domanda: “Ma non è possibile alzarlo leggermente?” Si, certo che lo è. Al costo di un milione o due di dollari, forse anche di più, senza contare il disagio causato da un arresto prolungato dei treni che lì passano quasi ogni ora. Così la North Carolina Railroad Company, proprietaria del ponte, ha preferito piuttosto installare una trave d’impatto particolarmente spessa e resistente dalla parte del senso di marcia, tale da poter resistere all’impatto di svariati carri armati. Allo stesso tempo. E sarei pronto a scommettere che se avesse potuto, l’avrebbe fatta anche tagliente, per meglio sopravvivere al pericolo dei guidatori disattenti. “Ma allora…” Lo so, anche qeusto è un dubbio ragionevole: “L’amministrazione cittadina non potrebbe, che so, abbassare il tratto di strada che passa sotto al trestle bridge?” Di nuovo si, potrebbe. Se non fosse che lì è situato, fin da tempo immemore, un tratto fondamentale delle fogne cittadine. Apportare delle modifiche, dunque, sarebbe esageratamente dispendioso. Tutto quel che resta, dunque, è una segnaletica perfettamente concepita. E non è che da quel punto di vista, per lo meno, ci sia stato un serio tentativo di risparmio!

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Come spostare una barriera lunga quattro chilometri in un’ora

Zipper Truck

Come ogni giorno, mattina e sera, il camion giallo del Golden Gate lascia ancora una volta il suo deposito, per avventurarsi lungo il suo tragitto da un lato all’altro di quello che costituisce, da ormai 83 anni, il singolo ponte più famoso e fotografato del mondo intero. Tanto che la prassi di cui tale veicolo è il protagonista, in atto da circa un anno, non può che essere definita una sostanziale novità. La scena si verifica al termine delle due ore di punta maggiormente temute, ovvero quando gli abitanti della zona residenziale a nord del grande ponte hanno finalmente concluso la loro marcia, con auto, moto e vari tipi di furgoni, verso il centro cittadino, diciamo verso le 9:00/9:30 circa; quindi, ancora una volta di sera, in senso contrario e dopo le 19:00, quando l’ingorgo di ritorno a casa si è finalmente districato e tutti si apprestano al consumo della meritata cena. È una visione insolita, ma niente affatto incomprensibile: dopo il primo attimo di spiazzamento, persino a dei turisti provenienti da fuori come potremmo essere noi, appare totalmente chiaro quello che sta succedendo. Una squadra di circa 6 uomini, egualmente suddivisi nelle due cabine di comando del bizzarro veicolo, sono impegnati a manovrare la più grande chiusura lampo che si sia mai vista. Proprio così. Beh, non esattamente… Tuttavia, se ci fosse della stoffa attaccata agli oggetti della loro attenzione, ed un altro camion due corsie più in là, tale descrizione corrisponderebbe esattamente all’assoluta e chiara verità.
Si tratta di un’esigenza piuttosto gravosa, eppure del tutto inscindibile da questo luogo. Il fatto è che il vecchio e magnifico ponte, la cui costruzione condotta secondo i crismi estetici dell’Art Decò fu portata a termine proprio al culmine della grande depressione americana degli anni ’30, fu costruito pensando al futuro, ma non abbastanza. Ed ebbe un successo superiore alle aspettative; giacché la promettente città di San Fran, rispetto agli altri grandi centri della Costa Occidentale, non sembrava crescere in modo sufficientemente veloce. Eppure nessuno sembrava pensare, in quell’epoca, che sarebbe diventata di lì a un paio di generazioni la 13° per popolazione degli interi Stati Uniti. Con quasi un milione di persone concentrate in 600 Km quadrati, proprio sulla punta nord dell’omonima penisola californiana. Con una densità tale, da raggiungere quella della metropoli di New York! E tutta quella gente, che sarebbe restata unita alla terra ferma da un solo lato, se non per quella sottile striscia di cemento sospesa ai possenti cavi, lanciata coraggiosamente da un lato all’altro di una baia ventosa e soggetta a correnti particolarmente violente, tanto che per molti anni il progetto fu ritenuto “sconsigliabile ed imprudente”. Ma il fatto è che il ponte si fece, eccome. Anzi a chiedere agli odierni pendolari che ne fanno l’impiego più assiduo, ce ne sarebbero voluti anche due. Non credo sia nemmeno lontanamente comparabile al consueto concetto di ingorgo stradale, questa situazione di una vera e propria strettoia geograficamente insuperabile, attraverso cui devono filtrare quotidianamente, come i granelli di una clessidra, tutti gli appartenenti alla working class locale, che nella loro vita non sono stati abbastanza fortunati, o facoltosi, da procurarsi un’abitazione nella vera e propria Città della Nebbia (che non è Avalon, ma…) Sei corsie. Soltanto tre in ciascun senso, ed anche piuttosto strette, al punto che nei momenti di traffico leggero e veloce, il sorpasso diventa un’impresa complicata ed ansiogena per qualsiasi automobilista inesperto. Ora, in simili situazioni sulla terra ferma, generalmente si opta per un ampliamento del tratto stradale, tramite l’aggiunta di qualche costoso metro ai due lati della carreggiata, che si estenda per l’intero tratto oggetto del sistematico congestionamento. E qualcosa di simile, incredibile a dirsi, fu fatto anche nel caso di almeno un ponte, quello di Auckland in Nuova Zelanda, che nel 1965 fu visto arricchirsi delle due celeberrime “Nippon Clip-on”, delle aggiunte posticce alla carreggiata, prodotte e messe in opera dalla compagnia giapponese Ishikawajima-Harima (il buffo nome è un’eredità della diffidenza popolare rimasta dall’epoca dell’allora vivida seconda guerra mondiale). Grandi opere ingegneristiche, che tuttavia comportarono una spesa estremamente considerevole, ed iniziarono ad essere oggetto di continue limitazioni d’utilizzo dopo pochi anni dal completamento, quando si scoprì che un ipotetico, sebbene quasi impossibile ingorgo di grandi camion, avrebbe potuto teoricamente portare ad un cedimento catastrofico della loro struttura.
Mentre qui negli Stati Uniti della vecchia frontiera, fu chiaro da subito, si sarebbe scelto un approccio più semplice e tradizionalista. La definizione di una corsia mediana, o per così dire, “ballerina”, che venisse impiegata a turno dalla maggiore parte della collettività. Ed il problema fu, fin da subito, trovare un metodo per regolamentare la cosa…

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La mossa segreta del camion dei pompieri

Fire Truck Responding
Quel senso di stasi delle aspettative sulle circostanze, che sviluppa la tua mente mentre guidi su una strada lungamente conosciuta. Il volante che pare automatico nelle tue mani, le automobili come tronchi nel fiume, che ordinatamente seguono le indicazioni di giornata. Quando a un tratto, un brusco suono; come il grido di un uccello; la sirena dei pompieri. Panico, sbigottimento! Dove sei? S’immetterà da destra sull’incrocio? Si fermerà al semaforo, chissà? Soccorrere la gente non è facile. Richiede forza e abnegazione. E non prescindere da un certo grado d’incertezza, pensi, mentre spegni l’autoradio ed apri il finestrino (5 gradi al sole mamma mia) soltanto per udirlo meglio e poi comprendere da dove viene. Ah, quale futilità. Già l’autotreno rosso sopraggiunge, dal bel mezzo dello specchio sul lunotto, e inizia il suo sorpasso a gran velocità. È semplicemente…Magnifico. Brillante, agile come un levriero. Mentre invade l’altro lato della strada, priva di spartitraffico ma a doppio senso, ben sapendo come farlo senza correre il pericolo di un incidente. Ed è quello, atrocemente, l’attimo di una terribile realizzazione: che poco più innanzi c’è lo spartitraffico. E lo sfortunato camion, nella sua manovra, dovrà riuscire ad evitarlo. Ma se pure la motrice potrà farlo, è letteralmente impossibile, lo si comprende bene, che il rimorchio condivida il suo felice fato. Stiamo per assistere…A un probabile cappottamento! Oh, my! Se non che il pericolo si appresta, si avvicina, si tramuta in un’orribile certezza. E propria quando tutto pare sia perduto, il tempo pare quasi che si fermi. E il gran rimorchio, invece d’impattare il marciapiede ad abbondanti 80 Km/h, si agita come la coda di un serpente. Cambia, sinuosamente, la corsia.
È una questione largamente nota ad ogni bambino che si rispetti, sia stereotipico che in carne ed ossa, il fatto che il tipico veicolo dei vigili del fuoco sia “Ganzo, magico, meraviglioso!” Mentre soltanto con l’età si elabora il pensiero, supportato dall’imprescindibile evidenza, che tale strumento non sia dopo tutto altro,  in ultima analisi, che un autoveicolo ricolorato, con dispositivi e attrezzatura ad alta specializzazione. E chi ha ragione alla fine, tra il fanciullo interiore e il grigio adulto? Forse nessuno dei due. Ma il primo forse, da un certo punto di vista, ci era andato più vicino. Guardate qui che roba! Il protagonista della scena, per inciso, è un fire truck (poco più avanti la definizione) del dipartimento dei Vigili del Fuoco di Hillandale nel Maryland, sita sul confine tra le contee di Montgomery e Prince George. Una ridente cittadina di circa 6.000 persone, con molto verde, una chiesa battista, almeno due McDonalds e l’imprescindibile filiale di Walmart. Dove il problema più grande che il dipartimento di polizia debba affrontare, con cadenza reiterata, è qualche furto di trascurabile entità. Mentre i loro cugini con la pesante giacca ignifuga…
Sai com’è. Rosso, linguacciuto, tenebroso eppure caldo della luce dell’inferno e dell’esizio dell’umanità. Il fuoco non conosce remore, né sopratutto, sa cosa significhi dormire. Per questo occorre essere sempre pronti, ed attrezzati, al fine di combatterlo con la speranza di tenere aperta la fondamentale porta del futuro. Ed è un’acuta semplificazione quella, spesso fatta da lontano, senza un motivato interesse d’approfondimento, che fa di tutto un fascio e chiama i loro mezzi: “camion dei pompieri”. Non a caso, nella lingua inglese, esistono per approcciarsi all’argomento ben due termini distinti, entrambi d’uso comune: il fire engine, in dotazione a qualsivoglia reparto di vigili che si rispetti, è quella che noi chiamiamo normalmente l’autopompa. Un camion col cassone, pieno d’acqua, molti metri di tubo e un’equipaggio dalle due alle cinque persone. Sempre il primo sulla scena, perché più piccolo dell’imminente alternativa, e quindi relativamente agile, si suppone che inizi a irrorare liquidi smorzanti non appena riesce a raggiungere l’incendio, per poi essere attaccato ad un idrante, continuando il suo lavoro fino all’ultimo coronamento, PUF – s’è spento. Ma qualora dovesse servire ad aiutarlo, due-tre-quattro minuti dopo (non di più, generalmente) arriverà in determinati casi un vero e proprio fire truck, ovvero quello che noi italiani tendiamo a definire, le poche volte in cui ci preoccupiamo di distinguerlo dall’altro, l’Autoscala. Ed è forse proprio in essa, come ampiamente dimostrato dal presente video, che permane una scintilla misteriosa, per non dire quantica, d’improbabile sapienza ultramondana.

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