La cattedrale di marmo scolpita dalle acque della Patagonia

Come in un sogno, ripercorro i passaggi che mi hanno portato a vivere questo scenario senza pari: le 15 ore del volo diretto su un jet di linea da Roma a Santiago del Cile. E il charter che mi ha portato, con ulteriori due di attesa, dalla capitale dello stato formato da una lunga striscia verticale sul Pacifico, fino al comune meridionale di Coyhaique, cittadina relativamente giovane abitata da 50.000 persone. Dove l’industria principale è il turismo, grazie a un patrimonio impossibile da riprodurre altrove: lo splendore fantastico della natura… E poi da lì, la corriera di una trasferta pomeridiana, lungo la spaventosa strada di montagna e fino al piccolo paese di Puerto Tranquilo, che sorge sulle acque del più famoso lago condiviso tra due nazioni: il General Carrera/Buenos Aires, a seconda che si voglia scegliere il punto di vista cileno oppure quello dell’Argentina. E la notte trascorsa sotto le coperte, in questo luogo dove raramente si superano i 15 gradi di temperatura. Odissea finita? Non proprio, visto l’ultimo sforzo da compiere, svegliandosi alle 4:30/5:00 di mattina, per fare in tempo ad unirsi al gruppo d’escursione che, alle prime luci dell’alba, parte quasi ogni giorno a bordo di una piccola barca, diretta oltre il promontorio della baia e dinnanzi a ciò che sto vedendo, adesso, coi miei stessi occhi lievemente offuscati dalla commozione: una costruzione apparentemente artificiale, che si erge dalle gelide acque provenienti dai ghiacciai andini, anzi tre di cui due relativamente compatte, chiamate rispettivamente Cattedrale, Cappella e Caverna. Che tuttavia rispetto a ciò che sembrano evocare simili parole, presentano un fondamentale tratto di distinzione; che adesso appare, per la gioia degli spettatori in larga parte provenienti da diverse regioni del Sudamerica, in tutta la sua incrollabile magnificenza; il fatto di essere letteralmente sollevati dalla superficie dell’acqua straordinariamente azzurra da cui si ergono, su quelle che parrebbero a tutti gli effetti essere delle foreste di colonne individualmente rastremate al fine di accrescere il loro senso innato d’armonia, da sotto le quali filtra il bagliore di una luce ultramondana.
A questo punto sarebbe lecito chiedersi se un tale viaggio, fino ai confini più remoti della Terra, possa essere giustificato anche soltanto in parte dal vedere in prima persona una singola meraviglia della natura, per quanto unica nel vasto territorio delle lande raggiungibili per cielo o per mare. Potrebbe, intendo, se il passo successivo dell’escursione non consistesse nello spegnere il motore, e lasciare che l’inerzia guadagnata, assieme a qualche colpo di pagaia da parte del traghettatore, ci conduca tutti quanti al di sotto della massa di quell’edificio, tanto spesso paragonato al più vasto e appariscente tra gli edifici di culto tipici della cristianità. E non a caso, anche il nome ufficiale di un tale luogo è indicato sulle mappe come Santuario de la Naturaleza, quasi a porlo in contrapposizione a quello della Immacolata Concezione del Cerro San Cristobal, sopra la moderna città di Santiago de Chile. Personalmente non conservo alcun dubbio, in un così fatidico momento, che se soltanto questo luogo fosse altrettanto facile da visitare, sopratutto per i coraggiosi viaggiatori che provengono dall’estero, il suo numero di visite annuali potrebbe rivaleggiare con quelli che compiono l’irrinunciabile pellegrinaggio nei dintorni della capitale. Lo capisco quando, oltre la prua rialzata della barca, si profilano i disegni naturali creati sulla volta dell’arcano colonnato, strati e strati di azzurro, celeste, rosa e blu profondo, che in un gioco di luce senza pari si riflettono sull’acqua increspata dal nostro passaggio. Tra i passeggeri ogni conversazione tace momentaneamente, mentre ciascuno di loro reagisce a un simile spettacolo a suo modo. Chi si sporge dalla murata, nel tentativo di toccare le ruvide pareti con le sue mani. Chi scatta una rapida sequenza di selfie, da pubblicare su Internet non appena riuscirà ad agganciare il segnale di un ripetitore. Altri sembrano restare totalmente immobili, meditando sulle meraviglie del nostro inconoscibile universo. E per colui che fosse tanto scaltro ed abile, da riuscire a scrutare nel fondo delle loro pupille in quel fugace attimo, riuscirebbe a scorgere l’ultimo anello di una simile catena evanescente, che costituisce l’unico collegamento tra la nostra esistenza transitoria e la monumentale essenza della natura…

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L’entusiasmo dei border collie al servizio del rimboschimento cileno

Tre caballeros che galoppano nella foresta, le orecchie ben dritte sulla testa, il naso come un navigatore satellitare, che li conduce dritti verso un obiettivo remoto: vagabondare, senza una meta. A cosa serve, dopo tutto, un’idea anticipata del proprio itinerario, quando tutto quello che si deve fare è percorrere circa 25 Km in un pomeriggio, confidando nel progressivo alleggerimento delle proprie bisacce! Borse assicurate sui fianchi, da un duo di padrone solenni e coscienziose, ricolme di semi di coihue (faggio), roble (quercia), l’albero deciduo dell’alto raulì… E molti altri. Praticamente l’intero contenuto di quel particolare bioma, che potremmo convenzionalmente definire come la tipica foresta della nazione più lunga e stretta del continente sudamericano. Quella striscia di terra dell’ampiezza latitudinale di appena 350 km, la quale si estende dall’area del Perù e della Bolivia fino alla Terra del Fuego argentina, per un’altezza complessiva di 4300. La cui zona centrale, particolarmente nella regione del Maule, è stata colpita nel trascorso 2017 dalla più lunga e devastante serie d’incendi a memoria d’uomo. Ora storicamente parlando, fatta eccezione per il pericolo che costituiscono per l’uomo e alcune specie di animali, il fuoco non arreca danni duraturi a questo tipo di ecosistema; si potrebbe persino affermare che nel propagarsi di un determinato tipo di vegetazione, l’occasionale incenerimento del substrato sia benefico sul lungo periodo, poiché stimola la crescita dei nuovi virgulti. Esiste tuttavia una corrente d’analisi, supportata da dati statistici chiari, secondo cui le attuali condizioni del mutamento climatico, la riduzione della aree totalmente incontaminate dalla mano dell’uomo e la progressiva sparizione di animali funzionali alla propagazione vegetale, ci abbiano portati a varcare una soglia, che si è subito chiusa, impedendoci di tornare indietro. Quella della non autosufficienza, e l’incapacità di rigenerarsi, da parte dei nostri stessi polmoni planetari. E qui non siamo in un paese industrializzato come alcuni degli Stati Uniti, dove la densità di popolazione superiore e la conseguente diffusione di una moderna cultura ambientalista, permette l’istituzione di giornate intere dedicate alla semina da parte di centinaia o addirittura migliaia di persone, intenzionate a trascorrere un pomeriggio diverso ma sopratutto, aiutare. Ecco dunque la base su cui le sorelle Francisca e Constanza Torres, con le loro tre cagnoline Das, Summer e Olivia, hanno deciso di mettere in campo lo strumento più potente a disposizione di chi abbia intenzione di cambiare le cose in meglio: la fucina cerebrale delle ottime idee.
Così le ritroviamo all’ombra dell’antica faggeta di Maulino, ricca di specie vegetali endemiche, il cui territorio è ancora oggi coperto da vaste cicatrici, macchie d’alberi parzialmente inceneriti e circondati da un letto di polvere scura e detriti. Mentre allacciano alle tre border collie di casa, madre e due figlie, delle speciali borse di loro concezione. All’interno delle quali svuotano, quindi, i sacchi di semi endemici acquistati a loro spese. Ciò che succede a questo punto, è rimarchevole nonché, da un certo punto di vista, del tutto inevitabile: chiunque abbia avuto modo di portare i propri cani in un luogo selvaggio, ben conosce l’entusiasmo trascinante dei nostri amici peludos quando si trovano a contatto con l’ancestrale richiamo dei loro lupeschi antenati. Specialmente qualora si parli, come in questo caso, di razze che non hanno dovuto sacrificare troppi vantaggi evolutivi per soddisfare i loro allevatori, potendo quindi fare affidamento su gambe forti, capacità respiratorie ideali e una rinomata intelligenza, sinonimo funzionale di curiosità e intraprendenza. Tolti i guinzagli quindi, e gridato il “Via!” Le operatrici ecologiche a macchie bianche e nere iniziano il loro percorso di guerra, correndo per ogni dove mentre il prezioso e rispettivo carico, un poco alla volta, viene rilasciato gradualmente, come fosse il contenuto di una grossa saliera.
L’operazione convenzionale del rimboschimento, secondo quanto descritto dalle linee guida internazionali, costituisce di norma un’attività estremamente metodica e logorante. Pattuglie di uomini e donne, facendo seguito a un preciso briefing operativo, ricevono una certa quantità di materiale, che devono quindi disporre a intervalli regolari lungo un itinerario attentamente determinato. Soltanto in questa maniera, le associazioni ambientaliste possono garantire una percentuale di semina riuscita che possa avvicinarsi per quanto possibile al 100%. Eppure, se è vero che questa attività dovrebbe sostituire quella naturali di uccelli, piccoli mammiferi e insetti, non è forse possibile ottenere dei risultati altrettanto validi sfruttando l’abbaiante teoria del Caos?

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Il ragno violino e i suoi terribili cugini americani

“Ero spaventato ma non troppo. Maneggio ragni ogni giorno. L’acqua li manteneva in uno stato di torpore assoluto sulla mia mano.” Questo diceva l’esperto di entomologia Quaoar Power, e tutti sarebbero stati pronti a dargli ragione vista la quantità di registrazioni eccelse da lui pubblicate su YouTube. Se non fosse che i due piccoli soggetti dell’esperimento, nella fattispecie, appartenevano ad altrettante specie notoriamente pericolose degli Stati Uniti, o persino letali per l’uomo: la vedova nera (gen. Latrodectus) e il recluso marrone (Loxosceles r.) a noi più noto nella sua forma e accezione mediterranea, notoriamente denominata sulla base della figura a forma di strumento musicale in corrispondenza del cefalotorace. Un pericolo più che mai attuale, vista la pubblicazione di ieri presso diverse testate locali e nazionali relativa ad una nuova serie di avvistamenti, localizzati in modo particolare nei quartieri Ardeatina e Laurentina del sud di Roma. Sembra addirittura che si siano verificati anche una serie di ricoveri presso ospedali non meglio definiti. La cosa strana è che la notizia, per lo meno nella sua versione proposta e ripetuta dai quotidiani online, è molto vaga e sembra fare riferimento, in maniera specifica, soltanto a “un uomo di 59 anni che ha rischiato la necrosi del braccio”. Il quale non può che essere, a meno di straordinarie coincidenze, il vigile urbano di Trento che lo scorso aprile, mentre effettuava dei lavori di ripristino in casa, era stato morso in maniera del tutto indolore, riportando a distanza di un paio di giorni conseguenze terribili: un degrado di tessuti tale da far pensare a una possibile amputazione, oltre a un malfunzionamento sistemico di fegato e cuore che in breve tempo l’avrebbe certamente ucciso, se non fosse stato salvato all’ultimo momento dai medici esperti dell’ospedale della sua città. Un simile fraintendimento fa parte di uno specifico copione, spesso ripetuto anche su scala internazionale.
Ora, non sto certo affermando che la notizia sia fondata sul nulla: assai probabilmente, il caldo di questi ultimi giorni ha causato un risveglio di molte delle 1.534 specie di ragni classificate in Italia, inclusi gli esponenti delle due temute famiglie messe in mostra sulla mano dell’imprudente Quaoar: la malmignatta (vedova nera nostrana) e per l’appunto, il ragno violino. Ed è dunque possibile che alcuni malcapitati cittadini romani, incontrandoli all’interno di magazzini polverose o edifici poco percorsi dagli umani, siano rimasti feriti dai loro piccoli cheliceri grondanti una pericolosa necrotossina. Ma le ondate di avvistamenti a seguito di singoli morsi diagnosticati di un ragno tanto difficile da identificare, almeno negli Stati Uniti, sono un’occorrenza straordinariamente comune. Al punto che, secondo uno studio effettuato recentemente, dei 581 avvistamenti registrati in California nel corso dell’ultimo anno soltanto 1 era effettivamente un Loxosceles, per caso trasportato da una famiglia del Missouri assieme ai bagagli del proprio trasloco. In America, dunque, grazie a una pubblicazione dell’università di quest’ultimo stato, posto grosso modo al centro dell’areale del ragno, esiste un sistema mnemonico proposto ai medici del pronto soccorso contro il rischio di falsi positivi, che si basa sull’espressione NOT RECLUSE. Acronimo di quanto segue: Numero (la lesione dovrebbe essere soltanto una) Occorrenza (il paziente racconta una storia credibile) Tempistiche (aprile-ottobre è la stagione) Rosso (il centro della ferita non dovrebbe mai avere quel colore) Elevato (niente gonfiore) Cronico (dura da più di tre mesi) Largo (la necrosi deve essere circoscritta) Ulcerazione (normalmente è assente) Gonfiore (Swollen) e Produzione di pus (Exudative). Tutto questo per dire che, nell’assenza di due o più di queste condizioni, viene considerato altamente improbabile che ci si trovi di fronte a un caso clinico di loxoscelismo, la malattia causata dall’effetto del veleno di questi ragni piccoli, ma pericolosi. Aggiungete a ciò il fatto che il loro morso risulti essere del tutto privo di dolore immediato, rendendo altamente improbabile che il paziente abbia la prontezza e presenza di spirito di uccidere l’artropode, portandolo con se dai dottori, ed avrete chiaro uno scenario particolarmente favorevole per la costituzione di scenari di frenesia collettiva. Come ampiamente veicolati da un certo tipo di giornalismo tipico del web, soprattutto in un contesto operativo anglosassone e statunitense. Mentre l’aspetto preoccupante della nostra ultima notizia è che in effetti, l’Italia presenta una situazione climatica relativamente uniforme, del tutto adatta al diffondersi e prosperare della specie nostrana, il Loxosceles rufescens, che pur essendo stato poco studiato rispetto alle controparti d’Oltreoceano, viene generalmente considerato meno pericoloso, almeno nei soggetti non debilitati o che non presentino predisposizioni particolari. Il che, d’altra parte, poco importa visto che l’unico modo per sapere se si fa parte del circa 37% della popolazione che sviluppa lesioni necrotiche, o il 14% che riporta condizioni cliniche ancor più gravi, è mettere letteralmente a rischio la propria salute o sopravvivenza.
Un importante ostacolo all’identificazione corretta del ragno violino resta, inoltre, l’esistenza di numerose specie simili e non nocive. Il che, considerato una lunghezza complessiva che raramente supera il centimetro ed il fatto che persino il disegno sul dorso che gli da il nome (comunque poco visibile) non sia affatto determinante, rende assai difficile poter affermare con certezza che la creaturina che si ha davanti appartenga alla specie in questione. L’unico modo sicuro, nel frattempo, sarebbe contare gli occhi dell’animale, che sono soltanto sei contrariamente agli otto di tutti gli altri aracnidi, benché sia ragionevolmente difficile immaginare che una persona comune abbia il tempo o l’istinto di farlo. Occhi che, per la cronaca, sono disposti in tre coppie perfettamente equidistanti, contrariamente al recluso americano in cui si trovano distanziati diversamente. Non che questo comprometta, in alcun modo, la loro capacità d’identificare la preda a cui danno la caccia durante le ore notturne…

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Skyshelter, grattacielo d’emergenza costruito da una mongolfiera

Sono 13 anni, ormai, che con cadenza regolare la rivista di architettura eVolo presenta i risultati del suo concorso internazionale “Skyscraper Competition” rivolto a tutti i giovani designer, studenti di architettura o perché no, i veterani che non hanno perso l’impulso di sognare. Con risultati degni di comparire, in rapida sequenza, sulla copertina di dozzine di romanzi di fantascienza. Già, perché il soggetto selezionato di volta in volta, al di la di fornire una contestualizzazione di tipo estremamente generico (quest’anno il tema è “sostenibilità”) lascia completa carta bianca ai diretti interessati, con l’intesa non scritta che qualsiasi ipotesi plausibile, per quanto non probabile, è passibile di partecipare e persino, con le giuste condizioni, vincere il premio finale. Onore riservato, verso la metà di aprile, a Damian Granosik, Jakub Kulisa e Piotr Pańczyk, creativi con un’idea davvero particolare, con il merito ulteriore dell’attualità. “Le statistiche dimostrano che ogni anno” Esordisce il breve video di presentazione: “….Si verifica una quantità maggiore di disastri naturali: inondazioni, vulcani, terremoti. Ma fornire i soccorsi dovuti spesso non è facile, a causa di problemi logistici e relativa inaccessibilità.” Di certo costruire un campo profughi richiede il verificarsi di determinate condizioni, soprattutto all’interno di un territorio rovinato dal recente verificarsi di simili eventi: si richiede, tra le altre cose, acqua corrente, energia elettrica e soprattutto, uno spazio sufficientemente grande da erigere una quantità di tende proporzionale al numero di chi ha urgente necessità di assistenza. Il che significa, all’intero di un’ipotetica città devastata: A – Scegliere un luogo che sia lontano dalla maggior concentrazione di feriti, oppure B – ritardare le operazioni, al fine di rimuovere le macerie e fare spazio ai servizi umanitari richiesti di volta in volta. Ma è mai possibile, nel tecnologico 2018, che esista un terzo e più risolutivo sentiero?
L’idea alla base del grattacielo Skyshelter, il cui nome completo risulta essere “Skyshelter.zip” (con un riferimento vagamente démodé al formato di archiviazione dei file inventato nel 1989 da Phil Katz) è disporre di un qualcosa che non soltanto risulta essere prefabbricato, ma anche dotato di una forma compatta estremamente facile da trasportare, ad esempio tramite l’impiego di elicotteri, fino al punto di sua maggiore necessità. L’edificio compresso nelle dimensioni (da cui il suffisso del nome) viene quindi saldamente ancorato al terreno mediante l’impiego di apposite fondamenta meccanizzate, poco prima di essere connesso ad un serbatoio semovente di elio o altri gas più leggeri dell’aria, al fine di riempire lo spazio cavo, fino a poco prima appiattito, che occupa lo spazio corrispondente ad un terzo della sua elevazione complessiva. Dando origine a quello che non sarebbe esagerato definire come una sorta di gioco di prestigio sovradimensionato: nel giro di una manciata di minuti, l’oblungo dirigibile inizia a salire, trascinandosi dietro le “mura” della struttura, in realtà nient’altro che stoffa polimerica con un’intelaiatura di pannelli creati grazie alla stampa 3D, in grado di fornire l’adeguato grado di isolamento dalle intemperie o le basse temperature. Con una progressione verso l’alto che potrebbe ricordare, essenzialmente, il funzionamento di una fisarmonica gigante. A quel punto, una volta raggiunta l’altezza desiderata in proporzione al numero dei bisognosi (che potrà anche non essere la quota massima prevista) il pallone verrà assicurato con dei cavi d’acciaio capaci di resistere ai venti trasversali, diventando un soffitto solido quanto qualsiasi altro. Ma, con un trovata certamente in grado di rientrare tra quelle che hanno concesso ai tre visionari il premio di quest’anno, dotato di un buco verticale in mezzo, con un depuratore situato nell’estremità inferiore, capace di raccogliere e purificare l’acqua piovana a vantaggio degli occupanti, oltre a fornire l’irrigazione a eventuali orti verticali che questi ultimi dovessero decidere di installare all’interno, nel caso in cui la loro residenza dovesse trasformarsi in una sede semi-permanente. Mentre nell’ipotesi migliore, che la situazione dovesse risolversi in un tempo ragionevole, il grattacielo potrà essere rapidamente sgonfiato, pronto per il sollevamento mediante la stessa serie di elicotteri che l’aveva portato fino a lì…

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